All'epoca della conquista delle vette principali - Monte
Bianco, Monte Rosa, Gran Paradiso... -, nelle Alpi Occidentali segue un
periodo durante il quale l'attenzione degli alpinisti si rivolge a
quelle cime, come i Drus, che rivestono carattere per così dire
“secondario”. Se volessimo proporre delle date precise, consci dei
rischi nei quali così facendo è possibile incorrere, potremmo affermare
che la prima fase va dal 1786, l'anno della prima salita del Monte
Bianco, al 1865, quando venne conquistato il Cervino, mentre la seconda
si protrae per i successivi vent'anni. Dal 1885, poi, sarebbero state le
singole pareti a diventare protagoniste, per rimanere tali fino al 1938,
quando Cassin e soci ebbero la meglio sullo sperone Walker delle Grandes
Jorasses.
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Albert Frederick Mummery (Dover, 1856 - Nanga Parbat, 1895) si trova
dunque ad agire a cavallo di due fasi e, di fatto, tra le sue imprese
compaiono tanto prime ascensioni di vette “minori” quanto nuove vie su
cime già salite in precedenza. Ricordiamo allora, tenendo quale
riferimento la sua autobiografia alpinistica
Le mie scalate nelle Alpi e nel
Caucaso, di cui avremo modo di parlare più avanti, la sua prima
salita del Cervino (nel 1871: Mummery aveva quindici anni!), la prima
salita della stessa montagna per la Cresta di Zmutt (1879), la prima
salita del pericoloso canalone nord del Colle del Leone (1880), quella
dell'Aiguille des Grands Charmoz (1880, via ripetuta nel 1892 senza
guide), l'Aiguille Verte dal Glacier de la Charpoua (1881), la
leggendaria conquista del Grépon (1881, salita ripetuta nel 1892 e nel
1893, la terza volta con miss Bristow), il tentativo all'Aiguille du
Plan (1892, con alcuni amici), la prima salita della Dent du Requin
(1893, sempre con amici) e la prima ripetizione senza guide dello
Sperone della Brenva (1894). Desideroso di ampliare i propri orizzonti,
nel 1888 e nel 1890 Mummery si recò nel Caucaso e, il 20 giugno 1895,
con due amici s'imbarcò alla volta dell'Himalaya. L'idea era grandiosa -
ingenua e temeraria ad un tempo - e travalicava ciò che in quell'epoca
poteva essere concepito: salire il colossale Nanga Parbat (8125 m) per
la gigantesca parete Diamir, che sarebbe stata vinta soltanto nel 1962
da una forte spedizione tedesca guidata da Karl Maria Herrligkoffer.
Mummery affrontò la parete, salì fino ad oltre seimila metri confidando
solamente nelle proprie forze ed in quelle dei compagni, ma da quel
luogo selvaggio e meraviglioso non sarebbe mai più tornato.
«Mummery, il grande inglese, uno dei più notevoli alpinisti dei suoi
tempi. Non conosceva ancora le enormi dimensioni di questo monte, e
attaccò il Nanga Parbat... E' il primo che debbo ragguagliare, cui devo
rendere conto. Posso ben guardarlo dritto negli occhi, stare in piedi
dinanzi a lui mentre gli annuncio: non ho conquistato il Nanga Parbat
servendomi dei mezzi tecnici moderni, ma assolutamente come voi
intendevate, by fair means, con mezzi leali, con le mie sole
forze». Sono parole di un altro grande, di quell'Hermann Buhl che
esattamente cinquant'anni fa, nel 1953, da solo e senza ossigeno, toccò
per la prima volta la vetta della “montagna nuda”.
Ma cerchiamo ora di approfondire la conoscenza di Mummery, di cogliere
le idee che lo animavano e di giustificare, attraverso la lettura dei
suoi scritti, ciò che di lui è stato detto. La sua indimenticabile
fatica letteraria, citata poco fa e pubblicata a Londra nel 1895 - il
titolo originale è My climbs in the Alps and Caucasus – è un
esempio forse insuperato nel suo genere. Dalle sue pagine - sempre
fresche, mai retoriche e ancora attuali anche nella vecchia traduzione
in italiano di Adolfo Balliano (1930) - scaturisce l'immagine di un
alpinista totalmente estraneo da quegli ideali eroici, elitari ed
antistoricistici che, dalle figure quasi leggendarie di Georg Winkler e
di Paul Preuss, avrebbero raggiunto il proprio apice nel classico
“maledetto” della letteratura alpinistica: Fontana di giovinezza
(1922) di Eugen Guido Lammer (1863-1945). Sarebbe interessante tentare
un confronto serrato tra il volume di Lammer e quello di Mummery
tuttavia, per ovvi motivi di spazio, ci limiteremo a considerare alcune
pagine dell'opera del nostro inglese, notando immediatamente come la
narrazione dei fatti alpinistici passi talvolta in secondo piano di
fronte a ben più spassosi episodi. Non indugiamo, dunque, e immergiamoci
nella lettura.
«“Ah, caro Monsieur - è Alexander Burgener, la guida di Mummery,
a parlare -, ma non avete visto la piccola luce errante sul ghiacciaio
del Gorner? Laggiù non v'ha terreno paludoso. Dunque si trattava
veramente d'uno spirito”. Inutilmente io andava affermando ch'era una
lanterna. “Una lanterna! Che diavolo ci stava a fare? La sua direzione
era quella di un luogo dove non si passa mai; d'altronde non faceva i
movimenti di una lanterna, ma errava di qua e di là, guizzando e girando
proprio come può farlo uno spirito immateriale che non ha meta”.
Francamente – commenta ancora Mummery - la mia posizione stava divenendo
molto seria. E' cosa nota (attestata da tutte le autorità ecclesiastiche
delle valli di Saas, Zermatt e Anzasca) che chiunque ha scorto uno
spirito muore certamente entro le ventiquattro ore! Dissi a Burgener
che, stando così le cose, non c'era alcun vantaggio a far ritorno (la
comitiva si trovava sul Cervino, impegnata nel tentativo lungo la Cresta
di Furggen, ndr)».
Il giorno seguente Mummery, Burgener e Benedikt Venetz, tanto piccolo e
minuto quanto coraggioso e abile nell'arrampicata su roccia, si recarono
a Chamonix. «Il nostro animo - scrive divertito l'alpinista inglese -
era ancor preoccupato dalle diverse apparizioni incontrate la sera
prima. La spiegazione ch'io avevo data dei fuochi fatui venne accettata
ed essi vennero relegati nel semplice rango dei fenomeni naturali. Ma
era meno facile sbarazzarsi della piccola luce del ghiacciaio del Gorner.
Burgener e Venetz ritenevano che probabilmente qualche grossa pepita
d'oro se n'era andata sul ghiacciaio per ingrandirsi con altre
particelle, e sostenevano la loro teoria con argomenti assai ingegnosi.
Ero pronto ad accettare tutte queste spiegazioni ma non potei ammettere
che, nella sua fase di crescenza infantile, l'oro fosse capace di
compiere sul ghiacciaio passeggiate così idiote e senza scopo. D'altra
parte - e qui la narrazione di Mummery raggiunge il proprio vertice
spassoso - feci osservare che il luogo era adattissimo per costituire la
dimora di un drago e che i movimenti che avevamo visti parevan essere
quelli notoriamente soliti di un simile rettile. Le guide su questo
punto rimasero deplorevolmente scettiche e, nonostante gli argomenti
certificati veri da Schenchzer ch'io citai per avvalorare le mie parole,
non vollero ammettere l'esistenza di cotesta interessantissima bestia.
Giunti a Chamounix (sic), un amico entrò nella discussione
gettando sul problema una nuova e definitiva luce. Una scolaresca di
giovanette, con le insegnanti e i bagagli parafernali di studi e di
curiosità aveva trascorso qualche giorno a Zermatt. Desiderose di fare
diretta e intima conoscenza con il ghiacciaio, s'eran recate a passeggio
sul Gorner e s'erano sparpagliate sul ghiaccio». Una di esse finì per
perdersi, le altre intrapresero vanamente la sua ricerca e, dulcis in
fundo, giunse la notte. «Il signor Seiler si allarmò ed inviò una
guida a cercarle con la sua lanterna, e la guida passò il resto della
notte a cavar fuori tutta quella inconsolabile gioventù dalle buche e
dai crepacci svariati ov'era caduta. Le speranze di Burgener di far
fortuna, le mie di aver scoperto in pieno XIX secolo un vero dragone,
vennero distrutte...».
Chi fosse abituato ai racconti “bonattiani” (ci scusi l'interessato...)
non si scandalizzi: questo è Albert Frederick Mummery, che Doug Scott
non ha esitato a definire il più forte arrampicatore su roccia del suo
secolo. Dal brano che abbiamo considerato emergono chiaramente alcune
sue caratteristiche, prime fra tutte la capacità di sdrammatizzare ogni
situazione e poi l'innato senso dell'umorismo. Con Mummery incontriamo
un alpinista che pone i sacrifici e le sofferenze che la frequentazione
della montagna comporta in secondo piano; con lui l'arrampicata diviene
piacere e divertimento e dall'alpinismo - che pur era la sua ragione di
vita - egli non si lascia soggiogare e possedere completamente. La sua
intelligenza lo porta ad una visione oggettiva e nitida delle cose e,
come già è apparso dalle parole che abbiamo citate, egli instaura con le
proprie guide - e con Alexander Burgener in particolare - un rapporto
paritario.
Non è vero che Mummery rifiutasse l'alpinismo senza guide: egli cercava
invece nella guida un autentico compagno di cordata, del quale essere
amico e con il quale dividere onori e oneri della scalata. Mummery amava
il confronto leale e diretto con la montagna, fu nemico dei mezzi
artificiali e, giunto alla base della famosa placca Burgener sul
Dente del Gigante, lasciò un biglietto sul quale aveva scritto quella
che in seguito sarebbe diventata una delle frasi più celebri della
storia dell'alpinismo: «Assolutamente impossibile con mezzi leali (by
fair means)». Ancora, vogliamo ricordare le quasi commosse parole di
Gian Piero Motti che, nella sua Storia dell'alpinismo (1977),
scrive che «proprio oggi, dopo che l'alpinismo himalayano ha concluso
tutto il suo periodo di conquista, ricorrendo ad ogni mezzo tecnologico
lecito ed illecito per vincere, ricorrendo a colossali impieghi di
uomini e di capitali, si riscopre il valore dell'esempio di Mummery»
che, piccolo e smarrito, «ci piace immaginarlo ai piedi della grande
parete lucente, forte solo del suo coraggio e della sua intelligenza,
sovrastato dalla grandezza, ma non domato e soggiogato. Ma sia ben
chiaro: non vi è nulla di eroico nel suo gesto. Forse, riprendendo un
passo di un grande poeta, alcuni più di altri sentono in sé che non si è
fatti per “vivere come bruti”».
A questo punto vorremmo dedicare attenzione particolare
alla prima salita del Grépon, compiuta da Mummery con Burgener e Venetz
il 5 agosto 1881. In questa occasione il piccolo inglese supera la
famosa fessura di quarto grado che oggi porta il suo nome e, giunto in
vetta, compie un gesto simpatico e dissacratore che, in seguito portato
infinite volte ad esempio, all'austero Lammer sarebbe apparso a dir poco
sacrilego. «La vetta - scrive Mummery - ha dimensioni degne di un
palazzo e possiede tre seggioloni di pietra». Al più alto Burgener
àncora la piccozza, «il qual rito debitamente compiuto ci stendiamo
lunghi sulla roccia mentre ce ne ridiamo del tenue colpo di cannone del
signor Couttet sparato a Chamounix, cui rispondiamo col colpo assai più
esilarante di una bottiglia di champagne».
Nel 1893, come abbiamo già visto, Mummery sale il Grépon
per la terza volta ed è in questa occasione che miss Bristow, armata di
un colossale apparecchio “13x18”, scatta la celeberrima fotografia con
il grande alpinista alle prese con la “sua” temuta fessura. «La signora
della comitiva – scrive il nostro protagonista -, circondata da tre lati
dal vuoto e, dinanzi, bloccata dalla macchina si prepara a cogliere il
momento in cui un disgraziato arrampicatore si presenterà nella meno
elegante attitudine per essere ritrattato per sempre».
Il Grépon, dunque: «Una vetta inaccessibile - La più
difficile scalata delle Alpi - Una facile ascensione per signore». Così,
in tre definizioni, Mummery ne ha condensato l'evoluzione alpinistica,
comune, secondo lui, a tutte le montagne.
È nell'ultimo capitolo del suo libro che il nostro
simpatico e occhialuto inglese presenta in sintesi i suoi princìpi e le
idee che lo animarono e spinsero verso le grandi imprese. Cerchiamo
allora di cogliere tra le pagine di Piaceri e pene dell'alpinismo
i passi più significativi, tenendo ben presente, di fronte alla loro
incredibile modernità, che si tratta di parole scritte più di un secolo
fa.
«Alcuni notissimi alpinisti - così esordisce Mummery - la
cui opinione necessariamente ha un grandissimo peso hanno dichiarato che
i pericoli della montagna non esistono più. L'abilità, la scienza ed i
libri li hanno relegati nel regno degli spaventacchi cui non si crede
più. Non chiederei di meglio che di ritener buone coteste conclusioni
ottimiste». E già qui ci ritroviamo lontani anni luce da coloro che,
invece, cercavano nelle imprese alpinistiche proprio il rischio e il
pericolo e percepivano in se stessi come l'espressione di una forza
diabolica, una «spinta irresistibile, assetata di potenza, più forte del
nostro io. Essa è destino dell'uomo faustiano, non è evitabile, è
demoniaca». Sono, queste ultime, parole di Pino Prati, morto sul
Campanile Basso nel 1927 e sostenitore in prima linea dell'edizione
italiana di Fontana di giovinezza.
Mummery ci presenta poi un'affermazione di primaria
importanza nella sua concezione dell'alpinismo e che oggi, dopo
rivoluzioni mancate e più o meno celate restaurazioni, con tanto
discorrere attorno ai temi del rischio e della sicurezza, sembra
acquistare il suo pieno valore: «In sostanza se, per un istante,
consideriamo la essenza stessa dello sport alpino, è certo ch'esso
consiste, e consiste esclusivamente, nell'uguagliare l'abilità
dell'alpinista alle difficoltà opposte dalla montagna». E poco dopo
l'alpinista inglese sembra volerci stupire anticipando, nel 1895, idee
che sarebbero state “ripensate” soltanto un'ottantina d'anni più tardi:
«L'essenza stessa dello sport alpino - spiega - non consiste
nell'ascensione di una punta, ma solo nella lotta per sormontare le
difficoltà. Per conto mio - e il nostro inglese manifesta così il
proprio splendido rapporto con la montagna - sono ben libero di
confessare che salirei ancora s'anche non ci fossero più paesaggi da
vedere, anche se le sole scalate possibili consistessero in quelle
grotte, in quegli orribili buchi in forma di cupe marmitte dei valloni
dello Yorkshire. D'altra parte - aggiunge - andrei vagando ancora sui
nevai superiori, attratto dalle nebbie silenziose, o dai rutilanti raggi
di un sole declinante anche se infermità fisiche o morali, anche se dopo
il tempo trascorso - e qui Mummery, ancora una volta, non riesce a
trattenere il tono faceto - ali o altri angelici attributi fossero
venuti a trascinare in un lontano passato ogni idea di scalata su
roccia». Il grande alpinista dimostra poi la sua totale apertura al
divenire storico quando parla dello «scalatore futuro, essere ancora
ideale, che darà l'assalto a pareti che oggi noi guardiamo senza
speranza di crederle mai accessibili» e già si pone in antitesi rispetto
al concetto di sesto grado quale limite delle possibilità umane che, in
un clima sociale e culturale profondamente mutato, si sarebbe sviluppato
nei decenni successivi.
Ma se l'essenza dell'alpinismo è il superamento della
difficoltà, in che cosa consiste l'essenza dell'alpinista? La risposta è
chiara: «Il vero montanaro è un vagabondo - rivela Mummery - e per
vagabondo non intendo un uomo che spende il suo tempo nel percorrere la
montagna di qui e di là sulle stesse tracce dei suoi predecessori» ma,
«in altre parole, il vero montanaro è l'uomo che tenta nuove ascensioni.
Non importa se vi riesce o no; egli ricava il suo piacere dalla fantasia
o dal gioco della lotta». Un alpinismo “creativo” e “di ricerca” è
dunque quello del vero “montanaro”, di colui che rifiuta la brutalità e
l'eroismo retorico e che, invece, pone in primo piano la “fantasia” e la
lotta concepita come “gioco”. E', quello di Mummery, un alpinismo che
diventa - secondo quanto ha espresso con grande efficacia Bernard Amy in
uno dei suoi celebri racconti e in un intrigante articolo pubblicato nel
1980 - autentica arte: l'arte di creare nuove vie, nuove meravigliose
linee che solcano come rotte fantastiche oceani di pietra verticale.
«Dal 1879 al 1893, - sono parole di Amy - prima salendo il Cervino per
sei vie differenti, poi raggiungendo la cima del Grépon senza guide,
Mummery ha dato vita all'alpinismo moderno. La cima, per lui, non è che
un pretesto. Ciò che conta è la via percorsa, il piacere della scalata
di per sé, la tecnica perfettamente acquisita nell'ambito di
un'etica scelta e motivata dalla tecnica stessa. Ecco tutti i
presupposti che permetteranno agli eredi di Mummery di diventare dei
veri poeti ed artisti. La scalata di una montagna - e qui Amy ci fa
notare l'attualità estrema di Mummery, mai passato di moda - diventa in
quell'epoca ciò che è di fatto oggi, un'arte in sé, il “fine” di
un'azione in quanto tale». I veri eredi di Albert Frederick Mummery non
sono dunque coloro che nella scalata «invece di esprimersi, di
comunicare, cercano soltanto di dimenticare se stessi e il mondo che li
circonda» ma sono, al contrario, quegli alpinisti per i quali «lo stile
della scalata, la realizzazione, serve a trasmettere una certa
concezione dell'alpinismo e, oltre a questa, una vera e propria etica.
La passione per la montagna - ecco il nocciolo del discorso - suscita
allora una nuova arte di vivere, che a sua volta pone la tecnica nella
sua giusta dimensione e fa dell'alpinismo ciò che Mummery chiamava
unmixed play (un “gioco puro”)».
A proposito della pratica dell'alpinismo senza guide - e quindi
dell'idea che Mummery aveva delle guide stesse - è interessante leggere
un passo nel quale egli spiega che «forse è la compitezza, cotesta
supercorritrice della verità, che ha indotto i nostri maestri a dire che
“una comitiva non dovrebbe mai essere composta da meno di tre persone,
due delle quali han da essere guide”, a vece di dire meglio che “una
comitiva dovrebbe sempre essere composta di due esperti dell'alpe con o
senza l'aggiunta di uno o due esemplari di bagagli viventi”. Sarebbe
infatti stranissima cosa che i miei vecchi amici (corsivo mio)
Alexander Burgener ed Emilio Rey, desiderosi di valicare il Colle del
Gigante, fossero costretti a ricorrere a qualche debole scolaro o a
qualche decrepito turista prima di fronteggiare i pericoli del colle!».
Ancora, concludendo un discorso sull'alpinismo solitario,
giudicato in maniera assolutamente lucida e priva di esaltata retorica,
Mummery scrive di non essere un avvocato di tale modo di frequentare le
montagne perché «non occorre avere una profonda conoscenza della media
dei dilettanti per non sapere che nove su dieci di essi si romperebbero
il collo se volessero tentarlo seriamente». E anche se egli afferma che,
«da opposto lato, nulla sviluppa le facoltà altrettanto rapidamente e
completamente» quanto l'alpinismo solitario, con la sua innata
leggerezza si stacca dai motivi oscuri e iperindividualistici di Lammer,
per il quale «l'uomo più forte al mondo è colui che se ne sta solo». Se
questi poi ringrazia la montagna per «avergli bagnato le labbra alla
coppa della morte», il nostro caro Mummery, archetipo di un alpinismo
basato sì su premesse romantiche e teso verso sempre più grandi
difficoltà ma mai slegato dal contesto sociale e inoltre totalmente
estraneo al mito del superuomo, termina la sua narrazione affermando con
serenità che «l'arte dell'alpinismo consiste nel rendersi capaci di
rampicare facilmente, e cotesta arte può fino a un certo punto
praticarsi gradevolmente in modo compatibile con una ragionevole
sicurezza». Chiunque, in funzione delle proprie capacità e del proprio
allenamento, può gioirne, perché «fortunatamente per la più gran parte
di noi le grandi placche brune sospese oltre lo spazio incommensurabile,
le delicate ondulazioni della neve sulle scannellature del ghiaccio,
sono vecchie e buone amiche; esse ci portano la salute, la gaiezza e il
riso e ci rendono capaci di opporre un vigoroso disprezzo a tutte le
miserie che il tempo e la vita ci ergono contro».
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© maggio 2003 intraisass