Il ragazzo si svegliò all'improvviso e aprì gli occhi. Buio
assoluto.
Li richiuse e li riaprì subito dopo, senza percepire alcuna differenza.
Sempre buio.
Capì di non essere nel letto di casa sua, ma non gli sovvenne dove potesse
trovarsi.
Soprattutto quel buio così fitto gli appariva strano, quasi inquietante.
Possibile che non si vedesse nemmeno una piccola luce fioca?
Si alzò a sedere, ma vi riuscì a fatica perché il letto non aveva la
solita consistenza. Appena seduto, una folata d'aria fredda lo raggiunse
sul viso. Improvvisamente il buio fitto gli apparve “tagliato” da sottili
strisce orizzontali di luce. Era da quelle che gli giungeva l'aria fredda
sul volto. Un profumo intenso gli pervase le narici, era odore di fieno e
fu quello, subitaneamente, a fargli ritornare tutto alla mente con
precisione.
Si trovava in montagna, dentro ad un tabià, avvolto in una coperta,
sprofondato nel fieno secco.
Ecco spiegato quel disorientamento iniziale, l'odore intenso del fieno e
le strisce di luce a tagliare il buio: erano le fessure fra i tronchi che
formavano le pareti del tabià dalle quali filtrava la luce esterna
e s'intrufolava l'aria fredda della notte.
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Un ricordo lontano nel tempo, oltre quarant'anni.
Tanto è trascorso da quella notte, da quel risveglio improvviso.
Eppure quelle sensazioni sono rimaste vive, quasi “scolpite” nella mia
mente e nei miei sensi, perché quell'adolescente ero io e questo è il
ricordo forse più intenso di un periodo che mi è difficile definire
felice, ma a cui ripenso tuttavia con piacere. Probabilmente era soltanto
più aspro e disagevole rispetto al vivere odierno, ma tanto più semplice e
naturale.
Iniziavano gli anni del boom economico, ma nei piccoli paesini di montagna
quali erano Pecol e Piaia di San Tomaso Agordino, gli effetti si sarebbero
avvertiti con anni di ritardo rispetto ai centri urbani della società che
si andava industrializzando.
Lassù si continuava a vivere come sempre si era vissuto.
Gli uomini, quasi tutti, si trasferivano per lunghi mesi all'estero a
lavorare, prevalentemente nella vicina Svizzera, e le donne rimanevano nei
paesi con i bambini ed i vecchi. Il sostentamento era garantito dai soldi
inviati dall'estero, ma non si poteva ugualmente prescindere dal lavoro
nei campi e dalla cura degli animali che ogni famiglia aveva nella stalla.
Mucche, pecore e capre fornivano il latte che veniva conferito al
casèlo, così era chiamato il caseificio, dal quale, lavorato, sarebbe
poi ritornato sotto forma di formaggi, burro e pùine, cioè le
ricotte.
Più fortunati erano quei paesi stanziati nelle valli ampie e prative
perché lì gli animali potevano essere lasciati pascolare liberamente ed
erano sufficienti una o due persone a badarvi, cosicché gli altri potevano
dedicarsi all'artigianato e alle attività turistico alberghiere.
Ma nei paesi “arroccati” sui pendii delle montagne, com'erano Pecol e
Piaia, sarebbe stato quantomeno azzardato condurre le mucche al pascolo
perché questi non solo erano esigui, ma anche situati in luoghi impervi,
raggiungibili soltanto attraverso strade sassose e sentieri disagevoli, se
non pericolosi. Tutto ciò esigeva una fatica supplementare, quella di
andare a falciare l'erba di quei pascoli e trasportarla nei fienili del
paese per alimentare gli animali nelle stalle, oltre ad un'organizzazione
che coinvolgeva tutti gli abitanti del paese, con compiti e responsabilità
diverse, nessuno escluso. Così, ad esempio, gli adulti, adusi alla fatica
e alle alzate in ore antelucane, dopo la mungitura dell'alba portavano
loro stessi il latte appena munto con i contenitori in alluminio muniti di
basto per il trasporto a schiena, compito che di sera invece era riservato
ai più giovani.
Avevo assolto anch'io molto spesso durante le estati quel compito faticoso
(erano tre i chilometri da percorrere a piedi per arrivare a San Tomaso e
altrettanti ovviamente per tornare), ma anche piacevole perché momento
d'incontro con i ragazzi che arrivavano dai paesi vicini ed occasione per
qualche innocente “scaramuccia” amorosa con le ragazzine che condividevano
l'incombenza.
Ma il momento più interessante ed anche affascinante di quell'organizzazione
non codificata, tuttavia perfetta, cadeva d'estate quando la gran parte
degli abitanti di Pecol e Piaia imboccava quella che oggi potremmo
definire “la via degli antichi pascoli”.
Altro non era se non la strada che, appena sopra il paese, entrava ripida
nel bosco di faggi per inerpicarsi sulle pendici del monte Pìz e nella
quale, più sopra, confluiva quella proveniente da Piaia. Le dimensioni
della strada erano a larghezza di luoda, la caratteristica grande
slitta di legno, da sempre unico mezzo di trasporto dei fasci di fieno e
dei carichi di legna provenienti dall'alto della montagna. La strada
raggiungeva e attraversava un primo slargo erboso pianeggiante chiamato
Piàn Pezzei che, tradotto in italiano, suonerebbe Pian dei Pini ed, in
effetti, si trovava ad un'altezza alla quale queste piante, più avvezze
alle quote, prendevano il posto dei faggi. Proseguiva poi verso le
Còste de sora dove si trovavano altri prati molto ripidi, subito sopra
ai quali prendeva un andamento quasi pianeggiante per arrivare a
Cialàde, luogo da tutti conosciuto per la sorgente d'acqua che
sgorgava direttamente dalla roccia, tanto da risultare piacevolmente
fresca d'estate.
Da lì in avanti c'era soltanto un sentiero perché, dopo poco, si trovava
la stretta gola dei Rùi dove non sarebbe stato possibile realizzare
la strada per le luode, motivo per cui queste venivano
“parcheggiate” e successivamente caricate con il materiale trasportato giù
a spalla. Sopra ai Rùi il sentiero compiva un giro largo per
evitare una fascia di rocce nere e friabili e finiva con lo sbucare in una
conca prativa situata al di sopra del limite del bosco. In quel luogo da
tutti chiamato indifferentemente Mont de sora o Ciàmp era
stata costruita una serie di fienili con tronchi d'albero, i tabià
appunto, al fianco di ognuno dei quali stava una costruzione più piccola,
la casèra, nella quale venivano riposti i cibi e dentro cui si poteva
accendere il fuoco.
Le donne preparavano nei ciaudrìn, le pentole sospese sulle fiamme,
il mangiare costituito in prevalenza da polenta e minestre a base di
latte, patate e riso. Era, in pratica, un paese “fotocopia” abbandonato
per lunghi mesi all'anno che ritornava ad animarsi e a vivere nel tempo
della fienagione, perché ogni famiglia, o gruppo di famiglie apparentate,
aveva la sua casèra ed il relativo tabià.
Quando veniva il tempo del taglio dell'erba dal paese partivano i primi
per andare a fare la “base”, cioè quel metro di fieno indispensabile per
ricavare le cùze, i posti letto che altro non erano se non dei
giacigli formati da “un'impronta” ricavata nel fieno entro la quale si
posava la coperta per stendersi sopra e avvolgersi, coprendosi con il
fieno rimosso in precedenza.
Solo dopo saliva dal paese quasi tutta la “forza lavoro” e giù al paese
rimanevano solo i più anziani e le poche presenze indispensabili a
garantire la cura delle mucche nelle stalle e la consegna regolare del
latte munto. Ogni mattina Mont de sora si animava prestissimo poi,
terminata la frugale colazione, ognuno partiva per raggiungere il suo
prato da falciare ed ogni giorno il rito si ripeteva per arrivare a
tagliare l'erba fin sulle pendici del Sasso Bianco, ben oltre i duemila
metri di quota.
Era un lavoro capillare e meticoloso che non risparmiava nemmeno i pendii
più ripidi e le gole erbose più nascoste e disagevoli: ogni filo d'erba
che cresceva sulla montagna era tagliato, essiccato al sole e riposto nei
tabià fin quando questi non erano riempiti completamente.
Gli adulti passavano settimane di lavoro intenso, dall'alba fin quasi al
tramonto, che soltanto un improvviso temporale estivo avrebbe potuto
momentaneamente interrompere. Per i ragazzi, che poco pratici all'uso
della falce venivano impiegati successivamente al taglio dell'erba per
girarla con il rastrello in modo che si seccasse ben bene al sole, era in
pratica una vacanza poiché era abbastanza facile eludere la sorveglianza e
sottrarsi agli impegni per andare in giro.
Il passatempo preferito, il più divertente per i ragazzi ed il più
redarguito da parte degli adulti, era scendere dai prati più ripidi con le
sciàndole sotto al sedere.
Le sciàndole sono quelle piccole assicelle di legno una volta usate
in grande quantità per realizzare le coperture dei tetti delle casère
e dei tabià. Non era quindi difficile trovarne una che fosse un
poco incurvata in punta, lisciarne il fondo con qualche preciso colpo di
pialla ed inchiodarvi sopra di traverso un'assicella sottile con la doppia
funzione di appoggio per le mani e antiscivolo per il sedere. Era un
grande spasso lasciarsi scivolare sui ripidi prati appena falciati e fare
a gara a chi arrivasse primo per poi, rapidamente, risalire e
ricominciare. Soprattutto dopo un acquazzone il prato acquistava
scivolosità rendendo la discesa più veloce e quindi ancora più divertente.
Purtroppo era un gioco destinato a non durare molto.
Non appena il primo adulto si fosse accorto di quanto stava accadendo,
avrebbe subito impartito il comando perentorio di smettere perché non si
poteva consentire che il gioco danneggiasse anche solo una piccola parte
dei preziosi prati.
I ragazzi avevano imparato che era conveniente smettere ai primi richiami,
ma si guardavano bene dal rientrare alle casère con le sciàndole
perché altrimenti queste sarebbero state “sequestrate”, piuttosto le
occultavano in qualche cespuglio, così da tornare pronte all'uso alla
prima occasione favorevole.
Dopo svariati giorni di operoso e alacre lavoro i tabià
cominciavano ad essere pieni ed occorreva pensare al trasporto del fieno a
valle. Negli anni più recenti il faticoso e lento trasporto con le
luode era stato sostituito da un moderno ritrovato, molto più rapido
ed efficace: la teleferica.
Era costituita da un grosso cavo d'acciaio che, con un'unica campata di
circa un chilometro ed uno sbalzo di seicento metri, collegava Crèpe,
nelle immediate vicinanze di Ciàmp, con Còsta de sot, poco
sopra l'abitato di Pecol.
A monte i fasci di fieno venivano agganciati nel punto d'incrocio della
corda che li teneva legati, con un uncino fissato ad una grossa carrucola
di ferro successivamente posata sul cavo della teleferica e lasciata
andare con il suo carico attaccato. Nella stazione a valle il cavo
terminava su una robusta struttura costruita con grossi tronchi di abete
contro la quale i fasci terminavano violentemente la corsa.
Era uno spettacolo vederli partire e scendere rapidi a velocità crescente
e sentire le carrucole “fischiare” fino al momento dell'impatto contro la
struttura di tronchi. Subito dopo l'impatto gli uomini sganciavano la
carrucola e rimuovevano il fascio di fieno dalla struttura. La prudenza
aveva insegnato la buona abitudine di dare il via libera da valle al
lancio successivo, cosicché l'incaricato colpiva tre volte la fune con un
grosso bastone in modo che le vibrazioni si ripercuotessero fino a monte e
potessero essere percepite “al tatto”: era il segnale di via libera.
Noi ragazzi seguivamo tutte le fasi in un'atmosfera di allegria e di
crescente eccitazione, anche perché i lanci si susseguivano a decine.
C'era soltanto un piccolo particolare non troppo piacevole ed era quel
mucchio di carrucole di ferro che si andava formando e che sarebbero state
da riportare a Mont de sora per i lanci dei giorni successivi. Era
un'incombenza che toccava a noi, ma anche un'occasione per mettersi in
mostra, quasi una specie di prova d'iniziazione, perché era un segno di
considerazione avere il consenso da parte dei “grandi” di portare due
carrucole e non solo una, come i più piccoli. Per esempio, a me che venivo
dalla città e non ero “usà a far fadighe” ne veniva assegnata una;
tuttavia, soprattutto dopo una mezz'oretta di faticosa salita, non me ne
dispiacevo più di tanto.
Così fino a che l'ultimo filo d'erba non fosse stato tagliato, essiccato e
riposto, Mont de sora viveva la sua stagione operosa poi, lanciati
a valle gli ultimi fasci di fieno e svuotati i tabià, tutti
facevano ritorno alle case di Pecol e Piaia.
Sarebbero tornati l'estate successiva.
Ma tutto questo non poteva durare a lungo; la società industrializzata
sarebbe arrivata anche qui a cambiare la vita e le abitudini delle
persone, lentamente, senza quasi che se ne accorgessero, ma in modo
inarrestabile e irreversibile.
La strada che portava al paese finì con l'essere allargata anche
sacrificando il caratteristico ponticello di legno con il tetto di
copertura che impediva l'accesso ai camioncini e allo spartineve.
Arrivarono le prime auto e qualcuno degli abitanti cominciò ad uscire dal
paese per andare a trovare lavoro nelle fabbriche e nelle attività
turistico alberghiere insediate nel fondo valle.
Così quando, qualche anno dopo, un fulmine si scaricò sul cavo della
teleferica tranciandolo, pochissimi sentirono la necessità di
ripristinarlo. Chi aveva ancora mucche nella stalla si accontentò di
falciare l'erba nei prati più in basso ed iniziò l'abbandono di Mont de
sora.
Per lunghi anni i tabià furono lasciati al loro destino.
Qualcuno, in non buone condizioni, finì con il crollare, qualche altro fu
danneggiato dalle intemperie e dagli agenti atmosferici, la maggior parte
poté conservarsi.
Per fortuna, nonostante l'abbandono, un sottile filo rimase a legare quel
gruppetto di fienili con le genti dei paesi di Pecol e Piaia, cosicché
ogni tanto qualcuno si ricordava di andare lassù, magari con la scusa di
“dare un'occhiata” o di fare un giro. Finché i figli di quelli che avevano
speso dure fatiche in tante estati di lavoro tornarono a rivalutare quei
tabià che erano rimasti in piedi.
Decisero di tornare, a distanza di anni, quando si accorsero che la
società industrializzata e la vita moderna, quella del lavoro in fabbrica
e delle automobili, della televisione e delle discoteche, aveva cominciato
a stressarli.
Ripercorsero in tal modo “la via degli antichi pascoli”, non più a piedi
come i loro padri ed i loro nonni, ma con i trattorini a trazione
integrale, trasportando il legname, gli attrezzi e quant'altro dovesse
servire per la manutenzione dei tabià.
Ne sistemarono o ne rifecero i tetti, ne aggiustarono le porte, qualcuno
lo adattarono a baita e ricominciarono a frequentare Mont de sora,
non più per necessità ma per svago, al fine di trascorrervi dei periodi di
vacanza rigeneratrice.
Cosicché oggi Mont de sora esiste ancora, muto testimone di un
tempo e di un mondo passati, vivi soltanto nella mente di chi li ha visti
e vissuti