Io, anomalo fotografo della montagna
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di Michele Vacchiano | |
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Non ricordo un periodo della mia vita in cui non avessi in mano una macchina fotografica.
La Lubitel veniva con me in montagna e ne subiva di tutti i colori. Una volta, sul ghiacciaio della Traversière, la feci inavvertitamente volare dentro un crepaccio. Funziona ancora. Passai presto alle reflex sia di piccolo che di medio formato. Cresciuto fotograficamente in 6x6, ho sempre coltivato una particolare predilezione per il formato quadrato, caratterizzato da una sua lucida ed elegante follia sconosciuta ad ogni altro sistema fotografico. Approdai piuttosto tardi al grande formato, innamorandomene subito. Usare una fotocamera di grande formato consente la creazione di un'immagine considerata nella sua accezione di opera d'arte. La complessità delle operazioni necessarie per fotografare costringe a concentrarsi sulla qualità di immagine e sulla composizione, più che non sulle suggestioni extrafotografiche le quali, spesso, ci invogliano a catturare un momento magari emotivamente connotato, ma di per sé incapace di venire tradotto dalla pura bidimensionalità della fotografia. L'immagine che si forma sul vetro smerigliato appare capovolta e con i lati invertiti, accentuando le forme, le linee, i valori tonali e i colori in una limpida astrattezza capace di rendere chiari e immediatamente percepibili i puri parametri fotografici, senza le distrazioni derivanti dalla visione diretta del soggetto. L'ampia area di visione invita l'occhio a esplorare l'intera composizione, notando ogni minimo particolare, ogni scarto nei valori tonali. Il mondo che sta al di fuori della composizione (quel mondo che non compare nell'inquadratura ma che spesso spinge il dilettante a scattare una fotografia che si rivelerà impietosamente banale) è rigidamente tagliato fuori. Tutto ciò che esiste è quell'insieme astratto di linee e toni sul quale lavorare con geometrica precisione. Le vaste possibilità di
controllo dell'immagine consentono al fotografo di trasformare il mondo
circostante e di trasmettere allo spettatore la “sua” realtà, che è poi il
fine ultimo della fotografia creativa. La mancanza di automazione e la
semplicità d'uso mettono in risalto la superiorità tecnica del grande
formato. L'intero procedimento di ripresa trascina il fotografo in
un'altra dimensione, dove il livello di concentrazione si traduce in una
maggiore capacità di espressione e in una più raffinata creatività. Lo
stesso modo di fotografare è diverso: i costi di acquisto e di sviluppo di
una singola pellicola piana equivalgono a quelli di un intero rullino 35
mm, per cui non ci si può permettere il lusso di scattare a raffica,
“tanto poi qualcosa verrà fuori”. Se la reflex può essere usata come
“taccuino per gli appunti”, la macchina di grande formato richiede tempo e
attenzione per costruire una composizione “pensata” e strutturata nei
minimi dettagli. Ma per fotografare il paesaggio e l'architettura alpina il grande formato è – per me – il sistema di elezione. Ho una Sinar F2 ma non la porto in montagna se non quando posso lavorare senza allontanarmi troppo dall'auto. Per i lunghi tragitti a piedi preferisco una piccola e leggera (ma sufficientemente robusta e versatile) folding in legno. Non porto mai con me molti
obiettivi: di solito so già prima di partire quale sarà il genere
fotografico di cui mi occuperò in prevalenza. Per la quasi totalità delle
situazioni utilizzo un Sinaron SE da 210 mm (una focale leggermente
superiore alla “normale” per il formato 4x5”) e un 300 mm compatto, ideale
per isolare i particolari senza per questo gravare troppo sulla piastra
portaottica. L'esigenza di ridurre pesi e ingombri si fa sentire anche nella scelta del formato e del tipo di supporto sensibile. Gli châssis doppi tradizionali sono piuttosto pesanti, senza contare la perdita di tempo dovuta alla necessità di caricarli e scaricarli in camera oscura. Meglio allora le pellicole piane in confezione a caricamento rapido, tipo Fuji Quickload o Kodak Readyload. Lo svantaggio di questi sistemi è la scarsa scelta di emulsioni disponibili, resa ancor più scarsa in Italia dalla discutibile decisione, da parte degli importatori, di ridurre la varietà di pellicole disponibili sul mercato. Quando il cliente richiede un elevato numero di scatti ricorro a un dorso per pellicola in rullo prodotto dalla Cambo. Si inserisce come un normale châssis e fornisce otto fotogrammi 6x9 sul formato 120, consentendo un notevole risparmio in termini di spazio e leggerezza (per non citare l'aspetto economico) pur mantenendo a livelli ancora elevati le dimensioni del fotogramma e - di conseguenza - le possibilità di ingrandimento. Normalmente lavoro su pellicola invertibile, riservando alla ricerca e alla sperimentazione personale l'uso del bianco e nero. Anche la scelta del cavalletto deve rispondere alla doppia esigenza delle massime prestazioni col minimo ingombro. Per questo motivo ho acquistato in Germania un treppiede Berlebach in legno di frassino: il legno assorbe le vibrazioni meglio del metallo, è gradevole a vedersi, non gela le mani quando fa freddo e - soprattutto! - non attira i fulmini. A questo proposito mi preme sottolineare l'atteggiamento irresponsabile di certe aziende, che pubblicizzano i cavalletti in fibra di carbonio come adatti all'uso in montagna: la fibra di carbonio è un ottimo conduttore e io ho visto troppi temporali per andarmene a spasso con un parafulmine legato allo zaino! Un ulteriore “atout” del modello da me scelto è la colonna basculante, utile a compensare i dislivelli del terreno senza dover per questo ricorrere a una testa separata: tutto peso risparmiato. All'inizio non pensavo che il grande formato suscitasse un così grande interesse, non solo fra i partecipanti ai miei workshop (molti dei quali si sono già “convertiti”), ma anche fra gli escursionisti che mi accade di incontrare lungo i sentieri di montagna. Vedere un tizio con la testa nascosta sotto un panno nero che armeggia con una macchina monumentale è indubbiamente uno spettacolo inconsueto. E se alcuni si accontentano di osservare rimanendo a debita distanza, altri si fanno coraggio e si avvicinano, azzardando anche qualche domanda, la più frequente delle quali è: “Ma perché fotografa con una macchina vecchia?”. Di solito i profani (ma anche certi fotografi dilettanti) si stupiscono nell'apprendere che quelle apparecchiature dall'aspetto “ottocentesco” vengono tuttora prodotte, ed anzi rappresentano uno dei punti culminanti della ricerca in campo tecnologico. A questo proposito, una delle cose di cui mi rammarico è non poter usare all'aperto i dorsi digitali che i miei colleghi pubblicitari adoperano in studio. Ammetterete che alimentatori, cavi, batterie e computer (pur se portatile) sono piuttosto scomodi da trasportare al di sopra dei tremila metri. L'unica soluzione per me è confidare nei progressi della tecnologia e attendere che qualcuno produca un dorso digitale grande quanto un caricatore Polaroid, alimentato a batterie solari e dotato di un minischermo come quello delle videocamere digitali. Allora potremo riparlarne. Forse. Molti mi chiedono quale sia il mio approccio
alla fotografia, quali novità io proponga a chi frequenta i miei workshop
o osserva le mie immagini. Ciò che lo spettatore è chiamato ad analizzare quando osserva una fotografia non è l'immagine di un albero, di una casa, di un elefante o di una modella, bensì il rapporto che il fotografo ha saputo instaurare con l'albero, la casa, l'elefante o la modella; è lo stile con cui ha affrontato e risolto il problema fotografico che quei soggetti ponevano in essere; sono le modalità con cui - attraverso la rappresentazione del soggetto - è stato in grado di comunicare la propria intima visione del mondo. Il soggetto diventa così il semplice pretesto di una comunicazione che riguarda non più la realtà fenomenica, esterna all'uomo, ma l'uomo stesso (inteso come io comunicante) e il suo mondo interiore. Lungi dall'essere una rappresentazione della realtà, la fotografia va considerata come codice di comunicazione, grazie al quale il fotografo affida valore di segno a pezzi di realtà che di per se stessi ne sono privi e che il gioco semiotico trasforma - come per un'intima magia - in centri portanti del messaggio iconico. Un'opera creatrice che - così come la letteratura o la musica - comunica da un lato le possibilità del codice stesso, dall'altro la maestria con cui l'artista ha saputo piegare il codice alle proprie esigenze espressive. In una parola, il suo stile. Per questo la fotografia - come del resto ogni forma d'arte - non può prescindere da un totale, profondo, spesso devastante coinvolgimento emotivo. Un coinvolgimento che è prima di tutto intima comunicazione, compassione (nella sua accezione etimologica di “sentire insieme”), colloquio silenzioso, non mediato da segni umani, che si instaura tra fotografo e soggetto. Un soggetto che non va conquistato o catturato alla stregua di una preda (l'espressione “catturare l'immagine” è quanto di più lontano possa esistere dal mio modo di pensare), ma essenzialmente capito e conosciuto, grazie all'instaurarsi di un dialogo a doppio senso: condizione irrinunciabile per poter costruire, in seguito, un corretto rapporto semiotico tra fotografo e spettatore. Se voglio fotografare un albero o una montagna, io devo farmi albero e montagna; devo diventare l'animale selvatico che ho di fronte, sentirmi uno con la sua vitalità e il suo modo di essere. Questo implica, come abbiamo detto, uno sforzo emotivo. Ma richiede anche un non indifferente impegno intellettuale. Bisogna studiare, studiare e ancora studiare. Studiare la storia dell'arte se si vuol essere fotografi di architettura, l'anatomia umana se si vuol fare i ritrattisti, la zoologia e la botanica se si ci vuole dedicare alla fotografia della natura. Non c'è professionalità senza specializzazione, e questo è essenzialmente il motivo per cui le agenzie più serie tendono a scartare chi propone di tutto un po', preferendo invece i fotografi monotematici. Se le mie fotografie di stambecchi sono migliori di quelle della concorrenza è soltanto perché io conosco le abitudini di questi animali e so come entrare nel branco senza disturbarne l'armonia. Un risultato che è frutto, al tempo stesso, di studio, di esperienza e di capacità di identificazione/compassione. Tutto questo diventa impossibile quando il presupposto iniziale (o meglio il pregiudizio iniziale) è costituito dall'alterità del soggetto, dal considerarlo diverso, alieno, esterno-a-sé e pertanto non coinvolgente, al punto che ci si sente in diritto di catturarne l'immagine con qualunque mezzo, a qualunque prezzo (e questo vale non soltanto per i fotografi naturalisti che non esitano a recar disturbo agli animali pur di assicurarsi una fotografia da vendere, ma anche e soprattutto per coloro che in nome dello scoop e di un mistificato diritto all'informazione violano l'altrui intimità e l'altrui dolore). Porre l'accento sul soggetto significa di fatto considerarlo come elemento esterno, o meglio estraneo e per ciò stesso conquistabile; mettere al centro il fotografo significa capire che la vera comunicazione - riguardando noi stessi - richiede da parte nostra uno sforzo di conoscenza, di interiorizzazione e di coinvolgimento che certamente si rivelerà costoso, ma che ci consentirà di strutturare un messaggio realmente nostro e originale. Nel primo caso otterremmo una semplice, fredda, banale cartolina. Nel secondo, una fotografia creativa. Fotografare creativamente significa fare il vuoto dentro se stessi, raggiungere uno stato dell'animo affine alla meditazione, liberare le propria mente e lasciare che il soggetto (o meglio l'immagine mentale, l'eikon, che ci siamo fatti di lui) la pervada e la occupi nella sua interezza. Esiste una parola zen, mushin, che esprime la totale coincidenza fra l'uomo e il mondo, tra chi osserva e la realtà osservata (il che, a ben pensarci, rappresenta il superamento di quel dualismo così saldamente connaturato col pensiero occidentale). Come l'arciere zen, che scocca soltanto quando la sua mente, la freccia e il bersaglio sono divenuti una cosa sola, così il fotografo è chiamato a identificarsi con il soggetto, in un momento di totale comunione (ancora una volta “compassione”) che è - essenzialmente - conoscenza. Che si tratti di un paesaggio o di un animale, di un'architettura o di una persona umana, ciò con cui avremo a che fare non sarà più un pezzo di mondo esterno da raffigurare su una stampa bidimensionale, ma un'esperienza interiore capace di cambiarci e di arricchirci, un insieme complesso di significati che non soltanto deve essere conosciuto per venire fotografato, ma che essendo fotografato viene conosciuto e tradotto in comunicazione visiva. In un mondo sospeso fra l'aridità tecnologica fine a se stessa e il raggiungimento a tutti i costi di un risultato vendibile io propongo un nuovo umanesimo della fotografia, capace di capovolgere rapporti e valori, per riportare in primo piano il vero significato del comunicare. Chi avrà il coraggio di affrontare questa “rivoluzione copernicana” dovrà accettare le necessarie conseguenze che essa trascina con sé, conseguenze capaci di mettere in discussione ciò che si credeva di avere acquisito non solo dal punto di vista tecnico ma anche e soprattutto da quello estetico e compositivo. La prima di esse comporta, da parte del fotografo, un nuovo modo di rapportarsi ai propri strumenti di lavoro e alle conoscenze tecniche necessarie per farli funzionare. Se è vero che la fotografia è una forma di comunicazione, è anche vero che la realizzazione di immagini implica l'inevitabile utilizzo di attrezzature e di tecnologie. Anche in questo caso è indispensabile capovolgere l'approccio tipico del principiante, che sempre manifesta una certa qual dipendenza dal mezzo tecnico, visto di volta in volta come aggeggio un po' misterioso e talvolta imprevedibile, quasi dotato di vita propria, oppure come strumento imperfetto che permetterebbe forse risultati migliori se fosse più grande, più nuovo, più sofisticato, più costoso. L'idea che esistano macchine “professionali” è tanto sciocca quanto indelebilmente radicata nella coscienza collettiva dei fotodilettanti. Ciò che in realtà distingue la fotografia amatoriale dalla fotografia professionale non è il mezzo, ma l'uso che se ne fa. E proprio perché stiamo parlando di un sistema di comunicazione, diventa quasi intuitivo concludere che soltanto la perfetta conoscenza dei propri strumenti di lavoro, delle loro possibilità e dei loro limiti è in grado di garantire quei risultati espressivi che permettono al fotografo di dire quello che vuole lui e non quello che vuole la macchina. Ogni volta che il fotografo si chiede come regolare il flash o quale bottone azionare per impostare la modalità program, rende di fatto impossibile una vera comunicazione con il soggetto: la macchina diventa non più un tramite ma un impaccio, un ostacolo da superare. Per questo è importante impadronirsi delle procedure d'uso del proprio apparecchio ed interiorizzarle fino a renderle istintive. Bisogna arrivare a sentire la macchina come parte del corpo e del cervello, anzi, bisogna arrivare a non sentirla affatto: essa deve diventare un mezzo trasparente, privo di corporeità e di peso. In questo modo nulla si frappone tra fotografo e soggetto e la comunicazione scorre libera. Le ali di Icaro, non l'elicottero a ruote dentate di Leonardo. Senza dimenticare, peraltro, la conoscenza dei procedimenti fisici e chimici che stanno alla base della creazione dell'immagine. Queste nozioni, lungi dal rappresentare un narcisistico sfoggio di tecnicismo, costituiscono la base di quell'esperienza che porta il fotografo a dominare i propri mezzi espressivi evitando di esserne dominato. A questo proposito voglio suggerire uno spunto di riflessione. Quando le riviste di fotografia pubblicano le “prove su strada” di nuovi obiettivi, corredano solitamente l'articolo con fotografie banali e insignificanti. Se ad esempio l'autore dell'articolo vuole illustrare l'angolo di campo di un obiettivo grandangolare, si affaccia alla finestra di casa sua e fotografa il palazzo di fronte. E' un pigro? E' un incapace? Niente di tutto questo: semplicemente vuole che il lettore non rimanga distratto dall'osservazione di un bel soggetto ma si concentri soltanto su quello che effettivamente deve vedere: quanto inquadra il grandangolo. Quando il principiante acquista un nuovo obiettivo o una nuova macchina si comporta, più o meno consapevolmente, nello stesso modo: fa delle prove, il che significa concentrarsi sul mezzo tecnico e sulle sue prestazioni piuttosto che sull'immagine. E' giusto che sia così: si tratta di una fase indispensabile alla conoscenza dei propri mezzi di lavoro. Ma si tratta di una fase che è - e deve rimanere - iniziale. Che cosa succede a coloro che sono costantemente in caccia dell'ultima novità? Quelli che vanno in crisi se non seguono con pignoleria quasi maniacale tutti gli upgrade che le case propongono e danno fondo ai loro risparmi per assicurarsi l'ultimo modello di quella tale reflex che consente qualche prestazione in più rispetto al modello in uso? Succede che per tutta la vita continueranno a fare prove, ma nessuna vera fotografia. Ho un amico fanatico dell'alta fedeltà. Spende migliaia di euro in amplificatori esoterici a valvole, casse fatte a mano da un artigiano di Birmingham, piatti francesi e braccetti finlandesi... e usa il suo impianto per ascoltare i dischi di Kylie Minogue. Non è un amante della musica, a lui piacciono gli impianti stereo. Ecco, quando scopro che tra i miei allievi ci sono amatori di apparecchiature fotografiche, comunico loro senza mezzi termini che hanno sbagliato corso e insegnante: perché io parlo di fotografia e non di strumenti. Io insegno a fotografare partendo dalle attrezzature che ciascuno possiede, si trattasse anche di una compatta o di una usa-e-getta. E a chi mi obbietta che la compatta ha dei limiti rispondo che la cosa non mi impressiona affatto: anche il banco ottico ha i suoi. Perciò quando qualcuno mi domanda se sia meglio questo o quello zoom io di solito non rispondo, prima di tutto perché realmente non lo so, poi perché non me ne importa un accidente. I clienti comprano le mie fotografie perché sono belle e tecnicamente ineccepibili, ma a nessuno di loro viene in mente di chiedermi con che macchina o con quale obiettivo le ho scattate, se non a titolo di pura curiosità. Una seconda conseguenza di questo approccio “umanistico” alla fotografia coinvolge le tecniche e le procedure per determinare la corretta esposizione. Contrariamente a quanto la manualistica destinata ai principianti frettolosamente insegna, la “corretta esposizione”, intesa in senso assoluto, non esiste. Questo perché lo stesso soggetto può assumere significati diversi a seconda di come viene letto, interpretato e quindi esposto. In altre parole, per ogni soggetto esiste una quantità virtualmente infinita di esposizioni possibili, ognuna delle quali è in grado di raccontare qualcosa di peculiare e caratteristico. Chi non è convinto di quanto affermo, immagini di trovarsi in un bosco, là dove la luce solare che filtra fra i rami crea sul terreno macchie di luce accecante alternate a voragini di ombra profonda. Nessuna pellicola è in grado di tradurre correttamente questo elevatissimo contrasto tonale, per cui sarà necessario effettuare una scelta: esporre per le luci, lasciando che le ombre si perdano nel nero assoluto oppure esporre per le ombre, lasciando che le alte luci “brucino” nel bianco assoluto. Entrambe le scelte sono “giuste” (l'unica scelta sbagliata sarebbe fare una media), ma si tratta di scelte che coinvolgono soprattutto la composizione, più che non la scelta della coppia tempo-diaframma: in entrambi i casi, infatti, il fotografo curerà l'inquadratura in modo che le aree illeggibili (i neri “tappati” e i bianchi “bruciati” rispettivamente) occupino una parte non significativa della composizione. La scelta espositiva diventa così funzione della scelta compositiva: sarà stato il fotografo, e nessun altro, a scegliere l'elemento a cui dare importanza, non perché condizionato da un esposimetro, ma perché guidato dalla sua creatività. Questo dimostra, se mai ve ne fosse bisogno, che la coppia tempo-diaframma decisa dall'esposimetro deve sempre (sempre, non solo in caso di controluce o di condizioni difficili) essere sottoposta a revisione e adattata alle esigenze di comunicazione del fotografo. Il concetto fondamentale, che solitamente sfugge al principiante, è che la quantità di luce che giunge alla pellicola non costituisce un parametro assoluto, dipendente in maniera meccanica dalla quantità di luce riflessa dal soggetto (e pertanto misurabile), ma è una scelta espressiva. E in quanto tale non si misura. Si decide. La domanda giusta non è perciò “Qual è l'esposizione corretta per questo soggetto?”, ma bensì “Dove voglio far cadere il grigio medio?”. Solo a questo punto si potrà misurare la luce, per verificare quanto le diverse aree dell'inquadratura si discostano dal grigio medio e quanto occorre correggere per ottenere un'immagine i cui rapporti tonali coincidano con quelli dell'immagine mentale (l'eikon, ancora una volta) che ci eravamo fatti del soggetto (questa è la “previsualizzazione” di cui parla Ansel Adams). C'è una parola del greco antico, techne, il cui significato è tanto “arte”, “attività artistica” quanto “tecnica”, “lavoro manuale”. Anche l'artifex latino era allo stesso tempo artista e tecnico. I due significati rimasero immutati, nella coscienza dell'Occidente classico e cristiano, per tutta l'antichità e il Medioevo. Soltanto nel Rinascimento l'artigiano, il tecnico da un lato e l'artista dall'altro incominciarono ad intraprendere strade che oggi sentiamo come distanti e inconciliabili. Ma se esiste
una forma di comunicazione che ancora riunisce in sé i due antichi
significati, questa è proprio la fotografia. Nessun artista è costretto a
fare i conti con strumenti così tecnologicamente complessi, mentre nessun
tecnico riesce a piegare i propri mezzi di lavoro all'espressione di
contenuti tanto profondi. Per questo la fotografia - snobbata di volta in
volta sia come forma d'arte che come tecnologia, relegata dagli uni nel
cantuccio delle arti minori, dagli altri tra le tecnologie imperfette -
merita la considerazione dovuta ad un'attività dello spirito umano unica
ed irripetibile, le cui peculiari caratteristiche non trovano né possono
trovare termini di paragone adeguati. |
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© marzo 2003 intraisass © Michele Vacchiano |
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Michele Vacchiano
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