Pizzo Badile
Parete Nordest - luglio 1958

 

di Giancarlo Biasin

 

Voglio proporre quest'articolo di Giancarlo Biasin
non solo per il valore storico dello scritto, ma per
il conforto e lo stimolo che può dare a tutti gli
alpinisti in questa fase di discreta confusione tra
alpinismo ed arrampicata sportiva.
Tutti tendenzialmente miriamo a migliorarci sotto
l'aspetto tecnico, trascurando ‘inconsciamente’ uno
degli aspetti che costituiscono l'essenza dell'alpinismo:
la passione e l'ambiente.
Ebbene, io credo che tutti gli alpinisti debbano riconoscere
all'arrampicata sportiva il merito di un miglioramento tecnico
che molto ha giovato all'alpinismo; però, a molti ha anche
annebbiato le idee, allontanandoli dalle grandi pareti e
privandoli della cosa più importante che l'alpinismo può dare.
Ora leggete questo racconto e sicuramente vi farà meditare.

Arturo Castagna

 

__________

Dal notiziario ai Soci del CAI di Verona, Novembre 1958

Un lungo inverno era trascorso inutilmente: un banale incidente sciistico mi aveva costretto all'inattività per alcuni mesi.
Ero alquanto demoralizzato: l'impossibilità di poter collaudare le mie forze nella stagione invernale per poter affrontare con buone possibilità di successo una famosa e difficile via sulle Alpi nella stagione propizia, mi rendeva triste e nervoso. Leggevo e rileggevo in quel periodo numerosi libri di montagna ma ritornavo di continuo a “Stelle e Tempeste” di Gaston Rebuffàt.
Alla sera, prima di addormentarmi, ne sfogliavo spesso le prime pagine.
Gli occhi si chiudevano sulle fotografie delle Grandes Jorasses e del Badile e nel sogno, salivo leggero immense lavagne di granito, vincevo strapiombi, resistevo coraggiosamente al gelo dei bivacchi.
Con ansia e trepidazione a primavera ritornai ad allenarmi in palestra.
Ogni passaggio difficile superato alimentava i miei sogni.

Mattino del 21 luglio: riprendiamo l'arrampicata sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo. Dopo dodici ore d'immobilità, trascorse con gambe infilate nelle staffe ondeggianti sul vuoto sotto una pioggia insistente, finalmente ricomincio a salire.
Dopo questa prova ci sentiamo pronti e perciò non ci amareggiamo eccessivamente allorché, partiti un sabato per ripetere la via Soldà sulla parete Sud-ovest della Marmolada, il giorno dopo ci capita di non riuscire neppure ad arrivare all'attacco a causa del maltempo.
La prossima volta abbandoneremo le dolomiti ed andremo un po' più lontani: al Badile! Il mio sogno sta per realizzarsi.
Devo però vincere l'opposizione dei miei familiari a questa mia nuova partenza per la montagna. Invano tento di convincerli che sto preparandomi per raggiungere un ipotetico campeggio organizzato dal C.A.I. di Verona.

Quando ormai sto per aver partita vinta mio fratello, che desidera trascorrere un breve periodo di vacanza in Svizzera, m'avverte che partirà in “Lambretta”, perciò sarò costretto a cercarmi un mezzo di trasporto.
Alle nove di sera, proprio poche ore prima del momento fissato per l'incontro a Riva del Garda con Susatti, mi reco con un compagno da Giuliani e gli faccio presente la mia situazione. “Ho capito” mi risponde Renzo “prenditi pure il mio terribile Iso”. Tanta generosità mi commuove. Tento di tirar fuori qualche parola di ringraziamento ma lui mi mette alla porta facendomi gli auguri.

Dopo poche ore parto per Riva. L'amico mi aspetta ma quando sente che non son riuscito a trovare la guida delle Alpi Retiche né la relazione della salita su qualche rivista mensile del C.A.I. va su tutte le furie e quando poi, salito sul motoscooter, dopo averlo caricato di altri due zaini, vede che non riusciamo a superare i quaranta orari, fa previsioni addirittura catastrofiche sulla riuscita della nostra impresa.
Superiamo Brescia e Bergamo, e ci fermiamo a Lecco proprio dinanzi al negozio di Cassin dal quale pensiamo di avere qualche indicazione sulla salita. Purtroppo Riccardo è all'Himalaia e la moglie sa soltanto che, per ripetere la via di suo marito sulla parete nord del Badile, bisogna recarsi alla capanna Sciora in Svizzera. Ciò è per noi impossibile perché privi di passaporto.
Ci sarebbe tuttavia la possibilità, salendo a piedi dai Bagni del Masino al rifugio Giannetti e quindi all'arduo passo di Bondo, d'arrivare lo stesso sulle montagne del versante svizzero. Comprendiamo che con sacchi di oltre venti chilogrammi per far ciò occorrono due giorni ed io ho promesso d'essere a casa venerdì; ed oggi è martedì.

Cerchiamo perciò di passare il confine a Chiavenna, ma qui naturalmente ci ricacciano indietro in malo modo quando, alla richiesta di esibire il passaporto, tiriamo fuori la carta d'identità.
Mentre Fausto monta la guardia alla moto, mi reco dal brigadiere per convincerlo a lasciarci entrare. Non c'è niente da fare. Purtroppo fra i suoi compagni nessuno è alpinista e perciò non possono capire la ragione di tanta insistenza per rischiare la vita sulla più difficile montagna della zona.
Disperati e pur decisi a non tornare indietro, ci informiamo per passare attraverso i boschi, ma sono in molti a sconsigliarci.
Mentre sto per muovermi dal marciapiede per fare un altro tentativo di persuasione, un'auto tedesca, sopraggiunta di corsa, m'investe e mi getta a terra.

Sento un dolore terribile alla coscia sinistra e sto per svenire mentre intravedo confusamente il mio compagno cercare di prendere per il bavero il conducente dell'automezzo. Succede un parapiglia indescrivibile al termine del quale ci portano tutti al comando dei carabinieri.
Compilano verbali, interrogano testimoni, scattano fotografie sulla strada nel punto dell'incidente.
lo intanto però ho capito che non ho nulla di rotto e rassicuro l'amico. Penso che tutta questa confusione non potrà altro che giovarci ed infatti, mentre comincia a piovere a dirotto, convinco un Maresciallo che è stata soltanto una botta piuttosto forte e quindi lo prego caldamente di lasciarsi entrare in Svizzera per compiere questa benedetta salita.
Dopo un'ora di preghiera il buon uomo capitola. E' evidentemente stufo di averci fra i piedi. “Prendete pure le vostre moto e passate di corsa proprio adesso con questa pioggia torrenziale mentre le guardie sono tutte al riparo ma ricordatevi che, qualsiasi cosa vi possa accadere,io non ho visto ne ho detto niente”. Scattiamo come razzi fuori dall'ufficio e, sotto un diluvio d'acqua, spingiamo la “Iso” in Svizzera.

Siamo bagnati fradici ma contenti. La prima tappa del nostro viaggio si è conclusa felicemente. E' notte ormai quando, tutti sporchi e gocciolanti, calpestiamo i tappeti dell'ingresso dell'Hotel Bragaglia di Promontogno. Ci facciamo accompagnare nella peggiore camera dell'albergo, proprio all'ultimo piano.
Non riesco a prendere sonno malgrado i quattrocento chilometri di motoscooter. La coscia mi duole e devo riposare immobile sui fianco destro. Fuori, la tempesta infuria sempre più forte. Se per domani il tempo non si rimette al bello e se non riuscirò a camminare, dovremo ritornare con le pive nel sacco. Tutto allora sarà stato inutile. Cerco di non pensare a questa triste eventualità; sarebbe troppo amara la rinuncia dopo essere riusciti ad arrivare fin qui superando difficoltà ed ostacoli d'ogni genere.

Finalmente riesco a prendere sonno. Al mattino mi alzo presto; il tempo è incerto. Siamo subito in marcia portandoci ad est di Promontogno e risalendo una stretta e ripidissima strada dove Fausto è costretto a venir su a piedi. Ad un certo punto davanti a me non c'è che il bosco.
Abbandonata la fedele “Iso”, mentre stiamo per caricarci i pesanti sacchi sulle spalle, incontriamo una guida con la sua cliente. Parliamo del tempo e delle condizioni della montagna. Mentre io sono ottimista, loro pensano di ritornare in pianura stanchi, ormai, di tante giornate piovigginose passate in rifugio. Quando però conoscono la nostra intenzione di salire la Nord, cambiano parere e decidono di ritornare alla capanna Sciora.
Camminando ci presentiamo: si tratta della guida alpina, Jack Canali, famoso per aver conquistato tante vette con Pirovano e l'ingegner Ghiglione in Columbia. La cliente è la signora Dubini, cugina di Ghiglione ed ottima alpinista.
Canali, che ha ripetuto tutte le vie più difficili del gruppo, eccettuata proprio la Nord del Badile, avrebbe una gran voglia di venire con noi ma non osa chiedercelo, anche perché dovrebbe accompagnare la cliente sullo spigolo della stessa montagna. La signora però si dimostra generosa e, rompendo ogni indugio, dice che rinuncerebbe volentieri al suo progetto purché Jack potesse venire con noi. Accettiamo senz'altro la proposta; Canali ci è stato subito molto simpatico.

Il sentiero sale a serpentina in un bosco meraviglioso intersecato da freschi ruscelli alimentati dai ghiacciai sovrastanti. Alla nostra destra appare a poco a poco la grande muraglia del Badile, meta dei nostri desideri. Camminiamo ed ammiriamo in silenzio con il cuore pieno di speranze. Ognuno si chiede con un po' di apprensione dove si troverà quel medesimo istante l'indomani. Sento sempre una fitta dolorosa alla coscia sinistra ogniqualvolta tento un passo troppo lungo, ma spero di riprendermi quasi completamente prima dell'attacco. Per il resto mi sento benissimo ed è tanto grande il mio entusiasmo ed il mio desiderio di vedere per la prima volta questi luoghi meravigliosi, che senza accorgermi lascio indietro i compagni giungendo in breve alla capanna.

Tutt'intorno è una cerchia di guglie arditissime.
I miei occhi vanno su e giù per gli arditi spigoli del gruppo della Sciora, corrono al famoso “Ferro da Stiro”, salgono sul Cengalo e per ultimo si smarriscono nell'immensità della nostra parete Nord.
Per il resto della giornata interroghiamo ansiosi il cielo, il barometro posto all'interno della capanna, ed il vento che fa sventolare allegramente la rossa bandiera svizzera. Quando alla sera ci corichiamo, dopo aver collocato nei sacchi tutto il materiale, siamo fiduciosi.
Brillano nel buio della notte tante stelle e fa freddo.

Alle due suona la sveglia ed un'ora dopo, trangugiata a forza un'abbondante colazione a base di uova fresche, marmellata, burro e tè, ci mettiamo in marcia. Per andare all'attacco ci sono circa tre ore di cammino. Bisogna dapprima attraversare alcuni impetuosi corsi d'acqua spiccando lunghi salti alla luce delle pile su grossi massi instabili. E' una ginnastica fatta apposta per svegliarci completamente ed infatti, quando arriviamo sulla faticosissima morena e poi sul ghiacciaio, siamo già tutti e tre inzuppati di sudore. Davanti al crepaccio nero e profondo che ci divide dal granito dell'attacco, ci leghiamo in cordata. Salirò usufruendo di due corde di perlon alle cui estremità si sono già legati i miei due compagni.

Jack riesce a superare il profondo abisso che ci separa dalla parete; una volta arrivato su questo gelido mondo di pietra proseguo subito in testa impegnandomi a fondo anche per riscaldarmi un po'.
E' il mio primo contatto con il granito ma mi sembra di non aver fatto altro che scalare montagne di questo tipo di roccia. In breve arriviamo al primo diedro. Ricordo benissimo alcune foto di questo tratto; Jack mi fa sicurezza, in un attimo supero due chiodi mentre Susatti è alle prese con le diapositive. Del terzo chiodo, collocato in pieno strapiombo, non c'è proprio bisogno perché un appiglio solidissimo mi permette di volteggiare elegantemente oltre l'ostacolo. Ormai siamo lanciati. Come recupero Canali questi mi fila subito la corda e contemporaneamente fa venir su Fausto. Il nostro accordo è perfetto ed il nuovo compagno di cordata, veloce e sicuro, non rallenta per niente la nostra marcia. Il sole, mille metri più in alto, riscalda già la vetta, ma noi siamo nell'ombra e nel freddo, sotto dei tetti umidi obliquanti verso sinistra. Salgo sfruttando a fondo la tecnica di opposizione e la presa delle suole di gomma senza adoperare mai le staffe che mi porto sulle spalle. Non usufruisco di tutti i chiodi che incontro nei tratti più impegnativi così le corde, imbrigliate da pochi moschettoni, scorrono con facilità e mi permettono di salire più rapidamente possibile. In meno di due ore siamo al primo bivacco Cassin e continuiamo senza mai concederci un attimo di sosta.

La sera prima avevo detto a Canali che speravo di essere in buona forma perché volevo, una volta superata la parete Nord, scendere in giornata per lo spigolo in arrampicata libera. Se continuiamo di questo passo probabilmente potremo attuare anche quest'altro progetto. Susatti dice che corriamo troppo, ma non gli do ascolto. Siamo senza sacchi da bivacco e sappiamo bene che prima di noi ben poche cordate di tre elementi sono giunte in vetta in giornata da questo itinerario.

Questa salita tutta in arrampicata libera mi entusiasma. Con un sorriso accolgo Jack che mi porge sollecito i moschettoni e mi spingo prontamente sempre più in alto senza aspettare Fausto che mi offre da bere. Arriviamo in breve al piccolo nevaio incastonato come una gemma nel bel mezzo della parete. Ci fermiamo un attimo per guardarci un po' d'attorno. La giornata è stupenda e nulla ormai potrà impedirci di realizzare il nostro sogno.
Quante volte avevo immaginato di trovarmi proprio qui, sulla parete Nord del Badile, alla testa di una cordata di amici! Il tetto della capanna Sciora luccica nel sole laggiù in fondo, cinquecento metri più in basso. Devo ricominciare ad arrampicare per convincermi che non sto sognando.

Ecco il gran diedro, massima difficoltà della salita. Salgo rapidamente per trenta metri, quindi faccio venire i compagni e proseguo. Mentre le difficoltà aumentano, m'accorgo che i chiodi infissi diminuiscono. Arrivo sotto un enorme tetto nero da dove precipita una gelida cascata d'acqua. Sono sorpreso e nello stesso tempo indispettito: mi sembra di essere caduto in una trappola. Evidentemente siamo fuori strada.
Interrogo i compagni; purtroppo non hanno mai avuto occasione di leggere alcuna relazione della salita e perciò non possono darmi indicazioni precise. Per fortuna, mi ricordo all'improvviso del racconto di Hermann Buhl. Bisognava senz'altro attraversare nell'altro diedro a sinistra, molto più in basso. Disgraziatamente, portato dal mio stesso slancio, ho continuato per il diedro strapiombante per circa sessanta metri di 6° grado prima d'accorgermi di aver sbagliato.
Mi consolo pensando che anche qualche altro è caduto nello stesso errore; dovevo però accorgermi di non essere sulla via giusta proprio dalla scarsità dei chiodi in questo tratto difficilissimo.

Scendiamo a corde doppie fino al punto dove si deve deviare a sinistra e, dopo pochi istanti, siamo nel secondo diedro.
Giungo sotto una grande tetto; lo supero senza far uso delle staffe ma nell'uscita le corde s'incastrano e non scorrono più. Mi sostengo ad un chiodo con una mano e con l'altra, piegandomi verso il vuoto che s'apre fra le mie gambe, cerco di liberarle con dei forti strattoni.
Quando alla fine ci riesco devo abbrancarmi ad uno spuntone e riposarmi un istante per riprendere fiato. Indi proseguo per giungere al secondo bivacco Cassin. Ormai le difficoltà più notevoli sono superate, ma si deve fare ancora molta attenzione.
Continuiamo per un lungo camino interrotto da bruschi salti strapiombanti; un rivolo d'acqua gelida s'infiltra nelle maniche ogni qualvolta si portano le braccia in alto. Le pedule slittano via di frequente sul bagnato, le corde diventano pesanti e scorrono con difficoltà.
Dov'è andata a finire la bella arrampicata di un paio d'ore prima? Qui bisogna lottare a fondo senza sostare un attimo altrimenti, essendo bagnati, si gelerebbe. Le mani si intirizziscono mentre si recuperano i compagni. Susatti mi prega di lasciare delle staffe nei punti più critici perché con il sacco è difficile superare queste faticose strozzature.
Penso a quanto debbono essere stati terribili questi ultimi duecento metri per Cassin e compagni costretti a trascinare verso l'alto, in piena tempesta, gli sventurati Molteni e Valsecchi ormai moribondi!

Arriviamo alla fine del camino, attraversiamo a sinistra su di una cengia e ci caliamo con due corde doppie nel colatoio terminale, che dovrebbe essere facilissimo in condizioni normali, ma che ora è ricoperto di neve e vetrato per il maltempo dei giorni scorsi. Metro dopo metro m'avvicino alla vetta. Scelgo il percorso che mi sembra più facile e sicuro e faccio molta attenzione a non scivolare su questi lastroni inclinati cementati dal gelo. Non sarebbe simpatico precipitare per mille metri di muro verticale proprio così vicini alla meta. Un freddo vento scende dalla cresta del Badile ancora riscaldata dal sole: pochi attimi e la parete Nord è alle nostre spalle.
Vorrei gridare al mondo intero la mia gioia, vorrei dire ai miei due compagni tante cose ma un nodo mi chiude la gola e non riesco a parlare.

Oggi ho finalmente realizzato un sogno accarezzato da anni. Non vorrei più abbandonare questa cima e nello stesso tempo vorrei essere già a casa per far partecipi della mia felicità i pochi amici che sanno di questo mio progetto. Dalle due di notte non abbiamo mangiato niente e divoriamo con avidità la frutta sciroppata. Il sole sta per tramontare, quindi addio progetto di scendere ora per lo spigolo Nord; è tardi proprio per quello stupido errore di percorso! Ancora uno sguardo al panorama e poi scendiamo per la normale al rifugio Giannetti. Qui pensiamo di trovare un buon letto ma è tutto occupato sicché, dopo complimentose manate sulle spalle della guida Fiorelli e di altri alpinisti, con una vecchia coperta m'avvolgo per terra con Susatti. Sopportiamo anche questo. Il pensiero che, con le cordate di Lacedelli e Lorenzi siamo fra i primi dolomitisti a ripetere la parete nord, ci inorgoglisce.

Alle quattro del mattino ripartiamo superando il passo di Bondo e giungendo in poco più di tre ore alla capanna Sciora ed infine al Promontogno. Addio Svizzera, addio Badile che svetti superbo nel cielo e che ci hai reso così felici! Con te Jack ci rivedremo su qualche altra parete. Arrivederci. Ora non badiamo ai chilometri, al sonno, alla stanchezza, questa sera vogliamo essere a casa a far festa con gli amici.
L'avventura è finita.

 

<1958>

Giancarlo Biasin

 

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N.d.r. Il testo è pubblicato per gentile concessione della Sezione C.A.I di San Bonifacio, ex Sottosezione “Giancarlo Biasin”, Verona. Come già riportato a margine del racconto Su gli ultimi passi di Giancarlo Biasin di Arturo Castagna, ricordiamo che Giancarlo Biasin, forte alpinista nativo d'Illasi, morì il 3 agosto 1964 scivolando dall'ultima balza del Sentiero dei Cacciatori, ripida ed esposta traccia che si alza sopra la Val Pradidali, Pale di San Martino. Aveva appena concluso una delle più difficili salite dolomitiche dell'epoca, accompagnando Samuele Scalet al suo ennesimo tentativo. Samuele trovò in Giancarlo il giusto e leale compagno (Biasin, contrariamente alle sue abitudini, fece da secondo di cordata) per la soluzione finale.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

HERMANN BUHL, E' buio sul ghiacciaio, Milano 1987.

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