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Occhi
azzurri, zigomi arrossati dal sole e dal vino, viso rotondo e sempre
sorridente contornato da numerose rughe di espressione. E poi l'allegria
contagiosa, che lo rendeva amico di tutti, grandi e piccini, e la voglia
instancabile di raccontarti una storia. Organizzatore nato, entusiasta e
scrupoloso, un vero mago nel pianificare scampagnate, che si
concludevano sempre con colossali mangiate e sbornie collettive.
Questo era lo Zio Mimmo, la persona che mi ha avvicinato alla montagna.
Io lo chiamavo Zio perché era il cugino di primo grado di mio padre, ma
a Colledara quasi tutti quelli della mia età lo chiamavano Zio.
Il primo ricordo che ho di lui è di un giorno d'estate, avrò avuto 5 o
6 anni, i miei genitori mi avevano portato con la seggiovia da Prati di
Tivo alla Madonnina, sulla cresta erbosa sotto al Corno Grande ed il
Corno Piccolo. Era una bella giornata di sole e stavamo seduti sui prati
a goderci il panorama quando, dal ripidissimo versante verso Casale S.
Nicola, vediamo due persone arrancare in salita. Mio padre disse: “sarà
sicuramente Mimmo, solo a lui può venire in mente di salire da lì”.
Effettivamente era una persona dotata di grande forza di volontà.
Benché di fatto alcolizzato, si sottoponeva periodicamente ad analisi
di controllo e quando i suoi dati ‘sballavano’ (cioè spesso) non
toccava un goccio di alcool anche per mesi, fino a quando tutto non era
rientrato nella norma...
La stessa forza di volontà la si riscontrava nella sua grande passione:
andar per monti. Non ho mai conosciuto nessuno veloce come lui in
salita, e dire che noi ragazzi che lo accompagnavamo eravamo tutti in
salute e sportivi praticanti. Eppure, mentre noi arrancavamo per
mantenere il suo passo lui chiacchierava alla grande e ci indicava i
luoghi del Gran Sasso raccontandoci storie incredibili di quando la
montagna si percorreva solo a piedi perché le strade e le automobili
non esistevano.
Quando ero bambino l'automobile l'avevano tutti ma la rete viaria, dalle
nostre parti, non era ancora stata sviluppata: per arrivare a Roma ci
volevano 5 ore, un'infinità! Forse anche per questo motivo si aveva una
concezione del tempo molto diversa da quella odierna, la gita cominciava
all'alba e terminava al tramonto, e in montagna si andava a piedi senza
avvicinamenti parziali, partendo dai 440 metri di Colledara per andare
sulle vette del Gran Sasso, la nostra montagna. Salivamo sul Corno
Grande e quello Piccolo, sui Monti Brancastello, Prena e Camicia. Gli
itinerari che percorrevamo non erano segnati, qualche volta incontravamo
qualche pastore, ma per la maggior parte del tempo eravamo soli con la
flora e la fauna del Gran Sasso. Lo Zio Mimmo diceva che “solo così
si può ancora sentire la montagna”. Mi ricordo che una volta uno di
noi gli chiese come mai non andassimo sui sentieri più battuti, dove
non c'era rischio di perdersi. La sua risposta fu: “che gusto c'è a
camminare su un'autostrada?”.
Sul fatto che avesse un innato istinto per la montagna e che conoscesse
come le sue tasche il Gran Sasso, non vi erano dubbi. Questa dote gli
permetteva di abbandonare il sentiero battuto e di inoltrarsi ovunque a
suo piacimento. Tuttavia, lo smarrimento della traccia o del sentiero
era un'eventualità che non sempre veniva apprezzata da chi lo
accompagnava.
Questo tipo di contrattempo accadeva immancabilmente per la gita della
Madonna della Neve, che si tiene tuttora la prima domenica d'agosto.
Oggi si sale in macchina fino ai 1.470 metri di Prati di Tivo, 20 anni
fa partivamo a piedi dalla piazza di Colledara. Nel cuore della notte,
anziani e bambini, donne e uomini, si incamminavano verso quella che a
Colledara è conosciuta come ‘la punta’, cioè la vetta orientale
del Corno Grande, sommità del famoso ‘paretone’. In realtà la
maggior parte di questa variegata comitiva si fermava alla Madonnina,
eravamo in pochi a salire fino in cima. Mi ricordo ancora i preparativi,
con quintali di vettovaglie stipati sul dorso del mulo nei basti, il
gran vociare ed i canti alla partenza e poi, man mano che il sentiero si
faceva più ripido, il silenzio nella notte estiva illuminata dalla
luna. Poi alle prime luci dell'alba, quando tutti si rendevano conto di
essere fuori strada, arrivavano le prime imprecazioni rivolte alla guida
della compagnia che era sempre lo Zio Mimmo. Le più gentili erano: “dove
cazzo ci hai fatto arrivare?” oppure “sei sempre il solito stupido,
ti perderesti pure in un bicchiere d'acqua”. Lui, con il suo solito
sorriso rispondeva: “ma lo sapete benissimo che io l'acqua non la bevo
mai”.
Una volta portò tutta la comitiva su un sentiero talmente dirupato che
ad un certo punto il mulo con il basto non passava più. La situazione
non era delle più rosee: da una parte il muro di roccia della montagna
dall'altra lo strapiombo; da una parte i paesani inferociti con la loro
guida dall'altra il somaro che non voleva proprio saperne di muoversi.
La situazione venne risolta da un compagno di gita, un tipo basso e
tarchiato con due braccia che sembravano due escavatrici. Questi, senza
profferire parola, si caricò il mulo e tutto il suo carico su una
spalla e lo portò al di là dell'angusto passaggio. Ho ancora davanti
agli occhi il mulo che raglia e scalcia a vuoto mentre viene
sollevato.
Comunque sia, lo Zio, nonostante questo immancabile difetto, riusciva a riportarci
sempre sulla giusta via, e senza neanche farci perdere tanto tempo sulla
tabella di marcia. Inoltre, cosa ben più importante, quando c'era lui
non si faceva mai male nessuno.
Non ci successe nulla nemmeno quella volta che ci prese un temporale
tornando da un'ascensione alpinistica al Corno Piccolo, una di quelle
cose tipicamente estive con tuoni e fulmini che escono da tutte le
parti. Per fortuna trovammo una specie di grotta dove aspettare la fine
della tempesta; prima di entrarvi la mia guida si premurò di lasciare,
ben distante, tutto il nostro materiale alpinistico. Dopo un po'
arrivarono altri due tipi che si accomodarono vicino a noi, avevano
tanti di quei chiodi e moschettoni addosso che la loro ferraglia
tintinnava come le campane di San Pietro. Alla mia richiesta se non
avessero paura dei fulmini uno di loro rispose: “tanto mica cascano
dentro alle grotte”. Mio Zio senza dire nulla uscì sotto l'acqua,
prese tutta la nostra roba, se la mise nello zaino e disse: “andiamo a
casa che è meglio”.
Qualche tempo dopo partì, improvvisamente e senza salutare nessuno, per
il Venezuela. I motivi, per me che ero poco più che adolescente, allora
erano poco chiari. In paese si diceva che fosse pieno di debiti e avesse
deciso di cambiare aria. Ad ogni modo spiazzò tutti, nessuno ebbe
sentore dell'imminente partenza. Oltretutto la sera prima, all'osteria,
aveva guasconamente proclamato che “per donne e quattrini non si trema”.
Tornò dopo parecchi anni e avendo fatto un po' di tutto per vivere (per
un certo periodo si era addirittura spacciato per notaio!). Noi ragazzi
eravamo cresciuti, e anche Colledara era cambiata. Le gite in montagna
erano più brevi, ci si avvicinava in macchina e, con i sentieri ben
segnati, non c'era più il pericolo (o il gusto?) di perdersi in mezzo
ai boschi di faggio. Alcuni di noi si erano dedicati ad aprire vie di roccia
sulle spalle del Corno Piccolo, eppure, quando era disponibile,
preferivamo andare a fare una scampagnata con lui. Estasiati da questo
vecchietto arzillo, che arrancando in salita ci raccontava la montagna
dei suoi tempi. Spesso ci appartavamo negli angoli meno frequentati del
massiccio, dove reputavamo fosse più consono fermarci ad ascoltare i
suoi racconti.
Anche adesso che lo Zio Mimmo non c'è più, ogni tanto dopo una lunga
giornata alpinistica ci fermiamo a ricordare i suoi esilaranti racconti
e a rimpiangere le gite scanzonate di un tempo.
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