Lo Zio Mimmo

 

di Marco Flamminii Minuto

 

 

Occhi azzurri, zigomi arrossati dal sole e dal vino, viso rotondo e sempre sorridente contornato da numerose rughe di espressione. E poi l'allegria contagiosa, che lo rendeva amico di tutti, grandi e piccini, e la voglia instancabile di raccontarti una storia. Organizzatore nato, entusiasta e scrupoloso, un vero mago nel pianificare scampagnate, che si concludevano sempre con colossali mangiate e sbornie collettive. 
Questo era lo Zio Mimmo, la persona che mi ha avvicinato alla montagna. Io lo chiamavo Zio perché era il cugino di primo grado di mio padre, ma a Colledara quasi tutti quelli della mia età lo chiamavano Zio. 
Il primo ricordo che ho di lui è di un giorno d'estate, avrò avuto 5 o 6 anni, i miei genitori mi avevano portato con la seggiovia da Prati di Tivo alla Madonnina, sulla cresta erbosa sotto al Corno Grande ed il Corno Piccolo. Era una bella giornata di sole e stavamo seduti sui prati a goderci il panorama quando, dal ripidissimo versante verso Casale S. Nicola, vediamo due persone arrancare in salita. Mio padre disse: “sarà sicuramente Mimmo, solo a lui può venire in mente di salire da lì”. Effettivamente era una persona dotata di grande forza di volontà. Benché di fatto alcolizzato, si sottoponeva periodicamente ad analisi di controllo e quando i suoi dati ‘sballavano’ (cioè spesso) non toccava un goccio di alcool anche per mesi, fino a quando tutto non era rientrato nella norma...
La stessa forza di volontà la si riscontrava nella sua grande passione: andar per monti. Non ho mai conosciuto nessuno veloce come lui in salita, e dire che noi ragazzi che lo accompagnavamo eravamo tutti in salute e sportivi praticanti. Eppure, mentre noi arrancavamo per mantenere il suo passo lui chiacchierava alla grande e ci indicava i luoghi del Gran Sasso raccontandoci storie incredibili di quando la montagna si percorreva solo a piedi perché le strade e le automobili non esistevano. 
Quando ero bambino l'automobile l'avevano tutti ma la rete viaria, dalle nostre parti, non era ancora stata sviluppata: per arrivare a Roma ci volevano 5 ore, un'infinità! Forse anche per questo motivo si aveva una concezione del tempo molto diversa da quella odierna, la gita cominciava all'alba e terminava al tramonto, e in montagna si andava a piedi senza avvicinamenti parziali, partendo dai 440 metri di Colledara per andare sulle vette del Gran Sasso, la nostra montagna. Salivamo sul Corno Grande e quello Piccolo, sui Monti Brancastello, Prena e Camicia. Gli itinerari che percorrevamo non erano segnati, qualche volta incontravamo qualche pastore, ma per la maggior parte del tempo eravamo soli con la flora e la fauna del Gran Sasso. Lo Zio Mimmo diceva che “solo così si può ancora sentire la montagna”. Mi ricordo che una volta uno di noi gli chiese come mai non andassimo sui sentieri più battuti, dove non c'era rischio di perdersi. La sua risposta fu: “che gusto c'è a camminare su un'autostrada?”.
Sul fatto che avesse un innato istinto per la montagna e che conoscesse come le sue tasche il Gran Sasso, non vi erano dubbi. Questa dote gli permetteva di abbandonare il sentiero battuto e di inoltrarsi ovunque a suo piacimento. Tuttavia, lo smarrimento della traccia o del sentiero era un'eventualità che non sempre veniva apprezzata da chi lo accompagnava. 
Questo tipo di contrattempo accadeva immancabilmente per la gita della Madonna della Neve, che si tiene tuttora la prima domenica d'agosto. Oggi si sale in macchina fino ai 1.470 metri di Prati di Tivo, 20 anni fa partivamo a piedi dalla piazza di Colledara. Nel cuore della notte, anziani e bambini, donne e uomini, si incamminavano verso quella che a Colledara è conosciuta come ‘la punta’, cioè la vetta orientale del Corno Grande, sommità del famoso ‘paretone’. In realtà la maggior parte di questa variegata comitiva si fermava alla Madonnina, eravamo in pochi a salire fino in cima. Mi ricordo ancora i preparativi, con quintali di vettovaglie stipati sul dorso del mulo nei basti, il gran vociare ed i canti alla partenza e poi, man mano che il sentiero si faceva più ripido, il silenzio nella notte estiva illuminata dalla luna. Poi alle prime luci dell'alba, quando tutti si rendevano conto di essere fuori strada, arrivavano le prime imprecazioni rivolte alla guida della compagnia che era sempre lo Zio Mimmo. Le più gentili erano: “dove cazzo ci hai fatto arrivare?” oppure “sei sempre il solito stupido, ti perderesti pure in un bicchiere d'acqua”. Lui, con il suo solito sorriso rispondeva: “ma lo sapete benissimo che io l'acqua non la bevo mai”. 
Una volta portò tutta la comitiva su un sentiero talmente dirupato che ad un certo punto il mulo con il basto non passava più. La situazione non era delle più rosee: da una parte il muro di roccia della montagna dall'altra lo strapiombo; da una parte i paesani inferociti con la loro guida dall'altra il somaro che non voleva proprio saperne di muoversi. La situazione venne risolta da un compagno di gita, un tipo basso e tarchiato con due braccia che sembravano due escavatrici. Questi, senza profferire parola, si caricò il mulo e tutto il suo carico su una spalla e lo portò al di là dell'angusto passaggio. Ho ancora davanti agli occhi il mulo che raglia e scalcia a vuoto mentre viene sollevato. 
Comunque sia, lo Zio, nonostante questo immancabile difetto, riusciva a riportarci sempre sulla giusta via, e senza neanche farci perdere tanto tempo sulla tabella di marcia. Inoltre, cosa ben più importante, quando c'era lui non si faceva mai male nessuno. 
Non ci successe nulla nemmeno quella volta che ci prese un temporale tornando da un'ascensione alpinistica al Corno Piccolo, una di quelle cose tipicamente estive con tuoni e fulmini che escono da tutte le parti. Per fortuna trovammo una specie di grotta dove aspettare la fine della tempesta; prima di entrarvi la mia guida si premurò di lasciare, ben distante, tutto il nostro materiale alpinistico. Dopo un po' arrivarono altri due tipi che si accomodarono vicino a noi, avevano tanti di quei chiodi e moschettoni addosso che la loro ferraglia tintinnava come le campane di San Pietro. Alla mia richiesta se non avessero paura dei fulmini uno di loro rispose: “tanto mica cascano dentro alle grotte”. Mio Zio senza dire nulla uscì sotto l'acqua, prese tutta la nostra roba, se la mise nello zaino e disse: “andiamo a casa che è meglio”. 
Qualche tempo dopo partì, improvvisamente e senza salutare nessuno, per il Venezuela. I motivi, per me che ero poco più che adolescente, allora erano poco chiari. In paese si diceva che fosse pieno di debiti e avesse deciso di cambiare aria. Ad ogni modo spiazzò tutti, nessuno ebbe sentore dell'imminente partenza. Oltretutto la sera prima, all'osteria, aveva guasconamente proclamato che “per donne e quattrini non si trema”. 
Tornò dopo parecchi anni e avendo fatto un po' di tutto per vivere (per un certo periodo si era addirittura spacciato per notaio!). Noi ragazzi eravamo cresciuti, e anche Colledara era cambiata. Le gite in montagna erano più brevi, ci si avvicinava in macchina e, con i sentieri ben segnati, non c'era più il pericolo (o il gusto?) di perdersi in mezzo ai boschi di faggio. Alcuni di noi si erano dedicati ad aprire vie di roccia sulle spalle del Corno Piccolo, eppure, quando era disponibile, preferivamo andare a fare una scampagnata con lui. Estasiati da questo vecchietto arzillo, che arrancando in salita ci raccontava la montagna dei suoi tempi. Spesso ci appartavamo negli angoli meno frequentati del massiccio, dove reputavamo fosse più consono fermarci ad ascoltare i suoi racconti. 
Anche adesso che lo Zio Mimmo non c'è più, ogni tanto dopo una lunga giornata alpinistica ci fermiamo a ricordare i suoi esilaranti racconti e a rimpiangere le gite scanzonate di un tempo.

 

ottobre 1999

Marco Flamminii Minuto

 

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