Prima
Parte
1.
Non avevamo ancora visto gli uomini volare sulle nostre teste con i loro
palloni colorati, a quel tempo.
Le nostre case erano isolate in mezzo alle montagne.
Solo una strada bianca, faticosa a percorrersi, ci collegava alla città
e chi la scendeva spesso non la risaliva più.
Troppo cattivo il nostro inverno, con il vento gelido e tutta quella
neve che a volte impediva i rifornimenti e allora dovevamo fare
provviste ed anche mangiare poco.
Certo era bella la primavera fiorita, più bella di quella di oggi, era
bello sedersi d'estate sotto un albero e guardare i monti, sentire i
grilli trillare e le pecore belare, era bello fabbricarsi flauti di
legno e sognare avventure, era bello, lo so, ascoltare i vecchi
raccontare favole antiche davanti al fuoco d'inverno anche quando non c'era
che un piatto di lenticchie da mangiare.
Ero giovane, allora, e pieno di forze e la vita, per me, era bella così,
che forse non l'avevo ancora assaggiata, la vita.
2.
Non mi aspettavo grandi cose dalla mia vita.
La immaginavo scorrere tranquilla sul mio altipiano isolato, con i miei
compaesani, tutti amici, con le mie coetanee, una delle quali avrei
sposato, con i miei figli, poi.
Non pensavo ad abbandonare il piano dove ero nato, come facevano molti
dei miei amici; mi piaceva la vita quassù, mi piaceva il lavoro dei
campi che mi faceva sentire libero sotto il cielo, amavo le bestie: le
mucche, le pecore e soprattutto un piccolo mulo che cavalcavo fin da
bambino per spingermi ai margini del piano e guardare giù.
Credevo, a quei tempi, che la posizione del mio villaggio, così vicina
alle stelle, fosse un privilegio che Dio gli aveva concesso e non un
limite.
Non mi mancava nulla di quanto veniva da fuori ed ero tanto abituato ai
sacrifici dell'inverno da non avvertirli quasi più.
Avevo imparato sin da piccolo a rispettare i ritmi che, alla vita della
nostra comunità, venivano imposti dalle stagioni, dal clima, dai lavori
dei campi, dalle ore del giorno, dall'avvicendarsi della luna e del
sole.
Dalla mia vita non volevo altro se non la libertà di quei pascoli e di
quei monti.
La immaginavo scorrere tranquilla, la mia vita, ero poco più che un
bambino allora e tutte le mie coetanee mi attraevano, sarei stato felice
di sposarne una qualsiasi e allora... cosa potevo chiedere di più.
A
guardarla ora, la mia vita è scorsa davvero tranquilla, più placida
del volo dell'aquila quando plana dal monte.
Forse, con gli anni, ho perduto un poco di quell'ingenuo entusiasmo che
avevo di viverla così com'era scritta, questa mia vita. Ma sono pur
sempre un uomo sereno che guarda positivamente al suo futuro.
Ho amato molto mia moglie che mi ha lasciato da poco e sono orgoglioso
dei miei figli che non abitano più la valle, ma spesso tornano a
trovarmi e mi raccontano i loro successi e mi chiedono consigli e mi
offrono sempre di andare a vivere con loro in città.
Ma no, non sono un vecchio cocciuto, se non voglio abbandonare questa
valle è perché l'ho tanto amata e l'amo ancora.
Per questo voglio continuare a fare, nella mia terra, la vita che ho
sempre fatto.
3.
Era una giornata autunnale, come quella di oggi, quando vidi arrivare un'automobile.
Era la seconda volta che ne vedevo una nella mia vita. Con la prima
venne il medico che salvò la vita alla Marianna. Dalla seconda, in quel
pomeriggio di primo autunno, scesero due uomini.
Li vidi
scendere da quell'automobile e neanche li guardai; ero troppo preso ad
osservare l'auto, tutta rossa, decappottabile... una meraviglia.
Esaurita la curiosità per la macchina finì ogni mio interesse per la
situazione e non mi occupai più di loro.
Li incontrai, nei giorni successivi, una volta al Piano Perduto, un'altra
volta sui Colli Alti e Bassi, quelli proprio sotto il paese. Una volta
li incontrai anche mentre andavo a caccia di merli alla Torraccia. Uno
di loro portava uno strano tre piedi e l'altro aveva una grossa scatola
ingombrante ed anche pesante a giudicare dalla fatica che faceva a
salire la collina.
Quando tornai in paese chiesi di loro alla figlia della padrona della
locanda presso la quale avevano preso alloggio.
Mi disse che erano “quelli del Cinema”; erano venuti per vedere se,
nel nostro paese, si sarebbe potuto girare un film.
Un film!
Questa parola stuzzicava la mia fantasia. Chissà com'era un film? Era
come se i racconti del nonno davanti al fuoco d'inverno potessero avere
dei volti e tante voci. Era come se avessi potuto vedere le montagne di
cui mi raccontava, tanto più alte delle nostre, tanto lontane di qui
dove, quando era giovane, aveva fatto la guerra; come sarebbe stato
bello vedere quelle scene! Vedere le trincee scavate nelle gole dei
monti e sentire le voci di quegli uomini coraggiosi ed ascoltare i loro
cori, di notte, quando, cantando, si stringevano per non sentire il
freddo che mordeva.
Se avessi
potuto vedere un film avrei voluto vedere quello!
Ed ora un
film nel nostro paese e di cosa poteva parlare? E che cosa poteva
interessare agli uomini laggiù del nostro piano isolato?
Non feci in tempo a risolvere questi enigmi perché, in quei giorni, era
previsto l'arrivo di un altro straniero al villaggio: il maestro che ci
avrebbe insegnato a leggere e scrivere e quella era un'avventura che mi
preoccupava un poco, ma, insieme, mi esaltava.
Quando mi
ricordai dei due cinematografari, loro erano già partiti e neanche la
mia amica Sandra, quella della locanda, sapeva di che film si trattasse
e se si sarebbe fatto tra i nostri monti, quel film.
Ben
presto dimenticai tutto perché a quell'età le cose, si sa, vanno così.
4.
Stava per cominciare l'inverno, da noi comincia presto,
quando avvistai arrancare, sui tornanti che portano al paese, quella
macchina rossa e dietro un'altra macchina ed una moto con uno strano
carretto di fianco e poi un grosso camion, non ne avevo mai visti di così
grandi.
La mia
amica Sandra mi aveva preannunciato che sarebbero tornati quelli
del Cinema quando suo padre aveva ricevuto un telegramma; sarebbero
stati tanti e poi sarebbero arrivati anche gli attori e le attrici; me
lo aveva detto, ma io non le avevo neppure prestato ascolto perché
stavo organizzando, con i miei amici, una partita di calcio, e in quei
casi le chiacchiere delle femmine, ogni ragazzo lo sa, sono fastidiose.
Quando
però li vidi arrivare, così tanti, con tante automobili, capii
che la vita nel nostro villaggio sarebbe cambiata ed ebbi paura di quel
cambiamento che nessuno di noi aveva desiderato.
Tutto
cambiò, effettivamente.
Nei primi
giorni della loro permanenza ricordo che non facevo altro che sperare
che se ne andassero da un momento all'altro.
Ogni mattina, quando aprivo la finestra della mia casetta, mi
rammaricavo che le mie speranze erano state ancora frustrate: erano
ancora lì le loro auto, i loro camion e quella incredibile
motocicletta, sulla piazza, davanti alla locanda, ormai sempre più
coperti dalla neve.
Erano ancora lì e se non se ne fossero andati avrebbero continuato a
turbare le nostre vite.
Tanto per
cominciare saltò la partita di calcio che si sarebbe dovuto svolgere
sul piazzale che loro usavano per parcheggio e questo significava che,
fino alla primavera, non se ne sarebbe potuto più riparlare.
Ma quello che era peggio era che tutti i miei amici erano cambiati e,
soprattutto le ragazze, erano diventate insopportabili.
Non facevano che ronzare intorno ai cinematografari.
Io, invece, non potendo fare altro, non facevo che studiare: nel primo
mese di scuola ero l'unico della classe a saper leggere e scrivere alla
perfezione.
Di quegli uomini non volevo sapere nulla, neanche che film stessero
girando, neanche cosa fosse un film e neanche che faccia
avessero loro.
Ma non
potevo ignorarli completamente per la semplice ragione che tutti non
facevano che parlare del film e dei cinematografari.
Perfino il nostro maestro aveva stretto amicizia con loro ed era
talmente fiero delle sue nuove relazioni che ogni mattina, durante le
lezioni, non mancava mai di riferirci particolari dei suoi incontri. La
persona con cui amava intrattenersi era il regista, colui che io odiavo
di più di tutti perché gli attribuivo la colpa di tutto quello
sconquasso: era lui infatti che, per primo, con la sua automobile rossa,
era giunto sull'altipiano e se ne era, evidentemente, innamorato.
Ma quella
era casa nostra e né lui né i suoi amici avevano il diritto di venire
a rivoluzionare la nostra esistenza.
5.
Ciò che, in quel momento, mi limitava era l'inverno e la neve; quando
sarebbe tornata la primavera, mi ripetevo, me ne sarei andato con il mio
amico Poldo su fino al Passo e se non fosse stato sufficiente sarei
salito sulla cima del Monte, tutti i giorni, per divertirmi da solo a
guardare le montagne ed il cielo e riuscire a dimenticare quel trambusto
inutile.
Ma ora
con la neve ed il freddo non potevo che starmene in casa seduto vicino
al braciere e studiare, accudire Poldo nella sua stalla e... fare
conversazione con lui.
Solo con lui, infatti, potevo parlare e gli ripetevo ogni giorno i miei
malumori, perché tutti gli altri erano impegnati in mille attività.
Abitualmente
il nostro inverno trascorreva interminabilmente lento, freddo, scuro,
senza troppo da mangiare e senza nessuna visita di estranei. Chi mai
avrebbe avuto la voglia di salire quella strada faticosa con la neve
e poche ore di luce a disposizione?
Sembra assurdo, ma a me piaceva la condizione di isolamento che l'inverno
imponeva, perché, in quei giorni, nei quali sempre aspettavo la
primavera con il sole e la luce ed i giochi all'aperto, mi godevo il
tepore umano delle sere intorno al fuoco, il calore della nostra piccola
comunità che si stringeva, come fosse una famiglia, solidale nelle ore
del maggior bisogno.
Non ci fu
mai un inverno come quello.
Non fu
scuro perché quegli uomini avevano delle macchine che producevano
energia elettrica e facevano luce fino al mattino per le strade e nella
locanda; mai ci fu tanto via vai di gente e tanto da mangiare, le
automobili, con pesanti catene, andavano e venivano ogni giorno su per i
tornanti dalla valle sottostante.
Quell'inverno non fu neanche tanto freddo perché, grazie all'
elettricità, le stufe scaldavano ogni casa.
Ed infine, quell'inverno, per una stregoneria che non sapevo spiegarmi,
passò in pochissimo tempo.
Tutti
godevano il benessere improvvisamente conquistato; si mangiava e si
beveva fino a tardi nella locanda e tutti erano di buon umore.
Tutti, naturalmente, tranne me.
Forse ero cocciuto sin da piccolo, ma quei cambiamenti, che pure
riconoscevo come positivi, non mi andavano ed il peggio era che nessuno,
tranne il mio vecchio Poldo, poteva capirmi.
I miei
genitori erano completamente presi dal vortice delle novità, la mamma
tornava a casa felice con un bel pezzo di carne da fare in brodo
ringraziando il cielo che c'erano quelli del cinema. Mio padre, che
faceva il pastore e d'inverno trascorreva lunghe ore a casa, era tutto
indaffarato. Anche lui, come tutti gli uomini del paese, lavorava per i
miei nemici. Cosa diavolo facessero io non volevo saperlo.
I mie
amici trotterellavano sempre intorno alla locanda della Sandra ed
ottenevano spesso dolci e giocattoli da quegli uomini; così non mi
avrebbero comprato, pensavo io.
Loro sono gli intrusi e loro se ne sarebbero dovuti andare. Stringendo i
denti mi auguravo che ciò accadesse al più presto.
Seconda
Parte
6.
Accadde prima che me lo aspettassi perché a Natale la carovana lasciò
il villaggio.
E tornò il buio, il freddo e le lunghe ore davanti al camino.
Ma mi resi subito conto che il maleficio che avevano gettato sull'altipiano
resisteva perché tutti continuavano a parlare del film auspicando il
ritorno di quegli uomini e così, anche le vacanze di Natale, quell'anno,
trascorsero velocemente.
Fu
proprio la notte di Natale che appresi il contenuto del famoso film.
Successe perché Don Antonio ne parlò durante la predica.
Non volevo credere alle mie orecchie. Anche Don Antonio che era stato
molto diffidente, all'inizio, verso quegli uomini così diversi da noi e
quelle donne vistose e piene di gioielli, era passato dalla loro parte,
tanto visceralmente da citare il film nella più importante delle
funzioni dell'anno.
Doveva averlo convinto quel diavolo di regista che spesso avevo visto
risalire le stradine piene di neve, tutto imbacuccato nella sua
pelliccia, per andarsi a chiudere in canonica; e a volte portava anche
un fiasco di vino, il demonio.
“Fratelli
- disse Don Antonio dopo averci parlato come tutti gli anni del Bambin
Gesù e della sua nascita - quest'anno il nostro Paese sta per assistere
ad un grande evento di cui saremo testimoni e protagonisti. Il grande
Maestro Lallini, come tutti sapete, ha deciso di ambientare tra i nostri
monti la sua ultima produzione: un'opera sulla vita di San Francesco.
Tra poco tornerà la troupe e riprenderanno i lavori. Ringraziamo il
Signore per averci concesso il privilegio di assistere alla creazione di
un'opera che contribuirà a diffondere la conoscenza in Italia e nel
mondo del Santo patrono del nostro Paese che, come tutti sapete, è nato
e vissuto non lontano da qui...”
Continuò
a parlare di San Francesco nella notte di Natale Don Antonio, ma io non
lo ascoltavo più.
La subdola magia della macchina che ti mostra le storie che da sempre
hai sentito raccontare, che ti fa vedere con gli occhi quello che hai
sempre immaginato, mi stava prendendo.
Quella notte non dormii e non fu certo nell'attesa dei poveri balocchi
che, l'indomani, Babbo Natale mi avrebbe fatto trovare.
7.
Tornarono agli inizi della primavera.
Il primo sole tiepido cominciava a sciogliere la neve che rimaneva ormai
confinata solo sui monti.
Io non ero certo impaziente di vederli, ma la mia stizza si era smorzata;
dopo la predica di Natale un po' di curiosità aveva preso anche me.
Tornarono
tutti alla locanda di Sandra e, da quel momento, presi ad osservarli con
interesse.
Mi affascinava l'idea di vedere con i miei occhi una storia che avevo
sempre sentito narrare e quegli uomini stavano facendo proprio questo.
Li vidi costruire, in fondo al nostro piano, la casa dove San Francesco
aveva abitato nel primi anni del suo apostolato. Li vidi progettare le
mura che avrebbero cinto il nostro Paese. Li ascoltai, un poco discosto,
parlare del loro lavoro, dell'opera che dovevano realizzare, delle
immagini, del timbro della luce nelle varie ore del giorno, della loro
macchina da presa, degli obiettivi con cui fermavano la luce e le
immagini, di quelle strane macchine con cui catturavano le voci.
Ero
sempre più preso dalla voglia di avvicinarmi, di chiedere, di farmi
spiegare.
L'avventura della scuola, che avevo intrapreso più tardi di quanto
fecero poi i miei figli ed i miei nipoti, allargando un poco il mio
orizzonte limitato dai monti di casa, mi aveva reso un ragazzo curioso
del mondo.
D'altra parte, però, la timidezza della gente di montagna e la mia
naturale testardaggine mi impedivano di tornare sui miei passi per
cominciare a fare quello che avevo sempre criticato negli altri.
Acquisivo,
in quel periodo, sempre più notizie indirette dal maestro, dalla
Sandra, da Don Antonio, da mio padre...
Anche il contenuto delle mie conversazioni con Poldo era cambiato,
oramai non parlavamo, si fa per dire, che del film: di come io avrei
costruito la casa di San Francesco e le mura del Paese, di ciò che
avrei fatto dire e fare al Santo Poverello, delle splendide potenzialità
del cinema.
Non fui
io a fare il primo passo.
Una
mattina Lallini venne su a scuola, ci salutò tutti con un “Salve,
ragazzi” e si rivolse al maestro: “Allora chi è quel ragazzo di cui
mi hai parlato?”.
Il maestro si volse verso la classe come quando ci voleva interrogare e
l'atmosfera sospesa, tra di noi, era proprio la stessa.
Non riuscimmo neanche a formularci una domanda su cosa stesse accadendo
che il maestro, tra lo stupore generale, disse “E' lui!” ed indicò...
me!
“Allora,
ragazzo - disse Lallini avvicinandosi - andiamo fuori a fare due passi
che ti devo parlare perché ho bisogno di te”.
Non
potevo crederci!
Mentre uscivo dai banchi mi volsi al maestro con uno sguardo tra il
titubante e l'implorante che voleva dire “posso andare?”. Il maestro
mi guardò rassicurante e parlò: “Vai, vai che poi la lezione te la
ripeterò più tardi”.
Volai
fuori alla classe seguendo Lallini.
8.
La giornata, lo ricordo con chiarezza, era ancora molto
fredda ma il sole inondava tutto il piano; Lallini camminava avanti con
le mani in tasca, io trotterellavo dietro; giungemmo alla piazzetta
davanti alla chiesa. Lallini si fermò guardando la valle e mi disse:
“Saresti disposto ad accompagnarmi per mostrarmi i posti qua intorno?
Il maestro mi ha detto che nessuno come te conosce i monti e il
piano”. Non ricordo con quali timide parole risposi di sì, ma in cuor
mio ero al settimo cielo. Mi offrii di cominciare da subito. Lallini mi
disse che doveva andare a prendere una mappa poi saremmo partiti.
Partimmo
dopo meno di un'ora.
Mia mamma
mi aveva dato un po' di pane e del formaggio di pecora; avevo indossato
i miei scarponi e portavo, lo ricordo come fosse ora, una pesante giacca
di lana cotta blu, dei pantaloni dello stesso colore ed un berretto di
lana rossa che mi aveva fatto per Natale la nonna. I guanti dello stesso
colore pure fatti dalla nonna, non li trovai, ma non potevo perdere
tempo a cercarli.
Decisi di
portarlo alla Torraccia.
Amavo molto quel posto. Da lì si poteva vedere una buona parte del
Piano, il nostro grande Monte ed il Paese; da lì, inoltre, si vedeva la
porzione di valle dove avevano costruito la casa di San Francesco.
Correvo su per le pendici del colle; Lallini, invece, affannava un poco
e ogni tanto mi richiamava: “Rallenta ragazzo, mi vuoi fare morire?”.
Splendida sensazione in quel momento, mi sembrava quasi di vendicarmi
delle angherie subite ma, nel contempo, sentivo che potevo fare
qualcosa, che stavo diventando un protagonista.
Quando
giungemmo in vetta il piano era ancora tutto illuminato.
Chiamai, ad una ad una, le vette dei monti mostrandole a Lallini che,
come un bravo alunno, prendeva appunti facendo circoletti rossi sulla
mappa; mi faceva anche domande sulla topografia, sulle altitudini, sull'orientamento
ed io rispondevo: mi sentivo su una cattedra.
Esaurite le sue curiosità mi propose di scendere suggerendo, per l'indomani,
una perlustrazione dell'altra parte della valle verso Forche Canapine.
In quel momento capii che avevo qualcosa di più da dire, che non ero
solo capace di snocciolare la geografia della mia terra.
In quel
momento, avevo dodici anni, capii quanto la comprendevo e l'amavo la mia
terra - quella consapevolezza non mi abbandonò mai più - e come le
parole non fossero sufficienti a descriverla; capii che, per
comprenderla, occorreva vederla e viverla ed afferrarla con tutti i
sensi.
Compresi anche che occorreva avere uno sguardo diverso, uno sguardo in
più e che era quello sguardo che interessava, che doveva interessare,
Lallini.
Scommisi
che Lallini sarebbe stato in grado di intendere ciò che volevo fargli
capire e decisi che avrei tentato in quel momento di offrirgli quello
sguardo in più.
Ora queste cose le racconto pacatamente come può fare un uomo della mia
esperienza; ma quegli attimi, allora, furono per me tanto impetuosi da
non consentirmi di agire se non con il cuore che mi diceva: “Fai! Fai
ora! Fagli capire ciò che senti perché domani nessun altro, neanche
tu, potrai farlo”.
Come fare
a farmi capire?
Lallini
già scendeva giù per il fianco del colle calpestando l'erbetta
bruciata dalla neve appena sciolta.
Guardai in cielo, vidi il sole che stava per andare dietro il Ventosola
oscurando il Paese, mentre noi eravamo ancora in piena luce.
“Signor Maestro - gridai con tutte le mie forze - torni su, la prego,
per un attimo solo”.
Lallini mi guardò meravigliato della mia determinazione e, sbuffando,
risalì i tre passi che aveva già sceso.
Fu un miracolo di sincronia che io stesso non avevo previsto, quando si
girò vide lo spettacolo che non volevo perdesse: lo spettacolo che
avevo ammirato tante volte.
Vide e,
grazie al cielo, capì!
Vide l'erba
nei prati, ormai all'ombra sul fondo della valle, che ondeggiava colpita
dal vento freddo del tramonto, vide il profilo curvo delle vette ancora
scintillanti di neve, vide un falco volare veloce verso il suo nido,
vide il Paese, illuminato dall'ultimo sole, che splendeva sulle nostre
teste.
Gli dissi
sottovoce: “Non è come un sinfonia? Ascolti l'ultima nota, Maestro!
Sembra il tintinnio di un campanello!”
Guardavo
il mio Paese, e Lallini con me, quando - come sempre in quella stagione
- l'ultimo raggio rosso di sole colpì il vetro della finestrella della
Marianna, quasi in cima al Paese. Per un attimo, divenne rosso fuoco;
poi calò il crepuscolo.
Lallini si volse lentamente, capii subito che aveva capito. “Ragazzo -
mi disse - non lo dimenticherò mai, tu sei un poeta!” e mi abbracciò.
Scendemmo
al piano senza più dire una parola.
9.
Tornando a casa pensavo di avercela fatta, ero riuscito a dire la mia,
avevo insegnato al Maestro, io, ragazzo di montagna.
Ora che avevo rotto il ghiaccio dovevo esprimere tutte le cose belle che
sentivo di avere dentro di me.
Ogni
ragazzo, all' età che avevo allora, ritiene di avere un mondo fatto di
sogni, di avventura, di poesia che gli altri, i grandi, non riusciranno
mai a capire.
Ci si sente sempre un po' incompresi, un po' soli, ma anche un po'
orgogliosi dello splendido isolamento che quel mondo interiore,
profondo, segreto, sa darti.
Io mi sentivo di aver aperto, su quel mondo, una finestra attraverso cui
molti, moltissimi, tutti quelli che avrebbero visto il film di Lallini,
avrebbero potuto guardare.
Quella notte, nel mio lettuccio, non riuscivo a dormire pensando a tutte
le altre cose che avrei dovuto mostrare al Maestro.
Quando
ormai tutti in casa erano addormentati mi venne l'idea che dovevo
riferire subito a Lallini, mi vestii e, in silenzio, sgattaiolai fuori
casa e corsi alla locanda.
Le luci,
lì, erano ancora tutte accese.
Entrai nella sala e trovai Lallini seduto ad un tavolo che leggeva.
Ad un altro tavolo erano i vecchi del paese, con i loro cappelli in
testa, che giocavano a carte.
Gli altri della troupe erano sparsi qua e là: giocavano, parlavano,
facevano confusione.
Non ero mai uscito a quell'ora di casa e la prima cosa che mi meravigliò
fu di trovare tutta quella gente ancora in piedi come fosse pieno
giorno.
Lo zio
Giovanni mi venne incontro pensando che fosse successo qualcosa a casa
mia, lo tranquillizzai dicendo che tutti dormivano, allora mi guardò
severo: “E tu che fai qui?”. “Devo parlare con il Maestro”
risposi e senza far caso alla meraviglia dello zio proseguii fino al
tavolo di Lallini.
“Signor
Maestro - dissi - ho pensato che domani mattina vorrei accompagnarla a
vedere uno spettacolo che ho visto talvolta, quando non andavo ancora a
scuola, la mattina accompagnando mio padre a pascolare le bestie verso
le Forche Canapine. Vuole venire con me domani?”
Lallini mi guardò da sopra i suoi occhiali e mi disse di sì senza
chiedere altro.
Poi chiamò il suo aiuto-regista, un ragazzo alto e magro con un paio di
occhialetti metallici tondi, e me lo presentò dicendo: “E' lui il
ragazzo che oggi pomeriggio mi ha fatto ascoltare la sinfonia dei monti.
Ho ancora negli occhi quei colori!”
Io, a questo punto, salutai timidamente per tornare a casa, ma Lallini
mi fermò prendendomi per un braccio. “Fermati ancora un po' con noi,
ragazzo - mi disse - ci fai piacere, tu sei dei nostri”.
Trascorsi
la serata ad ascoltare i discorsi del Maestro e del suo giovane aiutante
ancora incredulo di quello che mi stava capitando.
Quando tornai a casa non mi restavano che poche ore da dormire, ma non
riuscii ugualmente a chiudere occhio; era come se un fuoco ardesse
dentro di me: avevo ascoltato quegli uomini discorrere della storia che
stava diventando il film ed in quei momenti, nel quieto tepore del mio
lettino, avevo mille idee che mi rammaricavo di non aver saputo
esprimere alla locanda.
Il sonno
mi vinse che era quasi l'alba, ma, non appena sentii i passi della mamma
che, come tutte le mattine, si alzava prima dell'alba per preparare le
cose che il babbo avrebbe portato con sé al pascolo, mi gettai dal
letto, la salutai con un bacio e le comunicai che sarei andato con Lallini alle Forche Canapine.
“Ma è ancora buio!” disse la mamma.
“E' proprio ora che devo andare” le gridai salutandola.
Terza
Parte
10.
Giunsi di corsa alla locanda e, sulla piazza, trovai il
Maestro accanto alla famosa motocicletta.
“Andiamo ragazzo - mi disse mentre faceva rombare il motore - siediti
qui” e mi diede un casco e degli occhiali.
Mi accomodai sullo strano carretto accanto alla moto che loro chiamavano
sidecar e partimmo.
Era
ancora buio, si cominciava a vedere il primo barlume dell'alba, le
stelle del mattino brillavano tenaci nel cielo, era una bella giornata e
faceva ancora un gran freddo.
La moto scendeva le pendici del nostro colle e percorreva sicura l'interminabile
rettifilo che taglie il piano. Annusavo l'umidità.
Si sarebbe mostrato lo spettacolo che volevo far vedere al mio compagno?
Quel miracolo, lo sapevo bene, non ha luogo tutti i giorni, ma sentivo
che, ancora una volta, mi sarebbe andata bene, non poteva che essere così!
Arrivammo
al Passo che non era ancora sorto il sole, ma l'aria era molto più
chiara.
Lallini non parlava, attendeva che lo facessi io.
Gettai uno sguardo sul Piano, scrutai l'inghiottitoio di Pian dei Margani, vidi, o mi sembrò di vedere, i segni di quello che attendevo
sarebbe accaduto; trassi un respiro profondo e guardai il fumetto che
usciva dalla mia bocca, toccai l'erba del Passo, ora ero sicuro: non
restava che attendere.
“Maestro,
occorre aspettare che il sole salga nel cielo, poi vedrà”.
Restammo in silenzio fino a quando il sole non fu abbastanza alto sulla
vetta del monte.
Non ebbi bisogno di parlare, lo spettacolo si impose da solo: dalle
ombre della notte, che ancora indugiava nel piano, emergeva una compatta
coltre di nebbia ed in fondo al piano, quasi un'isola sul mare bianco,
il mio paese svettava nel chiaro del cielo.
“Quando
vengo quassù con mio padre questo Oceano mi incanta, è così che deve
essere il mare, penso, e mi immagino che quell'isola laggiù sia la
dimora degli Dei”.
“D'estate
lo spettacolo è più bello - aggiunsi - perché il sole appena sorge è
più forte ed il contrasto tra il Piano bianco come la neve, le pendici
dei colli verdi, il Monte grigio sul fondo e l'isola con il suo tetto di
cielo blu, è molto più intenso; ma anche così a me piace molto, e a
voi?”
“E' splendido, figliolo, ti piacerebbe scattare delle fotografie?”
Non me lo
feci ripetere due volte, mentre lui montava la macchina e il cavalletto
i miei occhi già stavano cercando le inquadrature.
Poi mi insegnò a misurare i tempi di esposizione, l'apertura dell'obiettivo
e la messa a fuoco e a scattare; non avevo, allora, alcuna nozione di
fotografia, ma una specie di talento naturale e la profonda conoscenza
di quei luoghi fecero sì che scattai una trentina di belle foto.
Lallini,
di tanto in tanto, interveniva per sostituire l'obiettivo: “Vedi, ora
prova con questo” - “Ma è meraviglioso, questo affare mi fa vedere
più panorama di quello che posso fissare con gli occhi, così riesco a
prendere il Ventosola bagnato dal primo sole e il Vettore in una sola
fotografia!”
Ero
entusiasta come non lo ero mai stato e anche Lallini mi sembrava lo
fosse, non faceva che cambiare obiettivo ed alla fine mi mostrò il
filtro. Fu l'ultima scoperta di quella mattina indimenticabile. Con quei
vetri colorati potevo tingere di luce diversa il paesaggio che tanto
amavo: non avrei più smesso di scattare.
Ormai ero io che chiedevo l'obiettivo adatto, alzavo ed abbassavo il
cavalletto, allungavo le esposizioni per aumentare i contrasti e, con i
filtri appropriati, davo a ciascuna cosa il colore che aveva per me.
La nebbia
presto si diradò come avviene tutte le mattine, ma io continuavo a
scattare, scattare, scattare.
Il belato di un gregge alle mie spalle e l'usuale abbaiare di un cane, mi
riportò alla realtà.
Guardai il Maestro un po' impaurito.
Mi rispose: “Grazie, ora torniamo a sviluppare le foto”.
La
motocicletta giunse alla rampa che sale al Paese quando ormai i miei
compagni erano usciti dalla scuola e giocavano a pallone sull'asfalto.
Mi videro scendere dal sidecar, ma io non provai nessun tipo di
orgoglio, l'unica cosa che mi interessava era vedere le mie fotografie.
11.
Nel buio della camera oscura, con l'aiuto di Giuseppe, un ragazzo romano
non molto più grande di me, vidi emergere le immagini che avevo fissato
sulla pellicola e scoprii che quelle immagini possono essere valorizzate
ingrandendone alcuni particolari ed usando una carta appropriata.
Conservo
ancora una di quelle foto appesa nella mia casa; il Paese svetta sul
mare di nebbia color latte mentre la corona dei Monti che cinge il Piano
è estremamente sgranata come a sottolineare la natura fantastica e
soprannaturale in contrasto con l'isola, la dimora degli Dei: il mio
Paese.
Fu nella
camera oscura, mentre guardavo quelle foto, che mi venne l'idea di
mostrare le cose da un'altra inquadratura: quella definitiva.
Ebbi chiaro quello che volevo mostrare al Maestro, ma sinceramente mi
sembrava di dovergli chiedere troppo. “Questa volta - pensavo - mi
manderà al diavolo!”
Seguendo
i miei pensieri chiesi a Giuseppe se Lallini praticava qualche sport. Mi
rispose, un po' meravigliato, che non gli risultava e che, comunque, non
avrebbe avuto tempo.
“Accidenti!
- pensai - Come faccio a chiedergli di salire con me sul Vettore? Quando
l'ho portato alla Torraccia aveva un fiatone e sembrava dover schiantare
da un momento all'altro!”
Ma avremmo avuto tante altre cose da fare, pazienza!
Nei
giorni che seguirono, con una jeep, andammo a vedere i luoghi più
interessanti del Piano, scattammo tante fotografie e portammo con noi
anche le cineprese.
Intanto gli attori provavano incessantemente accompagnati da uno stuolo
di parrucchieri, truccatori, costumisti e guidati in maniera
inflessibile dal Maestro Lallini.
Io gli trotterellavo intorno e guardavo ammirato il lavoro di quegli
uomini.
Continuavo però a pensare alla salita del Vettore.
Salii il
Monte da solo più di una volta durante la primavera ed ogni volta che
guardavo giù mi ripetevo: “se il Maestro non vede quello che vedo io
da quassù non riuscirà a dire nulla di questo posto incantato! Sarà
stato inutile tutto il mio lavoro, sarà come mostrare un quadro
meraviglioso prendendolo da una prospettiva sbagliata, sarà come usare
un teleobiettivo per riprendere un paesaggio! Se userai quell'obiettivo
coglierai perfettamente solo un particolare ma non tutto quello che c'è
intorno!”
Tornavo pensieroso a valle in tempo per andare dal mio insegnante che,
nel pomeriggio, mi dava ripetizioni per farmi recuperare tutte le
mattinate di scuola perse.
Intanto
la primavera procedeva aprendo sempre più il suo scrigno di profumi,
colori, luci, brezze che, nelle ore centrali della giornata,
cominciavano a farsi tiepide.
Mano a mano che lo scrigno si apriva ciascuno, come ogni anno, usciva di
più dalla propria casa, i ragazzi giocavano nelle strade e, nel Piano,
gli uomini curavano le greggi e preparavano i campi delle lenticchie. Nel
cuore di tutti si faceva più luce.
Presto l'ultima
neve si sarebbe sciolta sulla cima del grande Monte e l'inverno sarebbe
definitivamente finito.
Presto sarebbe iniziata l'estate e, con l'estate, sarebbero arrivati i
fiori.
Quando accompagnai Lallini al prato che fioriva per primo, quello con la
migliore esposizione sotto ai Colli Alti e Bassi, rimase letteralmente
esterrefatto.
Mi disse:
“Ragazzo, non ho mai visto nella mia vita una fioritura così ricca e
così... spontanea!”.
Gli mostrai ranuncoli, genzianelle, denti di leone, margherite bianche e
gialle di ogni dimensione e le erbe profumate, le spighe, i non ti
scordar di me, i grandi fiori spinosi dei cardi.
“Tra non molto - gli dissi- ci saranno anche i fiori gialli delle
lenticchie e, dopo pochi giorni, anche i rossi papaveri. A quel punto il
Piano sarà completamente vestito a festa!”.
Aggiunsi che, secondo me, questi prati sarebbero piaciuti molto al Santo
Poverello e che Don Antonio ci aveva raccontato che San Francesco
raccomandava ai suoi fratelli di lasciare incolta una parte dell'orto
per consentire ai fiori dei campi di sbocciarvi.
Lallini
era entusiasta.
Lo sentii
parlare con i suoi più stretti collaboratori, diceva che quella
fioritura così impetuosa, così semplice, così povera ma tanto bella e
profumata era tremendamente simile al francescanesimo, il movimento che era nato da un uomo che all'inizio alcuni credevano
eretico o pazzo perché proponeva un ideale di Chiesa povera e vicina
alla gente, che si era imposto con la sua semplicità e la sua bellezza
anche nella corrotta Roma dei papi e che aveva dilagato nel cuore della
gente così rapidamente per il fascino esercitato da quella coppia di amanti ardenti, Francesco e Madonna
Povertà, secondo le parole di Dante.
Lallini
era un fiume in piena: di giorno girava senza tregua, al tramonto si
chiudeva in interminabili riunioni con i suoi uomini.
Con gli attori era diventato terribile, li faceva riprovare la stessa
scena mille volte finché non raggiungeva la perfezione.
Si intrometteva nel lavoro di tutti, era capace di perdere mezzora con
un truccatore per spiegargli quello che voleva; una volta lo vidi fuori
di sé perché l'abito del padre di San Francesco non era abbastanza
ricco e, per aspettare i ritocchi, fermò due giorni le riprese.
Era
intrattabile, ma, quando si fermava un attimo, ricordo che diceva: “Dov'è
il mio giovane amico poeta?”. Io avanzavo timidamente perché qualche
strillata l'aveva fatta anche a me, ma quando mi chiamava era di buon
umore e voleva sentire il mio parere su un'inquadratura o una luce. “Che
ne dici, ragazzo? Come ti sembra? Pensi che debba far schermare un poco
quello spot? Guarda questa scena, a che ora è stata girata secondo te?”.
Molte volte l'ho visto buttare a mare il lavoro di più di qualche
giorno perché io avevo fatto delle osservazioni.
Era, però, molto esigente, e non ammetteva di perdere tempo; per
questo, se capiva che non avevo niente di importante da dirgli, mi
congedava bruscamente e si rimetteva al lavoro.
12.
Al ritmo che imponeva Lallini il lavoro procedeva rapidamente.
Il Maestro mi aveva detto che aveva intenzione di terminare le riprese
prima di Ferragosto.
Io mi chiedevo come avrei fatto a mostrargli ciò che volevo, e man mano
che progredivano le riprese la mia ossessione aumentava. Come dovevo
fare? - mi chiedevo.
Ero
seduto davanti alla locanda e guardavo la cima del Monte ormai sgombra
di neve in un pomeriggio di luglio.
Ero immerso nel solito pensiero quando giunse Lallini e si mise seduto
accanto a me.
Era tutto infangato perché il giorno prima aveva piovuto ed i campi
erano ancora bagnati. Era soddisfatto, mi disse, perché aveva finito di
girare la scena di Francesco e Chiara nei campi e voleva mostrarmela.
“Stasera finiranno di montarla - mi confidò -
vieni alla locanda che ce la rivediamo tutti insieme”. Poi
aggiunse: “sei pensieroso ragazzo, c'è qualcosa che non va?”.
Pensai
che la sua euforia gli avrebbe impedito di capire, che era troppo
soddisfatto di quello che aveva realizzato per concepire quello che
avrei voluto dirgli, che era troppo tardi per offrirgli quello sguardo
in più.
Pensai alle mura di cartapesta che ancora cingevano il paese, alla
capanna costruita nel piano con tanta meticolosa cura di ogni
particolare, agli abiti sontuosi e ai poveri sai. Pensai al copione
scritto, riscritto e corretto infinite volte. Alle ore di prove che
aveva fatto fare agli attori, ai chilometri di piano che aveva percorso
con me.
Pensai alle foto scattate, a tutte le scene provate e filmate, alle
musiche scelte con cura, alle nottate trascorse a montare.
Pensai a tutte le albe e a tutti i tramonti che avevamo atteso e
assaporato, alle ore lasciate correre aspettando che giungesse la luce
giusta per quella scena.
Tutto inutile! Ma non si poteva chiedere di più.
“Ragazzo,
mi vuoi dire qualcosa? Perché non parli?”.
Lallini mi guardava intensamente ed io non trovavo il coraggio di dire
che tutto quello che avevamo fatto fino a quel momento era inutile perché
gli mancava uno sguardo: quello definitivo.
Quasi inconsapevolmente guardai la cima del Monte.
Lallini scorse quello sguardo e subito comprese: “Quando si sale,
ragazzo?”.
La sensibilità del Maestro ancora una volta aveva superato la mia
immaginazione!
Mi uscì quasi un urlo dal cuore “Stanotte, Maestro, alle quattro,
andiamo a vedere l'alba dal Monte!”
“Tu credi che sia indispensabile, vero?”
“Si...” - risposi laconicamente.
“Allora perché non me lo volevi dire?”
“Pensavo che lei fosse soddisfatto del suo lavoro.”
“Lo ero ma non lo sono più se posso fare meglio; tu credi che ci sia
qualcosa di importante da vedere lassù?”
“Lo vedrà, Maestro.”
“Allora ci vediamo stanotte alle quattro.”
“Stasera vengo alla locanda a vedere la scena montata?”
“Lasciamo perdere la scena, prima dobbiamo salire sul Monte” -
rispose il Maestro.
Poi si alzò e rientrò velocemente nella locanda, si chiuse nella sua
stanza e non scese neanche per cena.
Più
tardi l'aiuto regista venne su a casa mia per chiedermi di cosa avevamo
parlato e perché Lallini si era chiuso in camera.
Risposi che avevamo deciso di salire sul Vettore.
Mi sembrò un po' contrariato, mi disse che non capiva come il Maestro
si fosse convinto ad interrompere, proprio in quel momento, le riprese
per un giorno intero.
Io, francamente, non sapevo cosa rispondere
13.
Coinvolsi Poldo nell'impresa, lo feci perché era sempre venuto con me
quando ero salito sul Vettore e perché ci avrebbe portato su l'attrezzatura
necessaria, almeno fino alla capanna del rifugio.
La notte
era ancora fredda e le stelle brillavano intensamente. Il Monte era
completamente buio e invisibile.
Chiesi al Maestro come si sentiva, mi disse che aveva sonno perché non
aveva dormito quasi per niente.
Mostrai al Maestro una stella e gli spiegai che brillava proprio sopra
la cima del Vettore - “E' lì che dobbiamo arrivare!”.
Prendemmo
la jeep sulla quale avevamo fatto salire Poldo e caricato le
attrezzature; in breve giungemmo a Forca di Presta.
“Ragazzo sai che ti dico” - cominciò Lallini appena all'attacco del
sentiero che saliva le ripide pendici del Monte - “sono proprio felice
di aver preso questa decisione! Da quando sono salito per la prima volta
al Piano non faccio altro che guardare il Monte. Sento che mi chiama
ogni volta che lo guardo.
Non potevo lasciare il Piano senza averlo salito almeno una volta”.
Poi
tacque forse perché già gli mancava il fiato.
Io lo precedevo con Poldo ed ero felice.
Sì, Maestro, quello era il modo migliore di affrontare il Monte:
sentirne il richiamo. L'avevo sentito incessantemente durante la mia
infanzia e ne conoscevo bene la voce ferma e inesorabile - “sali,
ragazzo, sali, figlio mio, quassù c'è l'avventura, la beatitudine, la
vita, sali non te ne pentirai”.
Ricordo ancora oggi, quanti anni sono passati, la prima volta che
salimmo con mio padre e la prima volta che ci arrivai da solo, ricordo
tutte le altre salite, da tutti i versanti, che feci nella mia vita
quando, più tardi, presi ad arrampicarmi sulla roccia, ma non
dimenticherò mai quella salita notturna, sulla via normale, con il
Maestro Lallini.
La prima
parte della salita è tutta sul prato che, in quella stagione, era
ancora basso e spinosetto, ma è anche la più ripida. Lallini si
fermava spesso e cominciavo a valutare la possibilità di farlo salire
in groppa a Poldo e mi meravigliai quando, avendoglielo proposto, mi
disse di no: voleva salire da solo fino alla vetta.
Sì! - pensai - così va bene Maestro, poi gli dissi: “Non manca molto,
tra poco si vedrà un po' di luce e potremo spegnere la torcia”.
Giungemmo
sulla pietraia e poi, dopo un ultimo strappo in salita, al Rifugio.
Legai Poldo alla maniglia, accesi un piccolo fuoco; il Maestro si era
messo a sedere appoggiato alla parete del rifugio riparato dalla piccola
tettoia. Scaldai l'acqua e feci un tè che bevemmo insieme in silenzio.
“Si è
mai chiesto, signor Maestro, perché il Monte la chiama?”
“Me lo chiedo da quando sono quassù, non ho trovato una vera risposta”.
“Per me che sono sempre vissuto su questo Piano, la risposta sembra
facile: è il desiderio di vedere cosa c'è oltre il Monte che chiude il
nostro orizzonte. Ma per lei che ha girato il mondo non può essere così.
Lei la conosce la vallata che è di là, vero?”
“Certo che la conosco, è percorsa dalla via Salaria, una strada
costruita dai Romani tanti secoli or sono che arriva fino al mare, l'ho
percorsa tante volte, ho visto anche questo vostro Monte dall'altro
versante, ma, da quando sono qui, è tutto diverso”.
“Vede, Maestro, io conosco questo posto pietra su pietra e ne amo ogni
pietra ed ogni filo d'erba, ogni fiore, ogni profumo, ogni abitante. Non
trova che i miei compaesani siano gente meravigliosa? Certo diversa da
quella che ha conosciuto nel vasto mondo! Credo di amarli perché
assomigliano a questi monti così duri ma così sinceri, così forti,
tenaci ma generosi e... belli. Io penso che noi siamo un po' come loro
perché siamo nati e vissuti su un Piano recluso dal mondo come fossimo
una razza a parte; non voglio dire migliore delle altre, ma diversa,
straordinariamente armonica con questa natura che ci circonda.
Io so che
la mia vita quassù non mi riserverà né avventure, né sorprese, ma
non abbandonerò per nulla al mondo il mio Piano”.
“Questo non devi dirlo, ragazzo, tu devi studiare, devi mettere a
frutto i doni che la natura ti ha dato; mi ha sempre meravigliato la tua
maturità, la tua saggezza, la tua conoscenza di quanto agli altri
sfugge e la poesia che sai trarre dalle cose.
Diventerai qualcuno laggiù
nel mondo, te lo dico io che, il mondo, lo conosco”.
Quel che
risposi al Maestro, quando ormai si stava facendo l'alba, fu la sentenza
della mia vita.
“Questa roccia brava che mi ha visto nascere, mi è stata sufficiente
per diventare uomo e per acquistare le qualità che ho, non c'è nulla
laggiù che potrebbe darmi di più. Non lascerò mai questi Monti, ho già
deciso”.
E parlando guardavo il Vettore come se, davanti ad un testimone
autorevole come Lallini, prestassi un giuramento.
Quel
giuramento, ormai posso dirlo, non lo ruppi mai neppure quando tutto
sembrava tirarmi giù nella valle.
Quel giuramento l'ho rammentato infinite volte nella mia vita ed ancora
oggi quando, sul far della sera, vado a trovare mia moglie nel cimitero
sotto il Gaidone, mi consola il fatto che, tra non molto, sarò lì,
accanto a lei ed insieme, mano nella mano, guarderemo il Vettore
imbiancare ogni inverno e inverdire ogni estate.
Ricordo ancora oggi quei momenti, ma non fu per quel giuramento, come in
seguito ebbi a definirlo, che non lasciai mai questo posto; al contrario
fu perché fin da allora amavo così tanto il mio paese che pronunciai
quelle parole e, per questa stessa ragione, vi ho tenuto fede fino ad
oggi.
Ero così
rapito dall'aria fine del primo albeggiare e dalla solennità del
momento che stavo vivendo, che le parole di Lallini mi percossero
l'orecchio riportandomi bruscamente alla realtà.
“Sei un terribile testardo, ragazzo, sei più cocciuto del tuo amico
Poldo, non perderò il mio tempo nel tentativo di convincerti che la
vita non è fatta per essere vissuta in questo isolamento, che laggiù
ci sono mille cose che vale la pena vedere e comprendere e provare, che
ci sono i viaggi, le avventure, il denaro, il successo, le donne... la
vita; è inutile, lo so, la tua testa è più dura di questa roccia che
calpestiamo!” - e dicendo queste ultime parole mi guardava, Lallini, e
sorrideva con complicità perché sapeva che io le avrei considerate un
complimento ed un suggello alla mia promessa.
14.
L'alba della montagna cominciava a rendere chiaro l'orizzonte dove
sarebbe sorto il sole dando una tonalità quasi giallastra alle lontane
creste dei Monti della Laga.
Scattammo
qualche foto.
Poi raccolsi l'attrezzatura indispensabile e
chiamai Lallini: “Andiamo, Maestro, se non partiamo subito non saremo
in vetta per l'alba”.
Lallini si alzò sbuffando, ma mi rendevo conto che si trattava solo di
un atteggiamento che gli piaceva assumere, perché in realtà era
attratto da quell'ultimo tratto di salita, lo vedevo da come affrontava
il sentiero, lo sentivo dalla determinazione dei suoi passi, dalla
sfumatura della sua voce quando mi chiese: “Quanto manca alla vetta?”
- “Meno di un'ora di strada” risposi; poi non parlammo più.
Non
parlammo lungo la faticosa salita e non parlammo neanche nell'ultimo
tratto di strada che corre lungo la cresta sommitale quando ormai senti
nella tua mente e nelle tue gambe, oltre che nel tuo cuore, che la vetta
è conquistata e ti prende quel sentimento misto di soddisfazione e di
confidenza che ti fa dire - ormai sono arrivato, ce l'ho fatta! - allora
senti che le tue gambe, che la fatica aveva reso pesanti, quasi per
miracolo si alleggeriscono tanto che ti sembra di volare.
Solo
arrivati sotto la croce che segna la vetta parlai: “Le è sembrato
troppo faticoso?” - “No” mi rispose euforico Lallini ed io
capii che aveva provato anche lui l'ebbrezza di quell'ultimo tratto di
salita e della conquista della vetta, la prima della sua vita.
Sulla
cima il freddo era più intenso, nulla ci proteggeva più dal vento del
mattino.
Ai piedi della croce ci voltammo insieme a guardare verso i Monti della
Laga: il sole stava sorgendo ed illuminava di luce radente le creste dei
monti rendendone evidenti i piani diversi e le lontananze. Giù, nella
valle, una profonda foschia lasciava solo immaginare i campi e le poche
case. Gli uomini e le loro vite, in fondo al piano, sembravano un
particolare trascurabile ed anche il film che ci aveva portato a quell'impresa
pareva perdere di interesse.
Tutto, in quell'alba d'estate sul Vettore, sfumava, anche il rifugio a
poche centinaia di metri da noi e la scura pozza del Lago della Sibilla,
misteriosa come sempre, sotto di noi.
Non
parlava, il Maestro, ed anche io tacevo in attesa che qualcosa emergesse
da quel momento magico, immerso nel più assoluto silenzio.
Lallini si guardava intorno, scrutava i monti lontani, il cielo che
ormai era di un azzurro intenso, annusava l'aria respirandone a pieni
polmoni, a tratti mi lanciava uno sguardo obliquo come per controllare i
miei movimenti, poi tornava a guardarsi intorno tenendo lo sguardo alto
sull'orizzonte.
“Come
si sta bene quassù!” mormorò, ma non voleva una risposta ed io
tacqui.
Il sole saliva rapidamente e la visibilità aumentava ogni minuto di più;
in fondo alla valle si cominciavano a intravedere particolari che
rammentavano la presenza dell'uomo: una casa, un fienile, un gregge
sulle verdi pendici dei monti.
Lallini si spingeva a guardare la valle e mi faceva domande; quando si
fu completamente orientato, cominciò a nominare i monti che gli avevo
fatto conoscere e le valli chiedendomene sempre conferma.
“Ormai,
Maestro, è diventato uno di noi” dissi ridendo e mi chinai a cercare
sotto le pietre, ai piedi della croce, una cosa che vi avevo lasciato
qualche tempo prima, durante una delle mie ascensioni solitarie, quando
cercavo il modo di portare Lallini su con me.
Trovai il bastone e lo porsi a Lallini mentre mi rispondeva.
“Ora sì, sono uno di voi, perché anche io ho visto il mondo con lo
sguardo di Dio! Ora capisco perché gli uomini hanno sempre salito i
monti! Quassù si perde la vista dell' essere umano: gli uomini sono così
lontani e così piccoli là in fondo che quasi te ne dimentichi, non ci
sono qui a distrarti i mille rumori, le luci delle città, le voci che
ti chiamano, le necessità di ogni giorno che ti costringono a fare
anche quello che non vorresti, le lusinghe del successo, gli applausi e
i fischi del mio lavoro; quassù non c'è nulla e allora, sotto questo
cielo, puoi intuire lo sguardo di Dio. Grazie di avermelo mostrato,
amico mio!”.
Io gli
porgevo il bastone e tremavo mentre un singhiozzo mi scuoteva le spalle.
Le nostre sensazioni coincidenti, là, sulla vetta del mio Monte, avevano
raggiunto il culmine: Lallini aveva capito perfettamente ciò che volevo
mostrargli. Su quel bastone di tenero legno, nelle ore di solitudine ai
piedi della croce, avevo inciso una frase: “Ho veduto il mondo con lo
sguardo di Dio”.
Lallini lesse le parole sul legno e mi abbracciò anche lui commosso.
Quel
bastone fa parte dei miei più cari ricordi; me lo rimandò quando il
Maestro morì, tanti anni or sono, la sua compagna, insieme ad una bellissima
pagina scritta da lui su quella nostra ascensione e su quanto aveva
significato per il suo capolavoro.
Sulla
cima scattammo tante foto, ma Lallini aveva fretta, mi diceva che tanto
era inutile, che nessuna pellicola avrebbe potuto mai trattenere e
mostrare quell'incanto e ciò che aveva significato per noi, che l'esperienza
che avevamo fatto era tutta ‘spirituale’ proprio come quella di San
Francesco di fronte al crocefisso di San Damiano, che doveva mettersi al
lavoro, smontare e rimontare tutte le scene, che ora sapeva bene che cosa
doveva fare, che quanto era riuscito a fare era solo l'ombra di ciò che
avrebbe dovuto essere.
15.
All'ora di pranzo era già al lavoro, prima della notte avevamo già
riesaminato tutti gli spezzoni di film che aveva selezionato e li avevamo
rivisti con lo sguardo di Dio.
C'era ancora molto da fare.
Nel mese
successivo girammo ancora moltissime scene, Lallini ci metteva un
puntiglio ancora maggiore di quello che già conoscevo ed era una vera e
propria furia, faceva girare a mille tutti i suoi collaboratori e
lavorava con un ardore che faceva bruciare anche gli altri.
Io ero sempre con lui, ci intendevamo con uno sguardo e tutto filava a
perfezione. Non si dormiva che poche ore per notte anche perché la
buona stagione ci dava una gamma di luci tutte da sfruttare; cogliemmo
ogni singolo raggio di sole e tutte le ombre che scendono sul Piano.
La storia
del Santo fu terminata alla fine dell' estate ed era una storia
bellissima, piena di devozione, di amore, di umanità e soprattutto
piena di quella natura che il Santo tanto amava e che fa sentire gli
uomini così vicini a Dio.
La sera
prima della partenza facemmo una grande festa alla locanda, partecipò
tutto il paese, si mangiò, si fece musica e si ballò quasi tutta la
notte.
Lallini era soddisfatto ed io mi sentivo al massimo, non riuscivo a
pensare al domani, ero semplicemente felice di aver fatto quello che
avevo fatto con il Maestro.
16.
Gli anni che seguirono mi avrebbero consentito di rileggere mille volte
quella mia storia e di capirla fino in fondo.
In quel momento nulla aveva importanza se non la musica che suonava e
tutti gli amici che mi circondavano e la convinzione di aver fatto una
gran cosa che tutto il mondo avrebbe visto sugli schermi.
L'indomani
partirono tutti all'alba come aveva deciso Lallini che mi salutò, con
un abbraccio un po' frettoloso ed un grazie, al termine di quella
indimenticabile serata.
Quando,
la mattina dopo, mi affacciai alla locanda trovai solo i miei compagni
che giocavano sul piazzale e, in un angolo, accanto al fontanile, la
moto con il sidecar che aveva annunciato l'arrivo degli uomini che
avrebbero rivoluzionato la vita del nostro tranquillo villaggio e la mia
in particolare.
Era stata lasciata lì perché doveva essere riparata.
Rimase parcheggiata per molti mesi continuando a suscitare l'interesse
dei miei compagni, non più il mio.
L'inverno
successivo Lallini mi invitò alla prima del film in una sala di Roma;
andai volentieri a vedere quella che il Maestro definì, parlando ad una
conferenza stampa, la “nostra opera”, mia e di quel ragazzo seduto
in prima fila al quale questo film deve moltissimo. Disse anche tante
cose lusinghiere su di me Lallini, in quell'occasione, che fecero felici
i miei genitori, ma ormai il momento magico era finito: lui era il
Maestro, il vate del cinema italiano, io un ragazzo di montagna di poco
più di dodici anni.
La
consapevolezza di ciò non mi feriva perché non ero mai voluto essere
più di ciò che veramente ero; sapevo bene, anche allora, che l'aquila
della mia vita che aveva saputo salire sulla cima del Vettore per
cogliere lo sguardo di Dio, aveva cominciato a planare dolcemente
verso il mio amato Piano.