Il volo dell'aquila

 

di Paola Arbia


Se cominciassi potrei raccontare più storie dei fili
d'erba di questo prato, ma una sola è la più bella,
quella che amo di più: la storia della mia vita.


Prima Parte
Seconda Parte
Terza parte

 

Prima Parte

1.
Non avevamo ancora visto gli uomini volare sulle nostre teste con i loro palloni colorati, a quel tempo. 
Le nostre case erano isolate in mezzo alle montagne.
Solo una strada bianca, faticosa a percorrersi, ci collegava alla città e chi la scendeva spesso non la risaliva più.
Troppo cattivo il nostro inverno, con il vento gelido e tutta quella neve che a volte impediva i rifornimenti e allora dovevamo fare provviste ed anche mangiare poco.
Certo era bella la primavera fiorita, più bella di quella di oggi, era bello sedersi d'estate sotto un albero e guardare i monti, sentire i grilli trillare e le pecore belare, era bello fabbricarsi flauti di legno e sognare avventure, era bello, lo so, ascoltare i vecchi raccontare favole antiche davanti al fuoco d'inverno anche quando non c'era che un piatto di lenticchie da mangiare.
Ero giovane, allora, e pieno di forze e la vita, per me, era bella così, che forse non l'avevo ancora assaggiata, la vita.

 

2.
Non mi aspettavo grandi cose dalla mia vita.
La immaginavo scorrere tranquilla sul mio altipiano isolato, con i miei compaesani, tutti amici, con le mie coetanee, una delle quali avrei sposato, con i miei figli, poi.
Non pensavo ad abbandonare il piano dove ero nato, come facevano molti dei miei amici; mi piaceva la vita quassù, mi piaceva il lavoro dei campi che mi faceva sentire libero sotto il cielo, amavo le bestie: le mucche, le pecore e soprattutto un piccolo mulo che cavalcavo fin da bambino per spingermi ai margini del piano e guardare giù.

Credevo, a quei tempi, che la posizione del mio villaggio, così vicina alle stelle, fosse un privilegio che Dio gli aveva concesso e non un limite.
Non mi mancava nulla di quanto veniva da fuori ed ero tanto abituato ai sacrifici dell'inverno da non avvertirli quasi più.
Avevo imparato sin da piccolo a rispettare i ritmi che, alla vita della nostra comunità, venivano imposti dalle stagioni, dal clima, dai lavori dei campi, dalle ore del giorno, dall'avvicendarsi della luna e del sole.
Dalla mia vita non volevo altro se non la libertà di quei pascoli e di quei monti.
La immaginavo scorrere tranquilla, la mia vita, ero poco più che un bambino allora e tutte le mie coetanee mi attraevano, sarei stato felice di sposarne una qualsiasi e allora... cosa potevo chiedere di più.

A guardarla ora, la mia vita è scorsa davvero tranquilla, più placida del volo dell'aquila quando plana dal monte.
Forse, con gli anni, ho perduto un poco di quell'ingenuo entusiasmo che avevo di viverla così com'era scritta, questa mia vita. Ma sono pur sempre un uomo sereno che guarda positivamente al suo futuro.
Ho amato molto mia moglie che mi ha lasciato da poco e sono orgoglioso dei miei figli che non abitano più la valle, ma spesso tornano a trovarmi e mi raccontano i loro successi e mi chiedono consigli e mi offrono sempre di andare a vivere con loro in città.
Ma no, non sono un vecchio cocciuto, se non voglio abbandonare questa valle è perché l'ho tanto amata e l'amo ancora.
Per questo voglio continuare a fare, nella mia terra, la vita che ho sempre fatto.

 

3.
Era una giornata autunnale, come quella di oggi, quando vidi arrivare un'automobile.
Era la seconda volta che ne vedevo una nella mia vita. Con la prima venne il medico che salvò la vita alla Marianna. Dalla seconda, in quel pomeriggio di primo autunno, scesero due uomini.

Li vidi scendere da quell'automobile e neanche li guardai; ero troppo preso ad osservare l'auto, tutta rossa, decappottabile... una meraviglia.
Esaurita la curiosità per la macchina finì ogni mio interesse per la situazione e non mi occupai più di loro.
Li incontrai, nei giorni successivi, una volta al Piano Perduto, un'altra volta sui Colli Alti e Bassi, quelli proprio sotto il paese. Una volta li incontrai anche mentre andavo a caccia di merli alla Torraccia. Uno di loro portava uno strano tre piedi e l'altro aveva una grossa scatola ingombrante ed anche pesante a giudicare dalla fatica che faceva a salire la collina.
Quando tornai in paese chiesi di loro alla figlia della padrona della locanda presso la quale avevano preso alloggio.
Mi disse che erano “quelli del Cinema”; erano venuti per vedere se, nel nostro paese, si sarebbe potuto girare un film.

Un film! Questa parola stuzzicava la mia fantasia. Chissà com'era un film? Era come se i racconti del nonno davanti al fuoco d'inverno potessero avere dei volti e tante voci. Era come se avessi potuto vedere le montagne di cui mi raccontava, tanto più alte delle nostre, tanto lontane di qui dove, quando era giovane, aveva fatto la guerra; come sarebbe stato bello vedere quelle scene! Vedere le trincee scavate nelle gole dei monti e sentire le voci di quegli uomini coraggiosi ed ascoltare i loro cori, di notte, quando, cantando, si stringevano per non sentire il freddo che mordeva.

Se avessi potuto vedere un film avrei voluto vedere quello!

Ed ora un film nel nostro paese e di cosa poteva parlare? E che cosa poteva interessare agli uomini laggiù del nostro piano isolato?
Non feci in tempo a risolvere questi enigmi perché, in quei giorni, era previsto l'arrivo di un altro straniero al villaggio: il maestro che ci avrebbe insegnato a leggere e scrivere e quella era un'avventura che mi preoccupava un poco, ma, insieme, mi esaltava.

Quando mi ricordai dei due cinematografari, loro erano già partiti e neanche la mia amica Sandra, quella della locanda, sapeva di che film si trattasse e se si sarebbe fatto tra i nostri monti, quel film.

Ben presto dimenticai tutto perché a quell'età le cose, si sa, vanno così.

 

4.
Stava per cominciare l'inverno, da noi comincia presto, quando avvistai arrancare, sui tornanti che portano al paese, quella macchina rossa e dietro un'altra macchina ed una moto con uno strano carretto di fianco e poi un grosso camion, non ne avevo mai visti di così grandi.

La mia amica Sandra mi aveva preannunciato che sarebbero tornati quelli del Cinema quando suo padre aveva ricevuto un telegramma; sarebbero stati tanti e poi sarebbero arrivati anche gli attori e le attrici; me lo aveva detto, ma io non le avevo neppure prestato ascolto perché stavo organizzando, con i miei amici, una partita di calcio, e in quei casi le chiacchiere delle femmine, ogni ragazzo lo sa, sono fastidiose.

Quando però li vidi arrivare, così tanti, con tante automobili, capii che la vita nel nostro villaggio sarebbe cambiata ed ebbi paura di quel cambiamento che nessuno di noi aveva desiderato.

Tutto cambiò, effettivamente.

Nei primi giorni della loro permanenza ricordo che non facevo altro che sperare che se ne andassero da un momento all'altro.
Ogni mattina, quando aprivo la finestra della mia casetta, mi rammaricavo che le mie speranze erano state ancora frustrate: erano ancora lì le loro auto, i loro camion e quella incredibile motocicletta, sulla piazza, davanti alla locanda, ormai sempre più coperti dalla neve.
Erano ancora lì e se non se ne fossero andati avrebbero continuato a turbare le nostre vite.

Tanto per cominciare saltò la partita di calcio che si sarebbe dovuto svolgere sul piazzale che loro usavano per parcheggio e questo significava che, fino alla primavera, non se ne sarebbe potuto più riparlare.
Ma quello che era peggio era che tutti i miei amici erano cambiati e, soprattutto le ragazze, erano diventate insopportabili.
Non facevano che ronzare intorno ai cinematografari.
Io, invece, non potendo fare altro, non facevo che studiare: nel primo mese di scuola ero l'unico della classe a saper leggere e scrivere alla perfezione.
Di quegli uomini non volevo sapere nulla, neanche che film stessero girando,  neanche cosa fosse un film e neanche che faccia avessero loro.

Ma non potevo ignorarli completamente per la semplice ragione che tutti non facevano che parlare del film e dei cinematografari.
Perfino il nostro maestro aveva stretto amicizia con loro ed era talmente fiero delle sue nuove relazioni che ogni mattina, durante le lezioni, non mancava mai di riferirci particolari dei suoi incontri. La persona con cui amava intrattenersi era il regista, colui che io odiavo di più di tutti perché gli attribuivo la colpa di tutto quello sconquasso: era lui infatti che, per primo, con la sua automobile rossa, era giunto sull'altipiano e se ne era, evidentemente, innamorato.

Ma quella era casa nostra e né lui né i suoi amici avevano il diritto di venire a rivoluzionare la nostra esistenza.

 

5.
Ciò che, in quel momento, mi limitava era l'inverno e la neve; quando sarebbe tornata la primavera, mi ripetevo, me ne sarei andato con il mio amico Poldo su fino al Passo e se non fosse stato sufficiente sarei salito sulla cima del Monte, tutti i giorni, per divertirmi da solo a guardare le montagne ed il cielo e riuscire a dimenticare quel trambusto inutile.

Ma ora con la neve ed il freddo non potevo che starmene in casa seduto vicino al braciere e studiare, accudire Poldo nella sua stalla e... fare conversazione con lui.
Solo con lui, infatti, potevo parlare e gli ripetevo ogni giorno i miei malumori, perché tutti gli altri erano impegnati in mille attività.

Abitualmente il nostro inverno trascorreva interminabilmente lento, freddo, scuro, senza troppo da mangiare e senza nessuna visita di estranei. Chi mai avrebbe avuto la voglia di salire quella strada faticosa con la neve e poche ore di luce a disposizione?
Sembra assurdo, ma a me piaceva la condizione di isolamento che l'inverno imponeva, perché, in quei giorni, nei quali sempre aspettavo la primavera con il sole e la luce ed i giochi all'aperto, mi godevo il tepore umano delle sere intorno al fuoco, il calore della nostra piccola comunità che si stringeva, come fosse una famiglia, solidale nelle ore del maggior bisogno.

Non ci fu mai un inverno come quello.

Non fu scuro perché quegli uomini avevano delle macchine che producevano energia elettrica e facevano luce fino al mattino per le strade e nella locanda; mai ci fu tanto via vai di gente e tanto da mangiare, le automobili, con pesanti catene, andavano e venivano ogni giorno su per i tornanti dalla valle sottostante.
Quell'inverno non fu neanche tanto freddo perché, grazie all' elettricità, le stufe scaldavano ogni casa.
Ed infine, quell'inverno, per una stregoneria che non sapevo spiegarmi, passò in pochissimo tempo.

Tutti godevano il benessere improvvisamente conquistato; si mangiava e si beveva fino a tardi nella locanda e tutti erano di buon umore.
Tutti, naturalmente, tranne me.
Forse ero cocciuto sin da piccolo, ma quei cambiamenti, che pure riconoscevo come positivi, non mi andavano ed il peggio era che nessuno, tranne il mio vecchio Poldo, poteva capirmi.

I miei genitori erano completamente presi dal vortice delle novità, la mamma tornava a casa felice con un bel pezzo di carne da fare in brodo ringraziando il cielo che c'erano quelli del cinema. Mio padre, che faceva il pastore e d'inverno trascorreva lunghe ore a casa, era tutto indaffarato. Anche lui, come tutti gli uomini del paese, lavorava per i miei nemici. Cosa diavolo facessero io non volevo saperlo.

I mie amici trotterellavano sempre intorno alla locanda della Sandra ed ottenevano spesso dolci e giocattoli da quegli uomini; così non mi avrebbero comprato, pensavo io.
Loro sono gli intrusi e loro se ne sarebbero dovuti andare. Stringendo i denti mi auguravo che ciò accadesse al più presto.

 

Seconda Parte

6.
Accadde prima che me lo aspettassi perché a Natale la carovana lasciò il villaggio.
E tornò il buio, il freddo e le lunghe ore davanti al camino.
Ma mi resi subito conto che il maleficio che avevano gettato sull'altipiano resisteva perché tutti continuavano a parlare del film auspicando il ritorno di quegli uomini e così, anche le vacanze di Natale, quell'anno, trascorsero velocemente.

Fu proprio la notte di Natale che appresi il contenuto del famoso film. Successe perché Don Antonio ne parlò durante la predica.
Non volevo credere alle mie orecchie. Anche Don Antonio che era stato molto diffidente, all'inizio, verso quegli uomini così diversi da noi e quelle donne vistose e piene di gioielli, era passato dalla loro parte, tanto visceralmente da citare il film nella più importante delle funzioni dell'anno.
Doveva averlo convinto quel diavolo di regista che spesso avevo visto risalire le stradine piene di neve, tutto imbacuccato nella sua pelliccia, per andarsi a chiudere in canonica; e a volte portava anche un fiasco di vino, il demonio.

“Fratelli - disse Don Antonio dopo averci parlato come tutti gli anni del Bambin Gesù e della sua nascita - quest'anno il nostro Paese sta per assistere ad un grande evento di cui saremo testimoni e protagonisti. Il grande Maestro Lallini, come tutti sapete, ha deciso di ambientare tra i nostri monti la sua ultima produzione: un'opera sulla vita di San Francesco. Tra poco tornerà la troupe e riprenderanno i lavori. Ringraziamo il Signore per averci concesso il privilegio di assistere alla creazione di un'opera che contribuirà a diffondere la conoscenza in Italia e nel mondo del Santo patrono del nostro Paese che, come tutti sapete, è nato e vissuto non lontano da qui...”

Continuò a parlare di San Francesco nella notte di Natale Don Antonio, ma io non lo ascoltavo più.
La subdola magia della macchina che ti mostra le storie che da sempre hai sentito raccontare, che ti fa vedere con gli occhi quello che hai sempre immaginato, mi stava prendendo.
Quella notte non dormii e non fu certo nell'attesa dei poveri balocchi che, l'indomani, Babbo Natale mi avrebbe fatto trovare.

 

7.
Tornarono agli inizi della primavera.
Il primo sole tiepido cominciava a sciogliere la neve che rimaneva ormai confinata solo sui monti.
Io non ero certo impaziente di vederli, ma la mia stizza si era smorzata; dopo la predica di Natale un po' di curiosità aveva preso anche me.

Tornarono tutti alla locanda di Sandra e, da quel momento, presi ad osservarli con interesse.
Mi affascinava l'idea di vedere con i miei occhi una storia che avevo sempre sentito narrare e quegli uomini stavano facendo proprio questo.
Li vidi costruire, in fondo al nostro piano, la casa dove San Francesco aveva abitato nel primi anni del suo apostolato. Li vidi progettare le mura che avrebbero cinto il nostro Paese. Li ascoltai, un poco discosto, parlare del loro lavoro, dell'opera che dovevano realizzare, delle immagini, del timbro della luce nelle varie ore del giorno, della loro macchina da presa, degli obiettivi con cui fermavano la luce e le immagini, di quelle strane macchine con cui catturavano le voci.

Ero sempre più preso dalla voglia di avvicinarmi, di chiedere, di farmi spiegare.
L'avventura della scuola, che avevo intrapreso più tardi di quanto fecero poi i miei figli ed i miei nipoti, allargando un poco il mio orizzonte limitato dai monti di casa, mi aveva reso un ragazzo curioso del mondo.
D'altra parte, però, la timidezza della gente di montagna e la mia naturale testardaggine mi impedivano di tornare sui miei passi per cominciare a fare quello che avevo sempre criticato negli altri.

Acquisivo, in quel periodo, sempre più notizie indirette dal maestro, dalla Sandra, da Don Antonio, da mio padre...
Anche il contenuto delle mie conversazioni con Poldo era cambiato, oramai non parlavamo, si fa per dire, che del film: di come io avrei costruito la casa di San Francesco e le mura del Paese, di ciò che avrei fatto dire e fare al Santo Poverello, delle splendide potenzialità del cinema.

Non fui io a fare il primo passo.

Una mattina Lallini venne su a scuola, ci salutò tutti con un “Salve, ragazzi” e si rivolse al maestro: “Allora chi è quel ragazzo di cui mi hai parlato?”.
Il maestro si volse verso la classe come quando ci voleva interrogare e l'atmosfera sospesa, tra di noi, era proprio la stessa.
Non riuscimmo neanche a formularci una domanda su cosa stesse accadendo che il maestro, tra lo stupore generale, disse “E' lui!” ed indicò... me!

“Allora, ragazzo - disse Lallini avvicinandosi - andiamo fuori a fare due passi che ti devo parlare perché ho bisogno di te”.

Non potevo crederci!
Mentre uscivo dai banchi mi volsi al maestro con uno sguardo tra il titubante e l'implorante che voleva dire “posso andare?”. Il maestro mi guardò rassicurante e parlò: “Vai, vai che poi la lezione te la ripeterò più tardi”.

Volai fuori alla classe seguendo Lallini.

 

8.
La giornata, lo ricordo con chiarezza, era ancora molto fredda ma il sole inondava tutto il piano; Lallini camminava avanti con le mani in tasca, io trotterellavo dietro; giungemmo alla piazzetta davanti alla chiesa. Lallini si fermò guardando la valle e mi disse: “Saresti disposto ad accompagnarmi per mostrarmi i posti qua intorno? Il maestro mi ha detto che nessuno come te conosce i monti e il piano”. Non ricordo con quali timide parole risposi di sì, ma in cuor mio ero al settimo cielo. Mi offrii di cominciare da subito. Lallini mi disse che doveva andare a prendere una mappa poi saremmo partiti.

Partimmo dopo meno di un'ora.

Mia mamma mi aveva dato un po' di pane e del formaggio di pecora; avevo indossato i miei scarponi e portavo, lo ricordo come fosse ora, una pesante giacca di lana cotta blu, dei pantaloni dello stesso colore ed un berretto di lana rossa che mi aveva fatto per Natale la nonna. I guanti dello stesso colore pure fatti dalla nonna, non li trovai, ma non potevo perdere tempo a cercarli.

Decisi di portarlo alla Torraccia.
Amavo molto quel posto. Da lì si poteva vedere una buona parte del Piano, il nostro grande Monte ed il Paese; da lì, inoltre, si vedeva la porzione di valle dove avevano costruito la casa di San Francesco.

Correvo su per le pendici del colle; Lallini, invece, affannava un poco e ogni tanto mi richiamava: “Rallenta ragazzo, mi vuoi fare morire?”.
Splendida sensazione in quel momento, mi sembrava quasi di vendicarmi delle angherie subite ma, nel contempo, sentivo che potevo fare qualcosa, che stavo diventando un protagonista.

Quando giungemmo in vetta il piano era ancora tutto illuminato.
Chiamai, ad una ad una, le vette dei monti mostrandole a Lallini che, come un bravo alunno, prendeva appunti facendo circoletti rossi sulla mappa; mi faceva anche domande sulla topografia, sulle altitudini, sull'orientamento ed io rispondevo: mi sentivo su una cattedra.
Esaurite le sue curiosità mi propose di scendere suggerendo, per l'indomani, una perlustrazione dell'altra parte della valle verso Forche Canapine.
In quel momento capii che avevo qualcosa di più da dire, che non ero solo capace di snocciolare la geografia della mia terra.

In quel momento, avevo dodici anni, capii quanto la comprendevo e l'amavo la mia terra - quella consapevolezza non mi abbandonò mai più - e come le parole non fossero sufficienti a descriverla; capii che, per comprenderla, occorreva vederla e viverla ed afferrarla con tutti i sensi.
Compresi anche che occorreva avere uno sguardo diverso, uno sguardo in più e che era quello sguardo che interessava, che doveva interessare, Lallini.

Scommisi che Lallini sarebbe stato in grado di intendere ciò che volevo fargli capire e decisi che avrei tentato in quel momento di offrirgli quello sguardo in più.
Ora queste cose le racconto pacatamente come può fare un uomo della mia esperienza; ma quegli attimi, allora, furono per me tanto impetuosi da non consentirmi di agire se non con il cuore che mi diceva: “Fai! Fai ora! Fagli capire ciò che senti perché domani nessun altro, neanche tu, potrai farlo”.

Come fare a farmi capire?

Lallini già scendeva giù per il fianco del colle calpestando l'erbetta bruciata dalla neve appena sciolta.
Guardai in cielo, vidi il sole che stava per andare dietro il Ventosola oscurando il Paese, mentre noi eravamo ancora in piena luce.
“Signor Maestro - gridai con tutte le mie forze - torni su, la prego, per un attimo solo”.
Lallini mi guardò meravigliato della mia determinazione e, sbuffando, risalì i tre passi che aveva già sceso.
Fu un miracolo di sincronia che io stesso non avevo previsto, quando si girò vide lo spettacolo che non volevo perdesse: lo spettacolo che avevo ammirato tante volte.

Vide e, grazie al cielo, capì!

Vide l'erba nei prati, ormai all'ombra sul fondo della valle, che ondeggiava colpita dal vento freddo del tramonto, vide il profilo curvo delle vette ancora scintillanti di neve, vide un falco volare veloce verso il suo nido, vide il Paese, illuminato dall'ultimo sole, che splendeva sulle nostre teste.

Gli dissi sottovoce: “Non è come un sinfonia? Ascolti l'ultima nota, Maestro! Sembra il tintinnio di un campanello!”

Guardavo il mio Paese, e Lallini con me, quando - come sempre in quella stagione - l'ultimo raggio rosso di sole colpì il vetro della finestrella della Marianna, quasi in cima al Paese. Per un attimo, divenne rosso fuoco; poi calò il crepuscolo.
Lallini si volse lentamente, capii subito che aveva capito. “Ragazzo - mi disse - non lo dimenticherò mai, tu sei un poeta!” e mi abbracciò.

Scendemmo al piano senza più dire una parola.

 

9.
Tornando a casa pensavo di avercela fatta, ero riuscito a dire la mia, avevo insegnato al Maestro, io, ragazzo di montagna.
Ora che avevo rotto il ghiaccio dovevo esprimere tutte le cose belle che sentivo di avere dentro di me.

Ogni ragazzo, all' età che avevo allora, ritiene di avere un mondo fatto di sogni, di avventura, di poesia che gli altri, i grandi, non riusciranno mai a capire.
Ci si sente sempre un po' incompresi, un po' soli, ma anche un po' orgogliosi dello splendido isolamento che quel mondo interiore, profondo, segreto, sa darti.
Io mi sentivo di aver aperto, su quel mondo, una finestra attraverso cui molti, moltissimi, tutti quelli che avrebbero visto il film di Lallini, avrebbero potuto guardare.
Quella notte, nel mio lettuccio, non riuscivo a dormire pensando a tutte le altre cose che avrei dovuto mostrare al Maestro.

Quando ormai tutti in casa erano addormentati mi venne l'idea che dovevo riferire subito a Lallini, mi vestii e, in silenzio, sgattaiolai fuori casa e corsi alla locanda.

Le luci, lì, erano ancora tutte accese.
Entrai nella sala e trovai Lallini seduto ad un tavolo che leggeva.
Ad un altro tavolo erano i vecchi del paese, con i loro cappelli in testa, che giocavano a carte.
Gli altri della troupe erano sparsi qua e là: giocavano, parlavano, facevano confusione.
Non ero mai uscito a quell'ora di casa e la prima cosa che mi meravigliò fu di trovare tutta quella gente ancora in piedi come fosse pieno giorno.

Lo zio Giovanni mi venne incontro pensando che fosse successo qualcosa a casa mia, lo tranquillizzai dicendo che tutti dormivano, allora mi guardò severo: “E tu che fai qui?”. “Devo parlare con il Maestro” risposi e senza far caso alla meraviglia dello zio proseguii fino al tavolo di Lallini.

“Signor Maestro - dissi - ho pensato che domani mattina vorrei accompagnarla a vedere uno spettacolo che ho visto talvolta, quando non andavo ancora a scuola, la mattina accompagnando mio padre a pascolare le bestie verso le Forche Canapine. Vuole venire con me domani?”
Lallini mi guardò da sopra i suoi occhiali e mi disse di sì senza chiedere altro. 
Poi chiamò il suo aiuto-regista, un ragazzo alto e magro con un paio di occhialetti metallici tondi, e me lo presentò dicendo: “E' lui il ragazzo che oggi pomeriggio mi ha fatto ascoltare la sinfonia dei monti. Ho ancora negli occhi quei colori!”
Io, a questo punto, salutai timidamente per tornare a casa, ma Lallini mi fermò prendendomi per un braccio. “Fermati ancora un po' con noi, ragazzo - mi disse - ci fai piacere, tu sei dei nostri”.

Trascorsi la serata ad ascoltare i discorsi del Maestro e del suo giovane aiutante ancora incredulo di quello che mi stava capitando.
Quando tornai a casa non mi restavano che poche ore da dormire, ma non riuscii ugualmente a chiudere occhio; era come se un fuoco ardesse dentro di me: avevo ascoltato quegli uomini discorrere della storia che stava diventando il film ed in quei momenti, nel quieto tepore del mio lettino, avevo mille idee che mi rammaricavo di non aver saputo esprimere alla locanda.

Il sonno mi vinse che era quasi l'alba, ma, non appena sentii i passi della mamma che, come tutte le mattine, si alzava prima dell'alba per preparare le cose che il babbo avrebbe portato con sé al pascolo, mi gettai dal letto, la salutai con un bacio e le comunicai che sarei andato con Lallini alle Forche Canapine.
“Ma è ancora buio!” disse la mamma.
“E' proprio ora che devo andare” le gridai salutandola.

 

Terza Parte

10.
Giunsi di corsa alla locanda e, sulla piazza, trovai il Maestro accanto alla famosa motocicletta.
“Andiamo ragazzo - mi disse mentre faceva rombare il motore - siediti qui” e mi diede un casco e degli occhiali.
Mi accomodai sullo strano carretto accanto alla moto che loro chiamavano sidecar e partimmo.

Era ancora buio, si cominciava a vedere il primo barlume dell'alba, le stelle del mattino brillavano tenaci nel cielo, era una bella giornata e faceva ancora un gran freddo.
La moto scendeva le pendici del nostro colle e percorreva sicura l'interminabile rettifilo che taglie il piano. Annusavo l'umidità.
Si sarebbe mostrato lo spettacolo che volevo far vedere al mio compagno?
Quel miracolo, lo sapevo bene, non ha luogo tutti i giorni, ma sentivo che, ancora una volta, mi sarebbe andata bene, non poteva che essere così!

Arrivammo al Passo che non era ancora sorto il sole, ma l'aria era molto più chiara.
Lallini non parlava, attendeva che lo facessi io.
Gettai uno sguardo sul Piano, scrutai l'inghiottitoio di Pian dei Margani, vidi, o mi sembrò di vedere, i segni di quello che attendevo sarebbe accaduto; trassi un respiro profondo e guardai il fumetto che usciva dalla mia bocca, toccai l'erba del Passo, ora ero sicuro: non restava che attendere.

“Maestro, occorre aspettare che il sole salga nel cielo, poi vedrà”.
Restammo in silenzio fino a quando il sole non fu abbastanza alto sulla vetta del monte.
Non ebbi bisogno di parlare, lo spettacolo si impose da solo: dalle ombre della notte, che ancora indugiava nel piano, emergeva una compatta coltre di nebbia ed in fondo al piano, quasi un'isola sul mare bianco, il mio paese svettava nel chiaro del cielo.

“Quando vengo quassù con mio padre questo Oceano mi incanta, è così che deve essere il mare, penso, e mi immagino che quell'isola laggiù sia la dimora degli Dei”.

“D'estate lo spettacolo è più bello - aggiunsi - perché il sole appena sorge è più forte ed il contrasto tra il Piano bianco come la neve, le pendici dei colli verdi, il Monte grigio sul fondo e l'isola con il suo tetto di cielo blu, è molto più intenso; ma anche così a me piace molto, e a voi?”
“E' splendido, figliolo, ti piacerebbe scattare delle fotografie?”

Non me lo feci ripetere due volte, mentre lui montava la macchina e il cavalletto i miei occhi già stavano cercando le inquadrature.
Poi mi insegnò a misurare i tempi di esposizione, l'apertura dell'obiettivo e la messa a fuoco e a scattare; non avevo, allora, alcuna nozione di fotografia, ma una specie di talento naturale e la profonda conoscenza di quei luoghi fecero sì che scattai una trentina di belle foto.

Lallini, di tanto in tanto, interveniva per sostituire l'obiettivo: “Vedi, ora prova con questo” - “Ma è meraviglioso, questo affare mi fa vedere più panorama di quello che posso fissare con gli occhi, così riesco a prendere il Ventosola bagnato dal primo sole e il Vettore in una sola fotografia!”

Ero entusiasta come non lo ero mai stato e anche Lallini mi sembrava lo fosse, non faceva che cambiare obiettivo ed alla fine mi mostrò il filtro. Fu l'ultima scoperta di quella mattina indimenticabile. Con quei vetri colorati potevo tingere di luce diversa il paesaggio che tanto amavo: non avrei più smesso di scattare.
Ormai ero io che chiedevo l'obiettivo adatto, alzavo ed abbassavo il cavalletto, allungavo le esposizioni per aumentare i contrasti e, con i filtri appropriati, davo a ciascuna cosa il colore che aveva per me.

La nebbia presto si diradò come avviene tutte le mattine, ma io continuavo a scattare, scattare, scattare.
Il belato di un gregge alle mie spalle e l'usuale abbaiare di un cane, mi riportò alla realtà.
Guardai il Maestro un po' impaurito.
Mi rispose: “Grazie, ora torniamo a sviluppare le foto”.

La motocicletta giunse alla rampa che sale al Paese quando ormai i miei compagni erano usciti dalla scuola e giocavano a pallone sull'asfalto.
Mi videro scendere dal sidecar, ma io non provai nessun tipo di orgoglio, l'unica cosa che mi interessava era vedere le mie fotografie.

 

11.
Nel buio della camera oscura, con l'aiuto di Giuseppe, un ragazzo romano non molto più grande di me, vidi emergere le immagini che avevo fissato sulla pellicola e scoprii che quelle immagini possono essere valorizzate ingrandendone alcuni particolari ed usando una carta appropriata.

Conservo ancora una di quelle foto appesa nella mia casa; il Paese svetta sul mare di nebbia color latte mentre la corona dei Monti che cinge il Piano è estremamente sgranata come a sottolineare la natura fantastica e soprannaturale in contrasto con l'isola, la dimora degli Dei: il mio Paese.

Fu nella camera oscura, mentre guardavo quelle foto, che mi venne l'idea di mostrare le cose da un'altra inquadratura: quella definitiva.
Ebbi chiaro quello che volevo mostrare al Maestro, ma sinceramente mi sembrava di dovergli chiedere troppo. “Questa volta - pensavo - mi manderà al diavolo!”

Seguendo i miei pensieri chiesi a Giuseppe se Lallini praticava qualche sport. Mi rispose, un po' meravigliato, che non gli risultava e che, comunque, non avrebbe avuto tempo.

“Accidenti! - pensai - Come faccio a chiedergli di salire con me sul Vettore? Quando l'ho portato alla Torraccia aveva un fiatone e sembrava dover schiantare da un momento all'altro!”
Ma avremmo avuto tante altre cose da fare, pazienza!

Nei giorni che seguirono, con una jeep, andammo a vedere i luoghi più interessanti del Piano, scattammo tante fotografie e portammo con noi anche le cineprese.
Intanto gli attori provavano incessantemente accompagnati da uno stuolo di parrucchieri, truccatori, costumisti e guidati in maniera inflessibile dal Maestro Lallini.
Io gli trotterellavo intorno e guardavo ammirato il lavoro di quegli uomini.
Continuavo però a pensare alla salita del Vettore.

Salii il Monte da solo più di una volta durante la primavera ed ogni volta che guardavo giù mi ripetevo: “se il Maestro non vede quello che vedo io da quassù non riuscirà a dire nulla di questo posto incantato! Sarà stato inutile tutto il mio lavoro, sarà come mostrare un quadro meraviglioso prendendolo da una prospettiva sbagliata, sarà come usare un teleobiettivo per riprendere un paesaggio! Se userai quell'obiettivo coglierai perfettamente solo un particolare ma non tutto quello che c'è intorno!”
Tornavo pensieroso a valle in tempo per andare dal mio insegnante che, nel pomeriggio, mi dava ripetizioni per farmi recuperare tutte le mattinate di scuola perse.

Intanto la primavera procedeva aprendo sempre più il suo scrigno di profumi, colori, luci, brezze che, nelle ore centrali della giornata, cominciavano a farsi tiepide.
Mano a mano che lo scrigno si apriva ciascuno, come ogni anno, usciva di più dalla propria casa, i ragazzi giocavano nelle strade e, nel Piano, gli uomini curavano le greggi e preparavano i campi delle lenticchie. Nel cuore di tutti si faceva più luce.

Presto l'ultima neve si sarebbe sciolta sulla cima del grande Monte e l'inverno sarebbe definitivamente finito.
Presto sarebbe iniziata l'estate e, con l'estate, sarebbero arrivati i fiori.
Quando accompagnai Lallini al prato che fioriva per primo, quello con la migliore esposizione sotto ai Colli Alti e Bassi, rimase letteralmente esterrefatto.

Mi disse: “Ragazzo, non ho mai visto nella mia vita una fioritura così ricca e così... spontanea!”.
Gli mostrai ranuncoli, genzianelle, denti di leone, margherite bianche e gialle di ogni dimensione e le erbe profumate, le spighe, i non ti scordar di me, i grandi fiori spinosi dei cardi. 
“Tra non molto - gli dissi- ci saranno anche i fiori gialli delle lenticchie e, dopo pochi giorni, anche i rossi papaveri. A quel punto il Piano sarà completamente vestito a festa!”.
Aggiunsi che, secondo me, questi prati sarebbero piaciuti molto al Santo Poverello e che Don Antonio ci aveva raccontato che San Francesco raccomandava ai suoi fratelli di lasciare incolta una parte dell'orto per consentire ai fiori dei campi di sbocciarvi.

Lallini era entusiasta.

Lo sentii parlare con i suoi più stretti collaboratori, diceva che quella fioritura così impetuosa, così semplice, così povera ma tanto bella e profumata era tremendamente simile al francescanesimo, il movimento che era nato da un uomo che all'inizio alcuni credevano eretico o pazzo perché proponeva un ideale di Chiesa povera e vicina alla gente, che si era imposto con la sua semplicità e la sua bellezza anche nella corrotta Roma dei papi e che aveva dilagato nel cuore della gente così rapidamente per il fascino esercitato da quella coppia di amanti ardenti, Francesco e Madonna Povertà, secondo le parole di Dante.

Lallini era un fiume in piena: di giorno girava senza tregua, al tramonto si chiudeva in interminabili riunioni con i suoi uomini.
Con gli attori era diventato terribile, li faceva riprovare la stessa scena mille volte finché non raggiungeva la perfezione.
Si intrometteva nel lavoro di tutti, era capace di perdere mezzora con un truccatore per spiegargli quello che voleva; una volta lo vidi fuori di sé perché l'abito del padre di San Francesco non era abbastanza ricco e, per aspettare i ritocchi, fermò due giorni le riprese.

Era intrattabile, ma, quando si fermava un attimo, ricordo che diceva: “Dov'è il mio giovane amico poeta?”. Io avanzavo timidamente perché qualche strillata l'aveva fatta anche a me, ma quando mi chiamava era di buon umore e voleva sentire il mio parere su un'inquadratura o una luce. “Che ne dici, ragazzo? Come ti sembra? Pensi che debba far schermare un poco quello spot? Guarda questa scena, a che ora è stata girata secondo te?”.
Molte volte l'ho visto buttare a mare il lavoro di più di qualche giorno perché io avevo fatto delle osservazioni.
Era, però, molto esigente, e non ammetteva di perdere tempo; per questo, se capiva che non avevo niente di importante da dirgli, mi congedava bruscamente e si rimetteva al lavoro.

 

12.
Al ritmo che imponeva Lallini il lavoro procedeva rapidamente.
Il Maestro mi aveva detto che aveva intenzione di terminare le riprese prima di Ferragosto.
Io mi chiedevo come avrei fatto a mostrargli ciò che volevo, e man mano che progredivano le riprese la mia ossessione aumentava. Come dovevo fare? - mi chiedevo.

Ero seduto davanti alla locanda e guardavo la cima del Monte ormai sgombra di neve in un pomeriggio di luglio.
Ero immerso nel solito pensiero quando giunse Lallini e si mise seduto accanto a me.
Era tutto infangato perché il giorno prima aveva piovuto ed i campi erano ancora bagnati. Era soddisfatto, mi disse, perché aveva finito di girare la scena di Francesco e Chiara nei campi e voleva mostrarmela. “Stasera finiranno di montarla - mi confidò - vieni alla locanda che ce la rivediamo tutti insieme”. Poi aggiunse: “sei pensieroso ragazzo, c'è qualcosa che non va?”.

Pensai che la sua euforia gli avrebbe impedito di capire, che era troppo soddisfatto di quello che aveva realizzato per concepire quello che avrei voluto dirgli, che era troppo tardi per offrirgli quello sguardo in più.
Pensai alle mura di cartapesta che ancora cingevano il paese, alla capanna costruita nel piano con tanta meticolosa cura di ogni particolare, agli abiti sontuosi e ai poveri sai. Pensai al copione scritto, riscritto e corretto infinite volte. Alle ore di prove che aveva fatto fare agli attori, ai chilometri di piano che aveva percorso con me.
Pensai alle foto scattate, a tutte le scene provate e filmate, alle musiche scelte con cura, alle nottate trascorse a montare.
Pensai a tutte le albe e a tutti i tramonti che avevamo atteso e assaporato, alle ore lasciate correre aspettando che giungesse la luce giusta per quella scena.
Tutto inutile! Ma non si poteva chiedere di più.

“Ragazzo, mi vuoi dire qualcosa? Perché non parli?”.
Lallini mi guardava intensamente ed io non trovavo il coraggio di dire che tutto quello che avevamo fatto fino a quel momento era inutile perché gli mancava uno sguardo: quello definitivo.
Quasi inconsapevolmente guardai la cima del Monte.
Lallini scorse quello sguardo e subito comprese: “Quando si sale, ragazzo?”.
La sensibilità del Maestro ancora una volta aveva superato la mia immaginazione!
Mi uscì quasi un urlo dal cuore “Stanotte, Maestro, alle quattro, andiamo a vedere l'alba dal Monte!”
“Tu credi che sia indispensabile, vero?”
“Si...” - risposi laconicamente.
“Allora perché non me lo volevi dire?”
“Pensavo che lei fosse soddisfatto del suo lavoro.”
“Lo ero ma non lo sono più se posso fare meglio; tu credi che ci sia qualcosa di importante da vedere lassù?”
“Lo vedrà, Maestro.”
“Allora ci vediamo stanotte alle quattro.”
“Stasera vengo alla locanda a vedere la scena montata?”
“Lasciamo perdere la scena, prima dobbiamo salire sul Monte” - rispose il Maestro.
Poi si alzò e rientrò velocemente nella locanda, si chiuse nella sua stanza e non scese neanche per cena.

Più tardi l'aiuto regista venne su a casa mia per chiedermi di cosa avevamo parlato e perché Lallini si era chiuso in camera.
Risposi che avevamo deciso di salire sul Vettore.
Mi sembrò un po' contrariato, mi disse che non capiva come il Maestro si fosse convinto ad interrompere, proprio in quel momento, le riprese per un giorno intero.
Io, francamente, non sapevo cosa rispondere

 

13.
Coinvolsi Poldo nell'impresa, lo feci perché era sempre venuto con me quando ero salito sul Vettore e perché ci avrebbe portato su l'attrezzatura necessaria, almeno fino alla capanna del rifugio.

La notte era ancora fredda e le stelle brillavano intensamente. Il Monte era completamente buio e invisibile.
Chiesi al Maestro come si sentiva, mi disse che aveva sonno perché non aveva dormito quasi per niente.
Mostrai al Maestro una stella e gli spiegai che brillava proprio sopra la cima del Vettore - “E' lì che dobbiamo arrivare!”.

Prendemmo la jeep sulla quale avevamo fatto salire Poldo e caricato le attrezzature; in breve giungemmo a Forca di Presta.
“Ragazzo sai che ti dico” - cominciò Lallini appena all'attacco del sentiero che saliva le ripide pendici del Monte - “sono proprio felice di aver preso questa decisione! Da quando sono salito per la prima volta al Piano non faccio altro che guardare il Monte. Sento che mi chiama ogni volta che lo guardo.
Non potevo lasciare il Piano senza averlo salito almeno una volta”.

Poi tacque forse perché già gli mancava il fiato.
Io lo precedevo con Poldo ed ero felice.

Sì, Maestro, quello era il modo migliore di affrontare il Monte: sentirne il richiamo. L'avevo sentito incessantemente durante la mia infanzia e ne conoscevo bene la voce ferma e inesorabile - “sali, ragazzo, sali, figlio mio, quassù c'è l'avventura, la beatitudine, la vita, sali non te ne pentirai”.
Ricordo ancora oggi, quanti anni sono passati, la prima volta che salimmo con mio padre e la prima volta che ci arrivai da solo, ricordo tutte le altre salite, da tutti i versanti, che feci nella mia vita quando, più tardi, presi ad arrampicarmi sulla roccia, ma non dimenticherò mai quella salita notturna, sulla via normale, con il Maestro Lallini.

La prima parte della salita è tutta sul prato che, in quella stagione, era ancora basso e spinosetto, ma è anche la più ripida. Lallini si fermava spesso e cominciavo a valutare la possibilità di farlo salire in groppa a Poldo e mi meravigliai quando, avendoglielo proposto, mi disse di no: voleva salire da solo fino alla vetta.
Sì! - pensai - così va bene Maestro, poi gli dissi: “Non manca molto, tra poco si vedrà un po' di luce e potremo spegnere la torcia”.

Giungemmo sulla pietraia e poi, dopo un ultimo strappo in salita, al Rifugio.
Legai Poldo alla maniglia, accesi un piccolo fuoco; il Maestro si era messo a sedere appoggiato alla parete del rifugio riparato dalla piccola tettoia. Scaldai l'acqua e feci un tè che bevemmo insieme in silenzio.

“Si è mai chiesto, signor Maestro, perché il Monte la chiama?”
“Me lo chiedo da quando sono quassù, non ho trovato una vera risposta”.
“Per me che sono sempre vissuto su questo Piano, la risposta sembra facile: è il desiderio di vedere cosa c'è oltre il Monte che chiude il nostro orizzonte. Ma per lei che ha girato il mondo non può essere così. Lei la conosce la vallata che è di là, vero?”
“Certo che la conosco, è percorsa dalla via Salaria, una strada costruita dai Romani tanti secoli or sono che arriva fino al mare, l'ho percorsa tante volte, ho visto anche questo vostro Monte dall'altro versante, ma, da quando sono qui, è tutto diverso”.
“Vede, Maestro, io conosco questo posto pietra su pietra e ne amo ogni pietra ed ogni filo d'erba, ogni fiore, ogni profumo, ogni abitante. Non trova che i miei compaesani siano gente meravigliosa? Certo diversa da quella che ha conosciuto nel vasto mondo! Credo di amarli perché assomigliano a questi monti così duri ma così sinceri, così forti, tenaci ma generosi e... belli. Io penso che noi siamo un po' come loro perché siamo nati e vissuti su un Piano recluso dal mondo come fossimo una razza a parte; non voglio dire migliore delle altre, ma diversa, straordinariamente armonica con questa natura che ci circonda.
Io so che la mia vita quassù non mi riserverà né avventure, né sorprese, ma non abbandonerò per nulla al mondo il mio Piano”.
“Questo non devi dirlo, ragazzo, tu devi studiare, devi mettere a frutto i doni che la natura ti ha dato; mi ha sempre meravigliato la tua maturità, la tua saggezza, la tua conoscenza di quanto agli altri sfugge e la poesia che sai trarre dalle cose.
Diventerai qualcuno laggiù nel mondo, te lo dico io che, il mondo, lo conosco”.

Quel che risposi al Maestro, quando ormai si stava facendo l'alba, fu la sentenza della mia vita.
“Questa roccia brava che mi ha visto nascere, mi è stata sufficiente per diventare uomo e per acquistare le qualità che ho, non c'è nulla laggiù che potrebbe darmi di più. Non lascerò mai questi Monti, ho già deciso”.
E parlando guardavo il Vettore come se, davanti ad un testimone autorevole come Lallini, prestassi un giuramento.

Quel giuramento, ormai posso dirlo, non lo ruppi mai neppure quando tutto sembrava tirarmi giù nella valle.
Quel giuramento l'ho rammentato infinite volte nella mia vita ed ancora oggi quando, sul far della sera, vado a trovare mia moglie nel cimitero sotto il Gaidone, mi consola il fatto che, tra non molto, sarò lì, accanto a lei ed insieme, mano nella mano, guarderemo il Vettore imbiancare ogni inverno e inverdire ogni estate.
Ricordo ancora oggi quei momenti, ma non fu per quel giuramento, come in seguito ebbi a definirlo, che non lasciai mai questo posto; al contrario fu perché fin da allora amavo così tanto il mio paese che pronunciai quelle parole e, per questa stessa ragione, vi ho tenuto fede fino ad oggi.

Ero così rapito dall'aria fine del primo albeggiare e dalla solennità del momento che stavo vivendo, che le parole di Lallini mi percossero l'orecchio riportandomi bruscamente alla realtà.
“Sei un terribile testardo, ragazzo, sei più cocciuto del tuo amico Poldo, non perderò il mio tempo nel tentativo di convincerti che la vita non è fatta per essere vissuta in questo isolamento, che laggiù ci sono mille cose che vale la pena vedere e comprendere e provare, che ci sono i viaggi, le avventure, il denaro, il successo, le donne... la vita; è inutile, lo so, la tua testa è più dura di questa roccia che calpestiamo!” - e dicendo queste ultime parole mi guardava, Lallini, e sorrideva con complicità perché sapeva che io le avrei considerate un complimento ed un suggello alla mia promessa.

 

14.
L'alba della montagna cominciava a rendere chiaro l'orizzonte dove sarebbe sorto il sole dando una tonalità quasi giallastra alle lontane creste dei Monti della Laga.

Scattammo qualche foto.

Poi raccolsi l'attrezzatura indispensabile e chiamai Lallini: “Andiamo, Maestro, se non partiamo subito non saremo in vetta per l'alba”.
Lallini si alzò sbuffando, ma mi rendevo conto che si trattava solo di un atteggiamento che gli piaceva assumere, perché in realtà era attratto da quell'ultimo tratto di salita, lo vedevo da come affrontava il sentiero, lo sentivo dalla determinazione dei suoi passi, dalla sfumatura della sua voce quando mi chiese: “Quanto manca alla vetta?” - “Meno di un'ora di strada” risposi; poi non parlammo più.

Non parlammo lungo la faticosa salita e non parlammo neanche nell'ultimo tratto di strada che corre lungo la cresta sommitale quando ormai senti nella tua mente e nelle tue gambe, oltre che nel tuo cuore, che la vetta è conquistata e ti prende quel sentimento misto di soddisfazione e di confidenza che ti fa dire - ormai sono arrivato, ce l'ho fatta! - allora senti che le tue gambe, che la fatica aveva reso pesanti, quasi per miracolo si alleggeriscono tanto che ti sembra di volare.

Solo arrivati sotto la croce che segna la vetta parlai: “Le è sembrato troppo faticoso?” -  “No” mi rispose euforico Lallini ed io capii che aveva provato anche lui l'ebbrezza di quell'ultimo tratto di salita e della conquista della vetta, la prima della sua vita.

Sulla cima il freddo era più intenso, nulla ci proteggeva più dal vento del mattino.
Ai piedi della croce ci voltammo insieme a guardare verso i Monti della Laga: il sole stava sorgendo ed illuminava di luce radente le creste dei monti rendendone evidenti i piani diversi e le lontananze. Giù, nella valle, una profonda foschia lasciava solo immaginare i campi e le poche case. Gli uomini e le loro vite, in fondo al piano, sembravano un particolare trascurabile ed anche il film che ci aveva portato a quell'impresa pareva perdere di interesse.
Tutto, in quell'alba d'estate sul Vettore, sfumava, anche il rifugio a poche centinaia di metri da noi e la scura pozza del Lago della Sibilla, misteriosa come sempre, sotto di noi.

Non parlava, il Maestro, ed anche io tacevo in attesa che qualcosa emergesse da quel momento magico, immerso nel più assoluto silenzio.
Lallini si guardava intorno, scrutava i monti lontani, il cielo che ormai era di un azzurro intenso, annusava l'aria respirandone a pieni polmoni, a tratti mi lanciava uno sguardo obliquo come per controllare i miei movimenti, poi tornava a guardarsi intorno tenendo lo sguardo alto sull'orizzonte.

“Come si sta bene quassù!” mormorò, ma non voleva una risposta ed io tacqui.
Il sole saliva rapidamente e la visibilità aumentava ogni minuto di più; in fondo alla valle si cominciavano a intravedere particolari che rammentavano la presenza dell'uomo: una casa, un fienile, un gregge sulle verdi pendici dei monti.
Lallini si spingeva a guardare la valle e mi faceva domande; quando si fu completamente orientato, cominciò a nominare i monti che gli avevo fatto conoscere e le valli chiedendomene sempre conferma.

“Ormai, Maestro, è diventato uno di noi” dissi ridendo e mi chinai a cercare sotto le pietre, ai piedi della croce, una cosa che vi avevo lasciato qualche tempo prima, durante una delle mie ascensioni solitarie, quando cercavo il modo di portare Lallini su con me.
Trovai il bastone e lo porsi a Lallini mentre mi rispondeva.
“Ora sì, sono uno di voi, perché anche io ho visto il mondo con lo sguardo di Dio! Ora capisco perché gli uomini hanno sempre salito i monti! Quassù si perde la vista dell' essere umano: gli uomini sono così lontani e così piccoli là in fondo che quasi te ne dimentichi, non ci sono qui a distrarti i mille rumori, le luci delle città, le voci che ti chiamano, le necessità di ogni giorno che ti costringono a fare anche quello che non vorresti, le lusinghe del successo, gli applausi e i fischi del mio lavoro; quassù non c'è nulla e allora, sotto questo cielo, puoi intuire lo sguardo di Dio. Grazie di avermelo mostrato, amico mio!”.

Io gli porgevo il bastone e tremavo mentre un singhiozzo mi scuoteva le spalle.
Le nostre sensazioni coincidenti, là, sulla vetta del mio Monte, avevano raggiunto il culmine: Lallini aveva capito perfettamente ciò che volevo mostrargli. Su quel bastone di tenero legno, nelle ore di solitudine ai piedi della croce, avevo inciso una frase: “Ho veduto il mondo con lo sguardo di Dio”.
Lallini lesse le parole sul legno e mi abbracciò anche lui commosso.

Quel bastone fa parte dei miei più cari ricordi; me lo rimandò quando il Maestro morì, tanti anni or sono, la sua compagna, insieme ad una bellissima pagina scritta da lui su quella nostra ascensione e su quanto aveva significato per il suo capolavoro.

Sulla cima scattammo tante foto, ma Lallini aveva fretta, mi diceva che tanto era inutile, che nessuna pellicola avrebbe potuto mai trattenere e mostrare quell'incanto e ciò che aveva significato per noi, che l'esperienza che avevamo fatto era tutta ‘spirituale’ proprio come quella di San Francesco di fronte al crocefisso di San Damiano, che doveva mettersi al lavoro, smontare e rimontare tutte le scene, che ora sapeva bene che cosa doveva fare, che quanto era riuscito a fare era solo l'ombra di ciò che avrebbe dovuto essere.

 

15.
All'ora di pranzo era già al lavoro, prima della notte avevamo già riesaminato tutti gli spezzoni di film che aveva selezionato e li avevamo rivisti con lo sguardo di Dio.
C'era ancora molto da fare.

Nel mese successivo girammo ancora moltissime scene, Lallini ci metteva un puntiglio ancora maggiore di quello che già conoscevo ed era una vera e propria furia, faceva girare a mille tutti i suoi collaboratori e lavorava con un ardore che faceva bruciare anche gli altri.
Io ero sempre con lui, ci intendevamo con uno sguardo e tutto filava a perfezione. Non si dormiva che poche ore per notte anche perché la buona stagione ci dava una gamma di luci tutte da sfruttare; cogliemmo ogni singolo raggio di sole e tutte le ombre che scendono sul Piano.

La storia del Santo fu terminata alla fine dell' estate ed era una storia bellissima, piena di devozione, di amore, di umanità e soprattutto piena di quella natura che il Santo tanto amava e che fa sentire gli uomini così vicini a Dio.

La sera prima della partenza facemmo una grande festa alla locanda, partecipò tutto il paese, si mangiò, si fece musica e si ballò quasi tutta la notte.
Lallini era soddisfatto ed io mi sentivo al massimo, non riuscivo a pensare al domani, ero semplicemente felice di aver fatto quello che avevo fatto con il Maestro.

 

16.
Gli anni che seguirono mi avrebbero consentito di rileggere mille volte quella mia storia e di capirla fino in fondo.
In quel momento nulla aveva importanza se non la musica che suonava e tutti gli amici che mi circondavano e la convinzione di aver fatto una gran cosa che tutto il mondo avrebbe visto sugli schermi.

L'indomani partirono tutti all'alba come aveva deciso Lallini che mi salutò, con un abbraccio un po' frettoloso ed un grazie, al termine di quella indimenticabile serata.

Quando, la mattina dopo, mi affacciai alla locanda trovai solo i miei compagni che giocavano sul piazzale e, in un angolo, accanto al fontanile, la moto con il sidecar che aveva annunciato l'arrivo degli uomini che avrebbero rivoluzionato la vita del nostro tranquillo villaggio e la mia in particolare.
Era stata lasciata lì perché doveva essere riparata.
Rimase parcheggiata per molti mesi continuando a suscitare l'interesse dei miei compagni, non più il mio.

L'inverno successivo Lallini mi invitò alla prima del film in una sala di Roma; andai volentieri a vedere quella che il Maestro definì, parlando ad una conferenza stampa, la “nostra opera”, mia e di quel ragazzo seduto in prima fila al quale questo film deve moltissimo. Disse anche tante cose lusinghiere su di me Lallini, in quell'occasione, che fecero felici i miei genitori, ma ormai il momento magico era finito: lui era il Maestro, il vate del cinema italiano, io un ragazzo di montagna di poco più di dodici anni.

La consapevolezza di ciò non mi feriva perché non ero mai voluto essere più di ciò che veramente ero; sapevo bene, anche allora, che l'aquila della mia vita che aveva saputo salire sulla cima del Vettore per cogliere lo sguardo di Dio, aveva cominciato a planare dolcemente verso il mio amato Piano.

 


Gennaio 2002

Paola Arbia

 

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