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Rivista di Letteratura, Alpinismo e Arti Visive  

La valanga del Cimone
Ho sentito il bisogno di scrivere una storia vera

di Raffaele Galli

 

 

 

 

 

Non mi sono mai ritenuto un alpinista. Nemmeno uno scialpinista. Chi mi conosce sa che sono una persona cui piace esercitare queste attività, ma a fatica mi definisco alpinista. Per me l'alpinista è sempre un qualcun altro, uno “forte” che riesce nei suoi propositi.
Quel mattino mi svegliai molto presto, per andare da Fabrizio a Bologna. Feci male i conti e mi ritrovai a casa sua che si era appena svegliato. Dopo i saluti di rito abbiamo fatto colazione, mentre si stava facendo giorno.
Un freddo cane, tutto gelato in città, pensai mentre caricavamo la macchina con la solita attrezzatura. Gli sci, le pelli di foca. L'ARVA. Già, l'ARVA, e chi se lo sarebbe immaginato...
Altri chilometri in macchina e poi altra colazione, questa volta al bar, mentre Fabri mi racconta della Sicilia. Vorrei andarci anch'io in Sicilia, deve essere davvero bella, con l'Etna e il mare.
Arriviamo a destinazione, in un posto con un nome singolare, Doccia. Ci prepariamo e partiamo, vicino a noi altri escursionisti che chiedono informazioni a Fabri sul percorso, altri scialpinisti come noi che si accingono alla salita.

Una giornata perfetta, il sole ha preso il sopravvento sulle nubi del mattino, e la salita è piacevolmente faticosa, su una neve dura. Salendo incontriamo due scialpinisti che stanno scendendo. Ci fermiamo e scambiamo due parole, come si fa di solito tra escursionisti. Fabri chiede: «Com'è sopra?»  e il più anziano dei due con la barba bianca risponde: “C'è neve ventata, ma è tutto grasso che cola!»
Neve ventata. Penso.
Ci fermiamo dopo un po' a bere una tisana che ha preparato Fabri stamattina, siamo vicino ad una vecchia cabina elettrica. In questo punto il vento si fa sentire e io che mi ero appena tolto la giacca, la rimetto anche perché il vento sopra è più forte.

Il panorama è molto bello, più si sale e meglio si apprezza. Si vedono molte delle montagne circostanti, s'intravedono anche le Prealpi.
Fabri mi fa notare un grosso accumulo di neve ventata all'interno di un canale, il vento ha spostato la neve su quel lato del canale e intorno quasi non c'è neve. Si vedono i ciuffi d'erba secca che escono dal manto nevoso spesso un palmo o poco più, invece lì dentro, su quel lato c'è tanta neve ed in alto una cornice abbastanza grande.
E' strano ripercorrere col pensiero a questi dettagli, ripensare che poi saranno la chiave per capire quello che è successo. Un esercizio che non avevo mai fatto.

Sull'ultimo tratto di salita mi allontano da Fabri mentre cerco di tenere testa ad un ragazzo con le ciaspole ed un cane. Una silenziosa gara con me stesso. Arrivo sulla cima e guardo. Il panorama si apre anche dall'altro versante, quello in ombra dove si vedono le piste da sci e gli sciatori. Tutto è intonacato dalla neve, tutto ricoperto, glassato, bellissimo.
In cima siamo in molti, due scialpinisti che già erano lì, poi il ciaspolaro, io, altri tre scialpinisti con due cani, un alaskian malamut di 70 chili e un boxer, altri ciaspolari. Si mangia qualcosa, una mela, un pacchetto di cracker, si parla. I cani sono un po' fastidiosi e invadenti. Arrivano anche altri due scialpinisti. Un uomo e una donna, stanno là in fondo, lei viene vicino e si mette seduta e il cane le va subito a rompere le scatole. Mi giro e osservo lui che, senza giacca, sta togliendo le pelli agli sci. Noto anche che ha indosso l'ARVA uguale a quello di Fabri. Lei gli dice: «Non così! Appiccicale insieme, una sull'altra» - riferendosi al modo in cui stava riponendo le pelli di foca. Poi mi chiede con accento toscano: «Che ore sono?».
«Non so» rispondo, e rifaccio la stessa domanda a Fabri.
«L'una» replica con una smorfia di chi sa che ore sono ma non è proprio convinto.

Dopo qualche altro minuto passato al sole, ci decidiamo a scendere, senza un itinerario ben preciso. Fabri aveva proposto alcune discese, e sinceramente mi fido di lui, che conosce bene quella zona ed è disceso molte volte dal punto dove eravamo. Tutto quello che mi propone mi va bene, compatibilmente con la mia scarsa esperienza di scialpinista.
Davanti a noi la coppia. Scendiamo un centinaio di metri e Fabri si ferma. Lui è davanti, io lo raggiungo. Vediamo i due che stanno sciando all'inizio del canale, si scia molto bene lì, è molto bello.
Dico a Fabri: «facciamo il canale come loro».  E scendiamo anche se non mi sembra molto convinto. Fabri il canale non lo ha mai sceso, dice che è una buona rotta se viene la nebbia. Ne facciamo un po' finché non aumenta la pendenza, poi deviamo sulla sinistra, dove la neve è perforata dagli sterpi. Ho perso di vista i due. Dietro di me Fabri.
Sento le grida della ragazza, mi volto e vedo la valanga, laggiù sulla mia destra, nel canale. Vedo i blocchi di neve e il fumo, sento il fragore, il rombo.

Capisco, capiamo la tragedia. Fabri chiede alla ragazza che è rimasta fuori del canale, come noi: «è dentro?».
La sua risposta affermativa è ovvia. Prendo il telefonino e chiamo il 118. «C'è un sepolto sotto una valanga sul Monte Cimone versante sud ovest! Ha l'ARVA! C'è bisogno del soccorso alpino! Un elicottero... Presto! Noi iniziamo le manovre di autosoccorso» dico concitatamente.
La valanga si ferma. Scendo sciando fino al fronte della slavina. Pianto gli sci sulla neve e traverso un pendio a piedi per raggiungere Fabrizio che è già arrivato. Gli dico di mettere l'ARVA in ricezione, prendo la pala e la sonda dallo zaino. Di corsa su per la valanga. Non c'è tempo, ho un unico pensiero, quello di tirarlo fuori.
In breve sentiamo il segnale, lo aggancia prima Fabri che è davanti a me, poi anch'io. In un attimo siamo su di lui e scaviamo. Lei ci raggiunge. E' sconvolta, le grido di scavare, di fare in fretta.
Scopro un bastoncino, poi un braccio. Fremo.
Scavo in prossimità della testa. Ora con le mani. Gli libero la faccia dalla neve. Scaviamo velocemente intorno alla testa.
Gli insufflo il mio respiro nella sua bocca. Sento la mia aria che entra nel suo corpo. Spero con tutto il mio essere che ritorni. Continuo, mentre gli altri scavano per liberare il corpo dalla neve.
Mi faccio dare il cambio da lei che urla e si dispera. Dico a Fabri di sentirgli il polso. Poi il massaggio cardiaco. Sentiamo il rumore dell'elicottero, poi vediamo un ragazzo con le ciaspole in fondo alla valanga. Lo chiamiamo chiedendo aiuto. Lui corre e ci aiuta nelle manovre. In breve , al secondo giro, si cala con il verricello dall'elicottero, il primo dei soccorritori.
Il vento provocato dal rotore ci investe ed è peggio di una bufera. La neve ci entra dappertutto. Scendono con il verricello altri soccorritori del soccorso alpino. Uno di loro ci dice di andare via di lì per via del pericolo. Seguiamo il suo consiglio e scendiamo.
Mi fermo in un punto sicuro, mi appoggio ad una roccia. Mi viene da vomitare ma non ci riesco. Sono sfinito.
Guardo gli sci che stanno dall'altra parte del pendio ma non ho il coraggio di attraversare. Non me ne frega. Sono nuovi ma in questo momento non mi importa. Scambio due parole con Fabri, non mi ricordo su che cosa, forse sugli sci.
Veniamo richiamati da Mauro del soccorso che ci dice che scenderemo in elicottero. Sa che siamo in grado di scendere da soli, ma non può prendere la responsabilità di farci scendere.
Ci raduniamo. Piango.

Arriva lei che a stento riesce a camminare, sorretta da Roberto e da Mauro. Saliamo sull'elicottero. Mai stato sull'elicottero prima di quella volta. In breve atterriamo in un campo vicino alla strada e alle case.
Scendiamo dall'elicottero e ci dirigiamo sulla strada. Roberto accompagna la ragazza in una casa lì vicino, mi siedo su un muretto e piango, scarico tutta la tensione che ho accumulato e la paura che ho provato.
Poi arriva Fabri. Mi abbraccia.
Le sensazioni si accavallano ed è difficile spiegare quello che ho provato. Ci dirigiamo insieme nella casa dove sono ospitati Robi e la ragazza, il padrone di casa ci chiama e ci invita molto gentilmente ad entrare, ci chiede se vogliamo da bere.
Ho i piedi addormentati fino alle caviglie, insieme a tre dita della mano sinistra. Chiedo di fare una telefonata a casa. Risponde mia madre che è a casa con mia figlia, gli dico che stiamo bene, che è successo un brutto incidente ma stiamo bene e che poi l'avrei richiamata.
Ci accompagnano dove abbiamo parcheggiato la macchina e ci cambiamo, poi ritorniamo alla casa dove nel frattempo arrivano quelli del soccorso alpino.

Entro in casa e la ragazza mi abbraccia ringraziandomi. Piangendo mi dice che non sa dove trovare il coraggio di dire ai suoi due bambini che il loro padre non c'è più. Non so cosa dire, l'abbraccio forte.
Non riesco a stare in quella casa ed esco, nel frattempo arriva un medico che si occupa della ragazza e gli somministra dei tranquillanti. Là fuori ci sono quelli del soccorso alpino, che sono arrivati con il fuoristrada a prelevare i tre soccorritori dell'elicottero. Mauro ci dice che siamo stati bravi, ma questo ormai non ha più senso. Sappiamo di aver fatto tutto il possibile e di averlo fatto bene, ma è una triste consolazione.
Sento nelle orecchie il pianto disperato della ragazza.

Ritorno in casa per cercare di scaldarmi i piedi. Lei è seduta sul divano davanti al camino, tremante , al suo fianco la giovane dottoressa. Io mi siedo su una sedia lì a fianco, mi tolgo le scarpe e appoggio i piedi sul camino. «Spero di non fare la fine di Pinocchio» dico cercando di allentare la tensione. «Come ti chiami?» mi chiede la ragazza con la sua lieve inflessione toscana, «Raffaele, e tu?» rispondo. «Lucia».

Rossano, suo marito è morto per arresto cardiaco in seguito alla frattura del rachide. Si è rotto l'osso del collo. Lucia lo ha capito subito, noi abbiamo sperato fino all'ultimo che così non fosse. E' stato sfortunato. Mauro è convinto, come noi del resto, che se non fosse caduto così rovinosamente si sarebbe salvato, lo avremmo salvato. Magra consolazione. La voglia di sciare mi è un po' passata. Ora i pendii mi fanno più paura di prima. Andrò a sciare ad aprile, tra i bucaneve, forse.
 

Falconara, Inverno 2004
© febbraio 2004 intraisass

 

Raffaele Galli

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