Tutte le favole importanti, da Cenerentola alla Bella addormentata
nel bosco, da Hansel e Gretel a Pollicino, sono apparentate da un inizio
comune, che le individua come fiabe, come racconti fantastici.
“C'era una volta”, dunque, è il marchio di fabbrica registrato, il
copyright, la denominazione di origine controllata di tutte le fiabe che
si rispettano; molto immodestamente, comincerà cosi anche quella che
andate a leggere.
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C'era una volta un paesino immerso nei boschi di castagno delle Alpi Marittime,
un cantuccio odoroso di profumi che intrecciavano il filo della memoria
di gente abituata a lavorare duro per sopravvivere. Alzarsi con il
gallo, andare a letto con le galline, ed in mezzo le vacche da mungere,
l'erba da tagliare (la gente di Liguria direbbe ‘segare’), e poi
quel rastrello che ha perso un dente, bagna la pietra se vuoi affilare
bene!, il fazzoletto sul collo mentre comincia la fienagione, due
zappettate al piccolo orto, una golata di vino perché dio fa', un caldo
così erano anni che non veniva, tieni pulito il bosco, il letame e le
mosche, le mosche e il letame, tafani zecche biscioni vipere scoiattoli
e quei cinghiali che mangiano le patate e arano le radure, due
chiacchiere alla sera quando viene buio, il vestito buono della
domenica, e via ricominciare il giorno dopo.
Da parecchi anni in estate il ragazzino saliva dalla città di mare,
con le orecchie ancora piene dell'eco dei saluti scambiati con i
compagni di scuola, e si sistemava con la famiglia nella casetta bianca
a due piani, il cortiletto davanti e i monti di dietro, persiane verdi e
tetto rosso. Tutti i giorni uguali, in quel mese di agosto che si
ripeteva ogni anno da sette anni; tutti gli anni lo stesso panorama
dalla finestra della camera da letto, con il fiume (o forse era un
torrentello?) immaginato laggiù in fondo alla lontanissima e misteriosa
scarpata boscosa, terra di nessuno e terra di frontiera come quelle
Colonne d'Ercole che aveva studiato diligentemente, perché lui era un
ragazzo studioso ed obbediente, più maturo della sua età, con la testa
sulle spalle e pieno di buon senso, insomma un piccolo promettente
ometto imbranato.
Certo, la fantasia non gli mancava, guardando dalla finestra sui boschi
di fronte, boschi erti e lontanissimi se misurati con il suo metro lungo
ottanta centimetri; la sua attenzione era comunque catturata sempre da
una macchia che spiccava diversa nel verde cupo dei faggi e dei
castagni. Quella macchia era cangiante con il passare dei giorni: i toni
rossi ed arancioni sfumavano in maniera impercettibile ma costante ed
ineluttabile verso un nitore di giallo paglierino, poi bruciato, poi
ocra; il ragazzo non sapeva se quella macchia cambiasse ulteriormente
colore, perché il mese finiva e lui doveva tornare in città; ogni anno
si riprometteva di attendere ancora qualche giorno di più per scoprire
l'arcano, ma la data della partenza era fissata senza possibilità di
proroghe. Molto spesso chiedeva a parenti ed amici più grandi che lo
accompagnassero fino a quel prato, perché di un prato ovviamente si
trattava; tutti però glissavano, accampando scuse e pretesti che
rafforzavano il desiderio del ragazzo. Nell'attesa del giorno propizio,
il prato misterioso diventava un miraggio lontano nel tempo e nello
spazio, un campo di atterraggio per astronavi aliene pronte ad invadere
la terra, oppure un luogo di tenebrosi riti magici, dove venivano
scatenate forze provenienti dai recessi della mente.
Con il passare degli anni, la voglia di scoprire cosa c'era in quel
prato aumentava proporzionalmente alla forza delle sue gambe ed alla sua
resistenza nel camminare per lunghe ore nei boschi in cerca di funghi,
su e giù per le rive. Finalmente, verso la fine di una afosa giornata
di agosto, lo zio del ragazzo disse perentoriamente, con accento che non
ammetteva replica, “domani andiamo là di fronte”.
Immaginatevi come il ragazzo passò quella notte: gira e gira nel letto,
arrivò l'alba ed il momento della partenza. Infilati gli stivali verde
militare ed il maglione pesante, il novello esploratore seguì lo zio,
dapprima per sentieri conosciuti e calcati innumerevoli volte, poi su un
terreno ignoto, in-ciampando nel fitto sottobosco e inanellando un passo
dopo l'altro. Ogni tanto un ramo dispettoso lo riempiva di rugiada lungo
la schiena, contribuendo ad aumentare quei piccoli brividi dovuti,
chissà, forse al freddo dell'umido mattino, forse ad una sensazione
diversa.
La discesa continuava spedita, inframmezzata da brevi commenti del
laconico zio sul soffice muschio o su quel sambuco odoroso o sul quel
castagno centenario. Attraverso la sequenza di rapidi fotogrammi, il
ragazzo penetrava in uno strano mondo verde, fatto di rumori e di
fruscii, di tracce e di impronte, continuando a scendere nella forra che
sembrava senza fine. Ad un tratto, il rumore del rio attrasse la sua
attenzione; il ragazzo, che si aspettava una massa d'acqua poco meno
importante del Po, rimase deluso nello scorgere un rigagnolo pigro e
sonnolento, dove alcuni salici combattevano con tenaci liane per
affondare i loro rami nella scarna pozza d'acqua. Oltrepassare il
ruscello fu un attimo, saltando di pietra in pietra e caracollando
dietro l'implacabile zio che non concedeva momenti di riposo.
Al di là del torrente, la scarpata si perdeva in un segmento limitato
di orizzonte verticale, dove il cielo blu cobalto faceva capolino tra le
cime di faggi che ondeggiavano lenti ad un quieto vento tiepido. La
salita non era facile, ed il ragazzo si trovò ben presto ad attaccarsi
a rami e radici per non scivolare sul terreno umido che cominciava a
raccogliere le prime foglie cadute; però non demordeva, conscio che lo
zio non lo perdeva di vista con la coda dell'occhio, mentre sceglieva i
passaggi meno disagevoli per facilitare la salita. Il ragazzo, che come
detto era un tipo studioso, si paragonava mentalmente ad un eroe minore
della mitologia greca, tipo Ercole per intenderci, costretto a salire
all'infinito e senza possibilità di fermarsi, con moto continuo e
perpetuo, come se quello fosse il suo destino stabilito per l'eternità.
Dopo un tempo indefinito, sbucò in una radura inclinata, di forma
vagamente trapezoidale; l'erba era lunga, lunga e schiacciata a formare
una trama colorata simile ad un tappeto orientale. Non ci volle che un
attimo per capire che quella radura era il prato. Si volse
repentinamente e vide, dall'altra parte del monte, la casetta bianca a
due piani, il cortiletto davanti e i monti dietro, persiane verdi e
tetto rosso che ben conosceva. Come la boccia di biliardo che ha
ricevuto un effetto particolare e che continua a toccare le sponde, il
ragazzo si girava verso il bosco, poi verso l'orizzonte, poi verso il
bosco, poi guardava intorno, poi ricominciava daccapo. Una ridda di
sensazioni si affollò nella sua mente; c'erano dentro lo stupore nel
vedere quel luogo, la meraviglia dell'ambiente sconosciuto, la fatica
della lunga escursione, il caldo e la sete causati dal sole ormai a
picco sulla sua testa, i colori abbaglianti dei fiori, il profumo dei
funghi porcini che occhieggiavano dal limitare del bosco. C'era anche un
leggero senso di fastidio, come se aver raggiunto quell'obiettivo così
a lungo sognato non lo facesse contento, passato il primo momento di
euforia. Lui sapeva poco di Leopardi e del pessimismo cosmico e del
sabato del villaggio, però si rendeva confusamente conto che è più
bello adoperarsi per avere una cosa che possederla effettivamente. Senza
capirlo razionalmente, il ragazzo aveva mosso i primi passi nel mondo
reale di tutti i giorni, dove le illusioni ed i sogni fanno sempre i
conti con la realtà (e molto spesso perdono contro di essa). Dal
secondo piano della casetta bianca a due piani, il cortiletto davanti e
i monti dietro, persiane verdi e tetto rosso, adesso lui guarda in
maniera diversa il prato di fronte: forse sta già guardando con gli
occhi della mente ad un altro prato, oltre cui c'è un altro prato, dopo
un altro prato e prima di un altro prato.