C'era una volta

 

di Mauro Mazzetti

 

 

Tutte le favole importanti, da Cenerentola alla Bella addormentata nel bosco, da Hansel e Gretel a Pollicino, sono apparentate da un inizio comune, che le individua come fiabe, come racconti fantastici. 
“C'era una volta”, dunque, è il marchio di fabbrica registrato, il copyright, la denominazione di origine controllata di tutte le fiabe che si rispettano; molto immodestamente, comincerà cosi anche quella che andate a leggere.

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C'era una volta un paesino immerso nei boschi di castagno delle Alpi Marittime, un cantuccio odoroso di profumi che intrecciavano il filo della memoria di gente abituata a lavorare duro per sopravvivere. Alzarsi con il gallo, andare a letto con le galline, ed in mezzo le vacche da mungere, l'erba da tagliare (la gente di Liguria direbbe ‘segare’), e poi quel rastrello che ha perso un dente, bagna la pietra se vuoi affilare bene!, il fazzoletto sul collo mentre comincia la fienagione, due zappettate al piccolo orto, una golata di vino perché dio fa', un caldo così erano anni che non veniva, tieni pulito il bosco, il letame e le mosche, le mosche e il letame, tafani zecche biscioni vipere scoiattoli e quei cinghiali che mangiano le patate e arano le radure, due chiacchiere alla sera quando viene buio, il vestito buono della domenica, e via ricominciare il giorno dopo. 

Da parecchi anni in estate il ragazzino saliva dalla città di mare, con le orecchie ancora piene dell'eco dei saluti scambiati con i compagni di scuola, e si sistemava con la famiglia nella casetta bianca a due piani, il cortiletto davanti e i monti di dietro, persiane verdi e tetto rosso. Tutti i giorni uguali, in quel mese di agosto che si ripeteva ogni anno da sette anni; tutti gli anni lo stesso panorama dalla finestra della camera da letto, con il fiume (o forse era un torrentello?) immaginato laggiù in fondo alla lontanissima e misteriosa scarpata boscosa, terra di nessuno e terra di frontiera come quelle Colonne d'Ercole che aveva studiato diligentemente, perché lui era un ragazzo studioso ed obbediente, più maturo della sua età, con la testa sulle spalle e pieno di buon senso, insomma un piccolo promettente ometto imbranato.
Certo, la fantasia non gli mancava, guardando dalla finestra sui boschi di fronte, boschi erti e lontanissimi se misurati con il suo metro lungo ottanta centimetri; la sua attenzione era comunque catturata sempre da una macchia che spiccava diversa nel verde cupo dei faggi e dei castagni. Quella macchia era cangiante con il passare dei giorni: i toni rossi ed arancioni sfumavano in maniera impercettibile ma costante ed ineluttabile verso un nitore di giallo paglierino, poi bruciato, poi ocra; il ragazzo non sapeva se quella macchia cambiasse ulteriormente colore, perché il mese finiva e lui doveva tornare in città; ogni anno si riprometteva di attendere ancora qualche giorno di più per scoprire l'arcano, ma la data della partenza era fissata senza possibilità di proroghe. Molto spesso chiedeva a parenti ed amici più grandi che lo accompagnassero fino a quel prato, perché di un prato ovviamente si trattava; tutti però glissavano, accampando scuse e pretesti che rafforzavano il desiderio del ragazzo. Nell'attesa del giorno propizio, il prato misterioso diventava un miraggio lontano nel tempo e nello spazio, un campo di atterraggio per astronavi aliene pronte ad invadere la terra, oppure un luogo di tenebrosi riti magici, dove venivano scatenate forze provenienti dai recessi della mente. 
Con il passare degli anni, la voglia di scoprire cosa c'era in quel prato aumentava proporzionalmente alla forza delle sue gambe ed alla sua resistenza nel camminare per lunghe ore nei boschi in cerca di funghi, su e giù per le rive. Finalmente, verso la fine di una afosa giornata di agosto, lo zio del ragazzo disse perentoriamente, con accento che non ammetteva replica, “domani andiamo là di fronte”.
Immaginatevi come il ragazzo passò quella notte: gira e gira nel letto, arrivò l'alba ed il momento della partenza. Infilati gli stivali verde militare ed il maglione pesante, il novello esploratore seguì lo zio, dapprima per sentieri conosciuti e calcati innumerevoli volte, poi su un terreno ignoto, in-ciampando nel fitto sottobosco e inanellando un passo dopo l'altro. Ogni tanto un ramo dispettoso lo riempiva di rugiada lungo la schiena, contribuendo ad aumentare quei piccoli brividi dovuti, chissà, forse al freddo dell'umido mattino, forse ad una sensazione diversa. 
La discesa continuava spedita, inframmezzata da brevi commenti del laconico zio sul soffice muschio o su quel sambuco odoroso o sul quel castagno centenario. Attraverso la sequenza di rapidi fotogrammi, il ragazzo penetrava in uno strano mondo verde, fatto di rumori e di fruscii, di tracce e di impronte, continuando a scendere nella forra che sembrava senza fine. Ad un tratto, il rumore del rio attrasse la sua attenzione; il ragazzo, che si aspettava una massa d'acqua poco meno importante del Po, rimase deluso nello scorgere un rigagnolo pigro e sonnolento, dove alcuni salici combattevano con tenaci liane per affondare i loro rami nella scarna pozza d'acqua. Oltrepassare il ruscello fu un attimo, saltando di pietra in pietra e caracollando dietro l'implacabile zio che non concedeva momenti di riposo. 
Al di là del torrente, la scarpata si perdeva in un segmento limitato di orizzonte verticale, dove il cielo blu cobalto faceva capolino tra le cime di faggi che ondeggiavano lenti ad un quieto vento tiepido. La salita non era facile, ed il ragazzo si trovò ben presto ad attaccarsi a rami e radici per non scivolare sul terreno umido che cominciava a raccogliere le prime foglie cadute; però non demordeva, conscio che lo zio non lo perdeva di vista con la coda dell'occhio, mentre sceglieva i passaggi meno disagevoli per facilitare la salita. Il ragazzo, che come detto era un tipo studioso, si paragonava mentalmente ad un eroe minore della mitologia greca, tipo Ercole per intenderci, costretto a salire all'infinito e senza possibilità di fermarsi, con moto continuo e perpetuo, come se quello fosse il suo destino stabilito per l'eternità.
Dopo un tempo indefinito, sbucò in una radura inclinata, di forma vagamente trapezoidale; l'erba era lunga, lunga e schiacciata a formare una trama colorata simile ad un tappeto orientale. Non ci volle che un attimo per capire che quella radura era il prato. Si volse repentinamente e vide, dall'altra parte del monte, la casetta bianca a due piani, il cortiletto davanti e i monti dietro, persiane verdi e tetto rosso che ben conosceva. Come la boccia di biliardo che ha ricevuto un effetto particolare e che continua a toccare le sponde, il ragazzo si girava verso il bosco, poi verso l'orizzonte, poi verso il bosco, poi guardava intorno, poi ricominciava daccapo. Una ridda di sensazioni si affollò nella sua mente; c'erano dentro lo stupore nel vedere quel luogo, la meraviglia dell'ambiente sconosciuto, la fatica della lunga escursione, il caldo e la sete causati dal sole ormai a picco sulla sua testa, i colori abbaglianti dei fiori, il profumo dei funghi porcini che occhieggiavano dal limitare del bosco. C'era anche un leggero senso di fastidio, come se aver raggiunto quell'obiettivo così a lungo sognato non lo facesse contento, passato il primo momento di euforia. Lui sapeva poco di Leopardi e del pessimismo cosmico e del sabato del villaggio, però si rendeva confusamente conto che è più bello adoperarsi per avere una cosa che possederla effettivamente. Senza capirlo razionalmente, il ragazzo aveva mosso i primi passi nel mondo reale di tutti i giorni, dove le illusioni ed i sogni fanno sempre i conti con la realtà (e molto spesso perdono contro di essa). Dal secondo piano della casetta bianca a due piani, il cortiletto davanti e i monti dietro, persiane verdi e tetto rosso, adesso lui guarda in maniera diversa il prato di fronte: forse sta già guardando con gli occhi della mente ad un altro prato, oltre cui c'è un altro prato, dopo un altro prato e prima di un altro prato.

 

Aprile 1998

Mauro Mazzetti

 

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