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Rivista di Letteratura, Alpinismo e Arti Visive  

La prima e l'ultima neve
RACCONTO VINCITORE DEL PREMIO LETTERARIO
IN MEMORIA DI GIULIO BEDESCHI
10^ edizione – anno 2003

di Mauro Semenzato
 

 

 

La montagna non è terreno di conquista
ma luogo sacro,
al quale si accede per grazia.
 

La prima neve fu di Novembre. E la videro due occhi marroni, accanto ai miei, innamorati.

Era quel periodo dell'anno in cui l'inverno e l'autunno ancora si contendono il primato, sul crinale incerto della stagione.
Dalle vette più alte, le gelide propaggini del primo cominciavano a calare verso il fondovalle, ma nei fianchi boscosi dei rilievi resisteva ancora il dolce colore della terra, del legno, dei depositi di foglie secche.
Salivamo, io e quegli occhi, lungo il comodo sentiero che dalla Val di Sella porta alla radura della Baita Lanzola e, per chi vuole, prosegue fino a Cima Dodici, passando per il Kempel.
Il tempo incerto diffondeva per il bosco un'aria grigia, a tratti fredda. Piccole nuvole, che altrove si chiamano gat, s'inseguivano rapide tra i tronchi argentati dei faggi. Non appena il vento ristagnava, l'aria umida tornava a pesare, e da terra traspirava l'odore delle foglie infracidite.
Ad un tratto sentii un sassolino colpirmi un orecchio. Poi ne vidi tre che rimbalzavano per terra, piccoli e bianchi, come palline di polistirolo. Mi guardai attorno: negli avvallamenti del terreno si cominciavano a scorgere dei piccoli nidi biancastri, sempre più consistenti a mano a mano che lo sguardo saliva.
“Stiamo andando a trovare l'inverno...” dissi.
“Che bello...” mi rispose un sorriso.
“Se in baita c'è legna ci possiamo fermare. Il sentiero è ben segnato e si può scendere anche con la neve... Attenta alle radici, che si scivola.”
Salimmo, sotto quello strano nevischio, fino a dove il sentiero si fa pianeggiante, e i faggi lasciano il posto a larici ed abeti. La neve giovane, caduta nella notte, riposava ancora su cuscini di aghi di pino.
Uno stretto e buio corridoio boscoso conduce brevemente alla radura: lo percorremmo con il cuore sospeso, fino a scoprire – come incantate – le due baite immobili, incastonate nella piana bianchissima.
Intanto continuava a nevicare: neve dura, quasi ghiacciata.
La sera giunse rapida.
Gelide folate di vento spazzarono via ogni traccia di maltempo.
Ci sedemmo su una panca ricavata da un grosso tronco d'albero. Davanti ai nostri occhi si stagliava il massiccio di Cima Dodici, bianco ed imponente, come sprofondato nel viola del crepuscolo. Ci mancava il coraggio di parlare.
Dal camino già si levava un rassicurante filo di fumo, presto rapito dai capricci del vento. Una volta rientrati, mangiammo salame e castagne abbrustolite, bevendo vino rosso riscaldato sulla fiamma.
Uscii di nuovo, per raccogliere un po' di neve da sciogliere e anche per vedere la notte.
Ma la notte non c'era.
Il disco tondo e perfetto della luna spandeva ovunque, nell'aria limpidissima, i suoi mille raggi d'argento. La luce magica e penetrante veniva raccolta e riverberata dalla neve durissima. Si poteva a stento respirare: in quel mondo di cristallo, qualunque altra cosa sarebbe stata di troppo.
Feci per prendere una manciata di neve, ma le mie dita grattarono inutilmente la crosta gelata. Era talmente dura che si poteva camminarci sopra senza affondare.
“La prima neve dell'anno...” pensai “...ed è già così ghiacciata...!”
Mi affacciai alla porta e la chiamai, perché venisse a vedere.
Malgrado il freddo pungente, restammo a lungo a contemplare l'incantesimo. Il bosco, tutt'intorno, respirava.
Dormimmo dentro i nostri sacchi a pelo, sul tavolato del soppalco.
Lei tossiva spesso, così mi alzai per prepararle qualcosa di caldo.
Erano circa le cinque, quando uscii nuovamente. Alzai gli occhi verso Cima Dodici, ed assistetti al lento calare delle tenebre.
Più la luna scendeva alle mie spalle, tramontando dietro il bosco, più il confine dell'ombra avanzava, risalendo le pendici del monte che mi stava davanti. La linea di demarcazione era netta. La radura già da tempo giaceva nella più totale oscurità. Finalmente era la notte. La notte vera.
Vidi la montagna morire nel buio, palmo dopo palmo.
Mancava soltanto la vetta. L'ultima cresta innevata, l'ultimo spicchio di luce e poi tutto sarebbe stato inghiottito per sempre.
Ma alla notte non fu concesso di trionfare.
Già si cominciava a scorgere, nel cielo, un'impercettibile sfumatura di rosa, un vago baluginare che preludeva alla luce dell'aurora.
Mi dimenticai di tutto, in quel momento, perfino di andarla a chiamare. E fui solo, di fronte al miracolo.
Solitudine benedetta, che in futuro avrei ritrovato. E che, forse, non mi venne concessa per caso.

* * *

Ricordo che l'inverno fu lungo, quell'anno. A Marzo faceva ancora freddo.
Prima che la stagione volgesse, in quegli occhi marroni qualcosa s'incrinò. Un velo di nebbia cadde a ricoprirli, e ciò ch'era dietro di essi fu come spazzato via.
Se ne andò dalla mia vita nel modo più violento e doloroso.
Non fu come una slavina, che scivola sul pendio innevato senza toccare la superficie del monte.
Si staccò da me come una frana, che strappa alla montagna la sua viva carne. E rotolando a valle trascina con sé rocce e detriti, come ammassi di membra mutilate.
Rimasi tramortito, per un paio di giorni, senza nemmeno riuscire a pensare.
Quando mi ripresi, sentii forte il bisogno di uscire, per andare a cercare altra neve.

Ad accogliermi fu il Monte Grappa.
Lo raggiunsi dal versante orientale: era mia intenzione percorrere in macchina la strada delle malghe, per poi salire a piedi lungo il sentiero che porta alla Croce dei Lebi e, di qui, seguire in cresta l'Altavia degli Eroi, fino a Cima Grappa.
Fui costretto, però, ad abbandonare la vettura molto prima: la strada era coperta da uno spesso strato di neve e, per giunta, la visuale era impedita da una densa coltre di nuvole basse.
Calzai gli scarponi e, in pochi passi, dileguai in quell'universo lattiginoso.
È difficile immaginare una solitudine più radicale: tutto il mio mondo si esauriva in una sfera con un raggio di cinque metri, priva di colori, priva di odori e senza alcun rumore, eccetto lo scricchiolio della neve sotto i miei piedi. Tutto il resto poteva anche non esistere più: in ogni caso sarebbe stato impossibile avvertirne la presenza.
Camminavo, pensieroso, sperando che tutto quel bianco mi entrasse nel cuore, a congelare per sempre il dolore che mi consumava.
Le tracce di una slitta trainata da cani mi indicavano la via da seguire.
Mi ricordai di Hans Castorp, ne La montagna incantata di Thomas Mann. Pensai al capitolo che si intitola Neve.
“Qualcuno potrebbe anche morirne...” mi dissi. “Oppure impazzire. Ma io me la caverò.”
Non c'erano veri pericoli, in realtà, se non quelli che venivano da dentro. Era un senso di claustrofobico isolamento, che costringeva a confrontarsi con i propri sentimenti, faccia a faccia con gli abissi dell'anima, senz'altra soluzione che quella di attraversarli, solo, con la speranza di venirne fuori.
“Per tornare indietro basta seguire le tracce” mi ripetevo. E mi voltavo di tanto in tanto per controllare che fossero visibili.
Dal nulla in cui ero sprofondato fece capolino un cartello di legno: “Val delle Mure”. Ora la strada cominciava a scendere, decisa, e svoltava a sinistra.
Come per incanto, completata la svolta, mi apparve una valle addor-mentata, costellata di malghe. La mulattiera digradava dolcemente, costeggiandola. Perfino il sole, a tratti, si lasciava intravedere.
Dal lato opposto si ergeva il costone in cima al quale passa l'Altavia degli Eroi. In qualche punto, alla sua base, avrei dovuto rintracciare il sentiero che lo risale fino a raggiungere la cresta.
Nei pressi di una malga mi sedetti su un sasso, per annotare due pensieri sul mio quaderno. Sentii una voce ed alzai gli occhi: un uomo su una slitta dava ordini a cinque husky.
Ne avevo seguito le tracce fino a quel momento, ed ora eccolo, che ritornava indietro. Provai un'immediata sensazione di familiarità.
Si fermò a pochi metri da me e smontò dalla slitta.
“Ciao”, disse.
“Salve”, risposi.
Si guardò un poco intorno. Poi disse qualcosa ai cani e ripartì.
Anch'io mi rimisi in cammino, sorridendo, e mi rituffai nelle nubi, che nel frattempo erano calate di nuovo.
Dove il sentiero si dipartiva dalla strada trovai le impronte di una volpe e le seguii.
La visibilità era molto limitata, ma di tanto in tanto incontravo una panchina o una tabella illustrativa, segno del fatto che mi trovavo sulla strada giusta.
“D'estate dev'essere un sentiero per famiglie”, mi dissi.
Più avanti la traccia si fece più confusa. Tuttavia, ero già salito un bel po' ed ero quasi riuscito a liberarmi dall'abbraccio delle nuvole. Mi affidai per un tratto alle impronte della volpe che, fino ad allora, avevano grossomodo seguito il sentiero. Così, arrivai in vista della Croce dei Lebi e la raggiunsi facilmente.
Il sole splendeva forte. Guardai verso valle e vidi soltanto un colle spuntare da un mare biancastro di nubi. Alle spalle di quel colle, da qualche parte, c'era il punto da cui ero partito.
Mi voltai a monte e feci gli ultimi due metri che mi separavano dalla cresta, quindi mi affacciai.
La vista si aprì su un orizzonte vastissimo di Alpi e Dolomiti, schierate soltanto per me. Riconobbi le Vette Feltrine e le Pale di San Martino.
La gioia m'invase.
Presi il quaderno e scrissi: “Tutto questo me lo sono meritato”.
Mangiai rapidamente, perché le nuvole stavano salendo. Erano le due del pomeriggio.
Gettai un ultimo sguardo al panorama che, dopo tanto travaglio, mi era stato regalato. Quindi, con passo deciso, mi rituffai nel nulla.


Neve in Val delle Mure

La domenica di Pasqua fu nuovamente il Grappa ad accogliermi, questa volta dal versante occidentale.
Su gran parte del massiccio, ormai, si coglievano i primi segni della primavera. Soltanto la vetta, ancora lontana, appariva fredda e innevata.
La guardavo, camminando, dal Col della Beretta, e mi dissi che quella doveva essere l'ultima neve della stagione.
Fu inevitabile, allora, pensare alla neve di novembre. E mi parve che, in mezzo, ci fosse passata una vita.
Il sentiero procedeva in un dolce saliscendi verso l'Asolone. Il tempo era discreto, ma soffiava un vento sostenuto e freddo, che mi irrigidiva il viso. Non c'era anima viva.
Ripensai alla volpe che mi aveva guidato fino alla Croce dei Lebi: ci sono culture in cui si crede che lo spirito guida di ogni uomo si manifesti sotto le sembianze di un determinato animale. Ad ognuno spetterebbe una forma particolare: a chi il lupo, a chi l'aquila, a chi il gufo o la civetta... e a chi la volpe.
Stavo riflettendo su questo, quando mi accorsi che il sentiero spariva in un avvallamento dietro un lieve dosso: da lì vidi spuntare un cagnolino che mi veniva incontro a testa bassa, fiutando il sentiero.
“Ecco il primo incontro della giornata...” mi dissi. “Ora spunterà il padrone. Speriamo non sia gente rumorosa...”
Tesi l'udito, per cercare di capire se si trattasse di un gruppetto o di una persona sola, ma non riuscivo a percepire alcuna voce: soltanto il vento insistente, che mi soffiava contro il viso. Forse c'è una malga qui vicino, pensai, mentre l'animale mi trotterellava incontro.
Quando fummo a una decina di metri l'uno dall'altro, mi colse un sospetto. Entrambi ci arrestammo di colpo e, per pochi secondi, ci fissammo intensamente.
Aveva occhi come non ne avevo mai visti: di un giallo penetrante e selvatico.
In un lampo si voltò di fianco e si gettò in fuga, lungo il dolce pendio erboso, mostrandomi a lungo la folta coda ondeggiante, prima di svanire nel bosco sottostante.
Rimasi aggrappato al mio bastone, in ginocchio, con il cuore in tumulto. Una gioia incontenibile m'invase e cominciai a ridere, gridando sottovoce e ringraziando, mentre alle lacrime causate dal vento se ne aggiungevano altre, più calde.
Non so se fosse la stessa volpe che, un mese prima, aveva lasciato le sue tracce sull'altro versante del massiccio. E non so se quelle storie sugli spiriti guida possano avere un qualche valore, al di fuori della cultura che le ha generate.
Tuttavia, negli anni seguenti sono andato molte volte a camminare sulla neve, nei luoghi più diversi. E quasi sempre, quando la via da seguire si faceva dubbia, sono state delle impronte come quelle a suggerirmi la soluzione.
Quel giorno, in ogni caso, ebbi il dono di proseguire con l'anima lieve.
L'ultimo tratto lo percorsi con la neve al ginocchio. Quando arrivai in cima, dove c'è l'ossario della Prima Guerra Mondiale, mi sentii felice e fortunato.
Lassù, stranamente, il vento era più debole, mentre il sole picchiava con forza. Mi misi in maglietta e, a piedi nudi, andai a raccogliere un po' di neve. Qualche famigliola di gitanti era salita fin lì con l'automobile, dopo il lauto pranzo pasquale. Passeggiavano chiassosi, tutti intabarrati nei loro cappotti, e mi guardavano con aria diffidente.
Io, però, stavo bene. Nel cuore non avevo l'allegria del torrente, ma la pace serena del lago.
Verso sera, quando tornai alla macchina, guardai a lungo gli alberi carichi di germogli sotto cui l'avevo parcheggiata.
Pensai che non poteva esistere un modo migliore per santificare la festa della Resurrezione: partire da dove la natura è già gravida, per andare a ritrovare l'inverno... e dopo ritornare indietro, per avere la conferma che la vita rinasce.
È un rito che, da allora, celebro ogni anno. E ogni anno, prima o dopo, anche l'ultima neve si scioglie.

* * *

Tuttavia, esistono nevi che non si sciolgono mai.
Diverse volte, nel corso dell'estate, la tristezza tornò a farmi visita. E risentivo, allora, il gelo dell'inverno.
Era una tristezza antica, più vecchia di qualunque amore e di qualunque dolore.
Ci sono nevi eterne, nel cuore degli uomini, che sono lì da sempre: nate con noi, senza bisogno di un motivo, ci accompagnano per tutta la vita.
Un mattino d'agosto ebbi la fortuna di salire in vetta all'Antelao, assieme ad una ragazza dagli occhi verdi e luminosi.
Ci eravamo conosciuti la sera prima, al rifugio Galassi: era lì con un'amica dall'accento triestino e con il fidanzato di lei.
Durante la notte, la triestina si era sentita poco bene. Perciò, al mattino, aveva preferito rinunciare all'escursione. Il fidanzato aveva deciso di rimanere a farle compagnia, sicché la ragazza dagli occhi verdi si era ritrovata da sola.
Entrambi eravamo abituati a camminare in solitudine. Tuttavia, il Re delle Dolomiti non è una montagna da sottovalutare, sebbene non presenti particolari difficoltà alpinistiche. Inoltre, una volta partiti, ci accorgemmo di avere grossomodo lo stesso passo: io un po' più rapido dove occorreva usare anche le mani, lei più costante e regolare nella camminata. Così, una volta superati i salti e le cengette de La Bala, decidemmo di proseguire insieme.
L'emozione che provammo nel raggiungere la vetta fu così forte da far sciogliere, in noi, qualunque tipo di riserva. Ci stringemmo la mano, per farci i complimenti, ma poi ci abbracciammo e ci dicemmo: “Grazie”.
Sulla via del ritorno, durante una pausa al bivacco Piero Cosi – a 3100 metri – parlammo a lungo delle nevi eterne... di quelle che si trovano sui monti e di quelle che dimorano nei cuori.
“Tu l'hai mai attraversato un ghiacciaio?” mi chiese.
“No, mai.” risposi.
Poi contrassegnai una pagina del mio quaderno con il timbro del bivacco e, quindi, mi abbandonai ad un brevissimo sonno.
Intanto lei, seduta sulla soglia, disegnava nel suo taccuino il contorno delle Marmarole.
Nel tardo pomeriggio, dopo aver ritrovato i suoi amici al Galassi, ci salutammo. Ridiscesi per la Val d'Oten, nuovamente solo. Sul greto del torrente mi girai a riguardare l'Antelao: il Re mi apparve in tutta la sua possanza, con il sole alle spalle, severo come dev'essere un vero sovrano. Mi parve impossibile che mi avesse concesso di salire fin lassù. E mi commossi.
Presi il quaderno, per lasciare un ricordo di quel momento. Ma mi accorsi che, sotto il timbro del bivacco, qualcuno aveva scritto una frase in matita: “Non esiste l'ultima neve, perché certe nevi non si sciolgono mai. Queste, però, si possono attraversare. Preferibilmente in cordata...”
Sotto, erano scritti un nome ed un numero di telefono.

* * *

Prima che quella lontana estate finisse, per la prima volta salimmo in cima alla Marmolada, dopo averne attraversato il maestoso ghiacciaio fino ai 3343 metri di Punta Penia.
L'emozione fu indescrivibile: avevo superato la prova. Le nevi eterne erano sotto di me, ed io le avevo oltrepassate camminandoci sopra.
Ora, dopo tanti anni, sono tornato qui, alla Capanna di Punta Penia. Sul mio viso ci sono rughe che allora non c'erano, ma la neve è sempre lì. E l'emozione è rimasta la stessa.
Anche oggi, come allora, ho portato con me il mio fedele quaderno.
E anche oggi, quando alzo lo sguardo dalla pagina, due occhi verdi e luminosi mi sorridono, mentre una mano leggera disegna i contorni di vette lontane.


Il Monte Antelao da San Vito di Cadore

 

Mirano, Estate 2003
© settembre 2003 intraisass

 

Mauro Semenzato

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