Ecco,
riprendo ancora una volta a disegnare le montagne. Qui con le mie matite a
illustrare forme riconoscibili di roccia, affinché qualcuno ne impari il
nome, o apprenda la via più facile e conveniente per salire in cima.
E' una maniera molto singolare per attraversare, esplorare, percorrere e
ripercorrere le montagne. La necessità di illustrare condiziona
l'approccio artistico, che deve assecondare un preciso intento di studio e
di divulgazione. Ma anche in questo modo, e pur affrontando cime viste
mille volte, spesso si ripropongono gli attimi preziosi della scoperta. E'
la magia dell'osservare, del disegnare: e meno male, allora, che lo
stupore e la meraviglia continuano.
Nell'illustrazione di montagna il riferimento alla realtà si impone come
necessario. Sebbene i disegni che appronto si avvalgano della traccia
fotografica – come del resto è sempre avvenuto in questo campo, tranne
agli albori – e sebbene io debba lavorare prigioniero della fedeltà a
tutti i costi, mi accorgo che il mio stile subisce continue oscillazioni.
Non so se in posi-tivo o in negativo.
Oramai – in campo stilistico – si è visto (e si continua a vedere) di
tutto: accanto ad interpretazioni fortemente schematizzate ve ne sono
altre naif, giocose, umoristiche, dissacranti, alle quali possono
sovrapporsi simbologie diverse, non esclusa quella approvata dall'UIAA che
talora, da sola, basta a visualizzare chiaramente un'ascensione. Per non
parlare del computer, lì pronto ad offrire tutte le scorciatoie più
impensate e funzionali.
Affannarsi ancora adesso, nell'era dell'informatica dilagante, a disegnare
le montagne con matite e pennelli sembrerebbe un lavoro inutile. Inutili
siffatte illustrazioni delle montagne, così come sono inutili le conquiste
dell'alpinismo.
Ma appunto per questo ho scelto tale preziosa inutilità, propria anche,
non a caso, dell'arte. Sono abituato a salire le montagne passo dopo
passo. Il mio pensiero nasce da lì, da quella lentezza, che ritrovo nel
procedere con la matita. Tratto cime e pareti con precisione, ma anche con
scioltezza e lievità, grazie all'ineguagliabile morbidezza della grafite e
al delicato apporto di un acquerello monocromo, ma tuttavia gravitante
attorno ad un colore non prestabilito, variabile e ricomposto volta per
volta, un colore errabondo tra i poli opposti dell'ocra gialla e del
bruno, non senza l'apporto limitato ma prepotente delle lacche rosse. Così
mantengo il contatto. Disegnare le montagne o salirle non fa differenza.
Nessun segno o pennellata, per quanto leggeri o minuti, sono tracciati con
superficialità o impazienza. Seguo con identica curiosità e desiderio di
conoscenza le asperità della roccia, le loro forme bizzarre, il complesso
gioco delle stratificazioni, le spaccature più o meno vistose. Ma non
tratto con minor amore e rispetto le colate di ghiaia, i magri verdi, le
distese di mughi, gli alberi.
Occorre estrarre linearità, chiarezza di piani e di profili.
La luce dà e toglie. Di qua scolpisce, di là appiattisce. Ed anche le
tonalità delle ombre sono problematiche, si dispiegano su impossibili
graduatorie. Più scura la roccia in ombra su un campo di neve o una zona
di prato alla base delle pareti?
La mia matita si volge ad un realismo talora perverso. Non so mai dove sia
il corretto equilibrio tra il possibile e l'impossibile da disegnare. Vado
e vengo attorno a tale limite che muta di continuo. Invece di contenere i
tratti mi accorgo che la mia tecnica scivola paurosamente verso un
universo troppo frantumato. Dovrei rimanere sul cosiddetto schizzo, invece
dispongo sul foglio un numero di segni sempre maggiore. A fatica riesco a
staccarmi da questo gioco di insoddisfazioni mai superate.
Non si possono disegnare tutte le foglie di un albero – predicavo una
volta – ma adesso questo gorgo mi trascina con sé ed ho finito per
comportarmi come un allievo testone di me stesso.
Sto inseguendo un'utopia su questi miei fogli. Tento di aggrapparmi a
linee precise ma traccio altre forme, seguendo le lusinghe visive di un
interminabile intreccio. Mi sforzo per non soccombere all'astratto ed
obbedire all'andamento riconoscibile dei profili di base, e in tal modo
riesco a rimanere attaccato ad una oggettività. Per fortuna.
Resterà poi il pennello per affondare di più il rilievo.
Davanti alle grandi ninfee di Monet dell'Orangerie, a Parigi, ricordo con
un brivido di emozione la scoperta del sipario invisibile oltre il quale
ogni forma si disgrega, scivolando nell'universo astratto del segno e del
colore.
Esamino i miei disegni con la lente e noto, in tutta umiltà, di aver in
qualche misura profittato dell'immortale lezione degli Impressionisti.
Riconosco i tratti di matita abbandonare pareti e montagne per
riacquistare la loro identità originaria. Segni e macchie di colore. Nulla
di più.
La sequenza di tali elementi ripercorre ogni luogo dell'immagine. Ho
l'impressione di trasformarmi in scanner, e però – a differenza di quest'ultimo
– filtro ogni valore di superficie su stati mentali non uniformi,
rendendone immediata testimonianza con la matita.
L'artista, o meglio – in questo caso – l'illustratore, è di fatto uno
scanner della cosiddetta realtà, costretto com'è ad acquisirla in
sequenza. Ma le infinite varianti umanistiche di tale sequenza mantengono
stupore e turbamento, e sono determinanti nel costruire lo stile. Nessuno
può evitare se stesso, l'universo separato di cui dispone.
L'ordine del nostro procedere attraverso la realtà è imprevedibile,
diverso per ciascuno, ed incomunicabile, come lo è il nostro ordine di
pensiero. Ogni razionalizzazione risulta approssimativa, obbedendo inoltre
ad una casualità non sempre assolutamente fortuita come dovrebbe.
I primi segni che – per ciascun disegno – vanno a tentare lo spazio
cartaceo, si àncorano quasi sempre ad una cresta, ne adombrano il delicato
e sfuggente confine con il cielo. Un cielo che permane bianco e immobile
per tutta la durata del lavoro sulle montagne, per prendere solo in ultimo
uno spessore di grafite. Finalmente, per una volta, in questa fase
conclusiva posso padroneggiare l'aria, la luce, le condizioni meteo. E il
pensiero torna alle attese pazienti, là, seduto per ore in balia dei
capricci del vento e delle nuvole, affinché provvidenziali coni d'ombra
rivelino i profili confusi delle architetture di roccia distribuiti in
profondità, ulteriormente complicati dalla fuorviante corrispondenza delle
cenge.
Tutto il procedimento sembra ripetitivo e invece si compone di una serie
di esperienze in continua mutazione. Le differenze si colgono a
difficoltà, a decine di disegni di distanza, e sono comunque assai poco
percepibili.
Tuttavia non meno profonde.
Il mestiere di disegnare si fa in questo periodo sempre meno automatico,
manifestando imprevista fragilità. Più facilmente soccombe a soprassalti
di insicurezza. Restituisce nebbie di nuova gioventù, senza la forza di
ricette salvifiche.
Siamo qui, più vulnerabili del previsto.
Alla lente, meglio riesco a stemperare nell'amalgama – più o meno riuscita
– di segno e montagne gli intrichi irrisolti relativi al mio casuale stato
di veglia (“La vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente” –
dice Pessoa). E come riconosco le particelle di grafite più o meno
intense, qua e là rafforzate da un velo d'acqua intriso di ossidi di
ferro, allo stesso modo si dispiegano davanti a me, dissolte nei loro
elementi, le cime: anch'esse, da una certa distanza, possiedono autonomia
e riconoscibilità, ma da vicino – oltrepassato quel medesimo sipario
invisibile scoperto un giorno, a Parigi, grazie alle ninfee di Monet –
sono polvere e pietra, più o meno colorate da minerali, modellate e
disegnate dall'acqua.
Quando, giunti all'attacco di una parete, mettiamo le mani sulla roccia,
la montagna – la sua forma – è perduta, non la vediamo più. Possiamo solo
immaginarla, e immaginare noi stessi in quella medesima forma.
Accolgo con gioia il perpetuo moto dei miei segni di matita verso realtà
effimere e mutevoli, così come accade salendo le montagne quando, lasciata
nella memoria o nel sogno la morfologia di una parete, ci addentriamo nel
mondo molecolare delle piccole protuberanze di roccia che aiutano
l'ascesa.
In montagna, come nell'arte, e fors'anche nell'amore, le forme e i sogni
appaiono e scompaiono, si ricompongono per tornare a frantumarsi, mentre
il nostro procedere sempre più somiglia al brancolare del cieco Omero tra
gli avelli, alla ricerca di pietre ed ombre da interrogare, per scoprire,
vivere e raccontare storie di uomini e di fantasmi.