Il sipario invisibile
(dal diario di lavoro di un illustratore di montagne)

 

di Mario Crespan

 

31 gennaio 2003
 

Ecco, riprendo ancora una volta a disegnare le montagne. Qui con le mie matite a illustrare forme riconoscibili di roccia, affinché qualcuno ne impari il nome, o apprenda la via più facile e conveniente per salire in cima.
E' una maniera molto singolare per attraversare, esplorare, percorrere e ripercorrere le montagne. La necessità di illustrare condiziona l'approccio artistico, che deve assecondare un preciso intento di studio e di divulgazione. Ma anche in questo modo, e pur affrontando cime viste mille volte, spesso si ripropongono gli attimi preziosi della scoperta. E' la magia dell'osservare, del disegnare: e meno male, allora, che lo stupore e la meraviglia continuano.

Nell'illustrazione di montagna il riferimento alla realtà si impone come necessario. Sebbene i disegni che appronto si avvalgano della traccia fotografica – come del resto è sempre avvenuto in questo campo, tranne agli albori – e sebbene io debba lavorare prigioniero della fedeltà a tutti i costi, mi accorgo che il mio stile subisce continue oscillazioni. Non so se in posi-tivo o in negativo.
Oramai – in campo stilistico – si è visto (e si continua a vedere) di tutto: accanto ad interpretazioni fortemente schematizzate ve ne sono altre naif, giocose, umoristiche, dissacranti, alle quali possono sovrapporsi simbologie diverse, non esclusa quella approvata dall'UIAA che talora, da sola, basta a visualizzare chiaramente un'ascensione. Per non parlare del computer, lì pronto ad offrire tutte le scorciatoie più impensate e funzionali.
Affannarsi ancora adesso, nell'era dell'informatica dilagante, a disegnare le montagne con matite e pennelli sembrerebbe un lavoro inutile. Inutili siffatte illustrazioni delle montagne, così come sono inutili le conquiste dell'alpinismo.
Ma appunto per questo ho scelto tale preziosa inutilità, propria anche, non a caso, dell'arte. Sono abituato a salire le montagne passo dopo passo. Il mio pensiero nasce da lì, da quella lentezza, che ritrovo nel procedere con la matita. Tratto cime e pareti con precisione, ma anche con scioltezza e lievità, grazie all'ineguagliabile morbidezza della grafite e al delicato apporto di un acquerello monocromo, ma tuttavia gravitante attorno ad un colore non prestabilito, variabile e ricomposto volta per volta, un colore errabondo tra i poli opposti dell'ocra gialla e del bruno, non senza l'apporto limitato ma prepotente delle lacche rosse. Così mantengo il contatto. Disegnare le montagne o salirle non fa differenza.
Nessun segno o pennellata, per quanto leggeri o minuti, sono tracciati con superficialità o impazienza. Seguo con identica curiosità e desiderio di conoscenza le asperità della roccia, le loro forme bizzarre, il complesso gioco delle stratificazioni, le spaccature più o meno vistose. Ma non tratto con minor amore e rispetto le colate di ghiaia, i magri verdi, le distese di mughi, gli alberi.
Occorre estrarre linearità, chiarezza di piani e di profili.
La luce dà e toglie. Di qua scolpisce, di là appiattisce. Ed anche le tonalità delle ombre sono problematiche, si dispiegano su impossibili graduatorie. Più scura la roccia in ombra su un campo di neve o una zona di prato alla base delle pareti?
La mia matita si volge ad un realismo talora perverso. Non so mai dove sia il corretto equilibrio tra il possibile e l'impossibile da disegnare. Vado e vengo attorno a tale limite che muta di continuo. Invece di contenere i tratti mi accorgo che la mia tecnica scivola paurosamente verso un universo troppo frantumato. Dovrei rimanere sul cosiddetto schizzo, invece dispongo sul foglio un numero di segni sempre maggiore. A fatica riesco a staccarmi da questo gioco di insoddisfazioni mai superate.
Non si possono disegnare tutte le foglie di un albero – predicavo una volta – ma adesso questo gorgo mi trascina con sé ed ho finito per comportarmi come un allievo testone di me stesso.
Sto inseguendo un'utopia su questi miei fogli. Tento di aggrapparmi a linee precise ma traccio altre forme, seguendo le lusinghe visive di un interminabile intreccio. Mi sforzo per non soccombere all'astratto ed obbedire all'andamento riconoscibile dei profili di base, e in tal modo riesco a rimanere attaccato ad una oggettività. Per fortuna.
Resterà poi il pennello per affondare di più il rilievo.

Davanti alle grandi ninfee di Monet dell'Orangerie, a Parigi, ricordo con un brivido di emozione la scoperta del sipario invisibile oltre il quale ogni forma si disgrega, scivolando nell'universo astratto del segno e del colore.
Esamino i miei disegni con la lente e noto, in tutta umiltà, di aver in qualche misura profittato dell'immortale lezione degli Impressionisti. Riconosco i tratti di matita abbandonare pareti e montagne per riacquistare la loro identità originaria. Segni e macchie di colore. Nulla di più.
La sequenza di tali elementi ripercorre ogni luogo dell'immagine. Ho l'impressione di trasformarmi in scanner, e però – a differenza di quest'ultimo – filtro ogni valore di superficie su stati mentali non uniformi, rendendone immediata testimonianza con la matita.
L'artista, o meglio – in questo caso – l'illustratore, è di fatto uno scanner della cosiddetta realtà, costretto com'è ad acquisirla in sequenza. Ma le infinite varianti umanistiche di tale sequenza mantengono stupore e turbamento, e sono determinanti nel costruire lo stile. Nessuno può evitare se stesso, l'universo separato di cui dispone.
L'ordine del nostro procedere attraverso la realtà è imprevedibile, diverso per ciascuno, ed incomunicabile, come lo è il nostro ordine di pensiero. Ogni razionalizzazione risulta approssimativa, obbedendo inoltre ad una casualità non sempre assolutamente fortuita come dovrebbe.

I primi segni che – per ciascun disegno – vanno a tentare lo spazio cartaceo, si àncorano quasi sempre ad una cresta, ne adombrano il delicato e sfuggente confine con il cielo. Un cielo che permane bianco e immobile per tutta la durata del lavoro sulle montagne, per prendere solo in ultimo uno spessore di grafite. Finalmente, per una volta, in questa fase conclusiva posso padroneggiare l'aria, la luce, le condizioni meteo. E il pensiero torna alle attese pazienti, là, seduto per ore in balia dei capricci del vento e delle nuvole, affinché provvidenziali coni d'ombra rivelino i profili confusi delle architetture di roccia distribuiti in profondità, ulteriormente complicati dalla fuorviante corrispondenza delle cenge.
Tutto il procedimento sembra ripetitivo e invece si compone di una serie di esperienze in continua mutazione. Le differenze si colgono a difficoltà, a decine di disegni di distanza, e sono comunque assai poco percepibili.
Tuttavia non meno profonde.

Il mestiere di disegnare si fa in questo periodo sempre meno automatico, manifestando imprevista fragilità. Più facilmente soccombe a soprassalti di insicurezza. Restituisce nebbie di nuova gioventù, senza la forza di ricette salvifiche.
Siamo qui, più vulnerabili del previsto.
Alla lente, meglio riesco a stemperare nell'amalgama – più o meno riuscita – di segno e montagne gli intrichi irrisolti relativi al mio casuale stato di veglia (“La vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente” – dice Pessoa). E come riconosco le particelle di grafite più o meno intense, qua e là rafforzate da un velo d'acqua intriso di ossidi di ferro, allo stesso modo si dispiegano davanti a me, dissolte nei loro elementi, le cime: anch'esse, da una certa distanza, possiedono autonomia e riconoscibilità, ma da vicino – oltrepassato quel medesimo sipario invisibile scoperto un giorno, a Parigi, grazie alle ninfee di Monet – sono polvere e pietra, più o meno colorate da minerali, modellate e disegnate dall'acqua.
Quando, giunti all'attacco di una parete, mettiamo le mani sulla roccia, la montagna – la sua forma – è perduta, non la vediamo più. Possiamo solo immaginarla, e immaginare noi stessi in quella medesima forma.
Accolgo con gioia il perpetuo moto dei miei segni di matita verso realtà effimere e mutevoli, così come accade salendo le montagne quando, lasciata nella memoria o nel sogno la morfologia di una parete, ci addentriamo nel mondo molecolare delle piccole protuberanze di roccia che aiutano l'ascesa.
In montagna, come nell'arte, e fors'anche nell'amore, le forme e i sogni appaiono e scompaiono, si ricompongono per tornare a frantumarsi, mentre il nostro procedere sempre più somiglia al brancolare del cieco Omero tra gli avelli, alla ricerca di pietre ed ombre da interrogare, per scoprire, vivere e raccontare storie di uomini e di fantasmi.

 

Carbonera (Treviso)
© maggio 2003 intraisass
 

Mario Crespan

 

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