Quale sicurezza?

 

di g.a. Alessandro Gogna

 

 

Intervento alla Prima Conferenza Stampa delle Guide Alpine Italiane
Circolo della Stampa, Milano 8 aprile 2003


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In questi tempi la preoccupazione che andare in montagna provochi incidenti e vittime è in fortissimo aumento rispetto al passato, quando forse prevaleva più un senso di fatalismo e di rassegnazione alla sventura. Una volta, di fronte alla tragedia e accanto al dolore umano c'era anche una sorte d'accettazione che l'andare per montagne richiedesse talvolta il pagamento di un tragico tributo che comunque si riteneva colpisse alla cieca. Così si giudicavano inevitabili guerre, guerre mondiali, genocidi, carestie, malattie e quant'altre sventure e lutti immaginabili.

Una consolazione a questa sofferenza umana era fornita dal naturale spirito religioso, cui però oggi si ricorre sempre meno. La fiducia nel benessere proprio della seconda parte del XX secolo, i progressi enormi della medicina, i piaceri consolatori e materiali dei consumi per tutti, unitamente alle gioie sostitutive e virtuali di una società sempre più incollata ai video dei computer hanno portato anche l'incapacità, da parte del singolo e della collettività, ad accettare dolore e sofferenza. La fiducia in uno sviluppo senza fine delle potenzialità della scienza, della ragione e della tecnica hanno fatto il resto.

La maggior parte delle persone dunque si adagia nell'ottimismo di una crescita morale e materiale della società che neppure segnali importanti e contrari come terrorismo internazionale o guerre nei Balcani e in Iraq riescono a scalfire.

Io continuo a stupirmi che, accanto a questa quieta fiducia nel benessere, nell'ottimismo e nella messa in sicurezza di tutta la nostra vita, si registri il massimo dell'audience in televisione quando si parla di Padre Pio; che in un tempo in cui stiamo riuscendo perfino a programmare lavoro e divertimento in base alle previsioni meteorologiche, una volta inesistenti, ecco che si vedono i disperati, gli esclusi dall'apparente benessere e felicità, ricorrere a maghi ed a stregoni, più spesso agli imbroglioni, per tentare di sollevarsi dalla loro condizione.

Ora, per Padre Pio da una parte e per gli imbroglioni dall'altra, in entrambi i casi assistiamo al fallimento di una Chiesa che dovrebbe essere scuola di spirito e che una volta ci bastava. Ma, per ciò che riguarda montagna e natura in generale, avviene la stessa cosa. Montagna e natura non sono più viste come palestra di vita, rifugio, o tempio religioso: al contrario la maggior parte le vede come hobby, gioco, passatempo, vacanza con gli amici, sport.

Tornando all'esempio della Chiesa, chi oggi ha più paura, davvero e intimamente, dell'Inferno? Ma se non abbiamo neppure più paura dell'Inferno, allora perché mai la montagna dovrebbe ancora impaurire per qualche cosa?

Dunque, pure montagna e natura hanno fallito e nella nuova ottica sportiva le disgrazie non sono più considerate inevitabili danni collaterali bensì fastidiosi quanto “evitabilissimi” difetti in un meccanismo che unisce ormai a filo doppio vacanza e danaro.

Giustifichiamo dunque la diminuzione degli alpinisti che salgono le vie classiche con la mancanza su di esse di adeguate e moderne attrezzature; assistiamo alla proliferazione delle vie ferrate di vetta e di valle, alla sponsorizzazione di richiodature, a segnaletiche esagerate, alla plurinformazione su vie e itinerari escursionistici, alla caccia all'ultimo itinerario selvaggio per poterlo domare con funi e scalette; assistiamo alle cause civili e penali che pretendono di fare giustizia là dove ci sono stati solo errori. E così ai ristoranti girevoli in quota o al golf sul ghiacciaio della Marmolada si aggiunge la graduale e spietata convinzione che tutto prima o poi sarà finalmente innocuo, depurato e confezionato. Si potrà scendere e salire ovunque su ogni metro quadro di roccia, con gli sci, a piedi, d'inverno, su neve che non è più neve, in inverni che non sono più inverni. E per di più avendo rinunciato a quella parola, di cui si è abusato quanto si vuole, Avventura.

Di fronte a questo scenario c'è chi si ritrae spaventato e che si chiede se non stiamo sbagliando qualcosa. Da una parte sappiamo che è giusto aver abbandonato rassegnazione a sventure e fatalismo: qui nessuno deve e neppure può tornare indietro. Dall'altra assistiamo sbigottiti ad una serie di tragici incidenti. Come il passaggio, da una circolazione automobilistica su strade strette e pericolose, allo scorrimento su larghe e moderne autostrade e superstrade munite di guardrail non ha rallentato il tasso d'incidenti, così, come prima, la gente cade dai sentieri, viene colpita dai sassi sulle vie ferrate, perde l'appiglio su una via di montagna o viene seppellita da una valanga in una gita di scialpinismo, più spesso in assenza di guide alpine, ma talvolta CON le guide alpine.

Permettetemi a questo punto di dire, sommessamente, un mio parere personale. Quelle del gioco, dell'avventura no limit o più semplicemente dello sport, sono dimensioni che fanno a pugni con quell'umiltà che dovremmo avere nei confronti della montagna e quindi del possibile pericolo. Questa, sempre a mio parere, è l'unica dimensione di cui, dai primi tempi, si è fatta interprete e maestra la figura della guida alpina.

Un tempo si diceva che le guide erano rozze e ignoranti e accompagnavano clienti di estrazione nobile o alto-borghese, quindi colti. Il cliente portava alla guida l'idea alpinistica della via nuova o della nuova impresa, la guida eseguiva da capocordata. Dunque, grossolanamente, “teoria” del cliente e “pratica” della guida. E certe cordate famose davvero mettevano in atto quest'alleanza. Ciò che invece raramente fu detto a proposito è che la guida era ancora legata al sano “sentire” la montagna, e proprio la sua istintualità (unitamente alla sua forza fisica) riusciva a destreggiarsi nel contesto della prova: così riusciva a portare al successo e anche alla sopravvivenza la cordata, nonostante la sua pretesa ignoranza. Il “sapere” vero era questo sentire che oggi si è perso in gran parte, sostituito dalla cultura, dalle nozioni di storia e geografia, dalle attrezzature fisse, dalla fiducia nel manuale e nel catalogo delle attrezzature sportive, ma soprattutto dall'ottimismo della messa in sicurezza.

Personalmente credo che la causa degli incidenti sia più da ricercare nel nostro disequilibrio interiore e nella mancanza di relazione con l'ambiente esterno: vogliamo tutto e subito, in quel weekend. Ci sono dei programmi da rispettare. E in questa trappola cadiamo quasi tutti, anche le guide stesse che talvolta sono costrette ad assecondare il cliente e il fatto che questo ha pagato. Vi ricordate l'Everest 1996 e le tragedie dovute all'insistenza dei clienti e alla debolezza delle guide? Allora non c'erano le condizioni per una relazione corretta con la montagna, è evidente. Ma qualcosa di simile capita anche oggi e qui. Una montagna vissuta più come sfondo alle nostre prodezze o al nostro puro divertimento piuttosto che come reale e potente, davvero potente, partner della nostra natura interiore.

A mio parere, l'escalation di misure e attrezzature di sicurezza non fa che allontanare ciò di cui abbiamo più bisogno e che temiamo di dover affrontare per via della fatica necessaria: la vera sicurezza che nasce dentro di noi nella contemplazione della nostra stessa serenità. Forse il compito più difficile, l'unica scuola in cui è davvero difficile diplomarsi. Se le guide alpine riconoscessero davvero questa necessità e cercassero di metterne in pratica il profondo insegnamento, farebbero un sano ritorno al passato ricchi però anche dell'enorme bagaglio dell'esperienza moderna: e sarebbe il professionismo più onesto e più ricco di potenzialità.

 

Intervento alla Prima Conferenza Stampa delleGuide Alpine Italiane
Circolo della Stampa, Milano 8 aprile 2003

© aprile 2003 intraisass

g.a.ALessandro Gogna

 

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