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A pensarci bene, nella mia memoria, la Laga si identifica con i
suoi torrenti ancor prima che con le sue cime. Da bambino, durante le
prime estati trascorse a Cornillo Nuovo, fremevo dalla voglia di
raggiungere la vetta di Cima Lepri. Ma i miei, il giorno della grande
escursione, puntualmente mi lasciavano a casa. «Troppo faticoso»,
dicevano; e al ritorno: «Fortuna che non ti abbiamo portato!, che ripido!,
che sassi!, che sole!, che sete!...». Che palle! Eppure, mentre continuavo
a sognare le grandi cime, senza rendermene conto vivevo la più bella
avventura che un ragazzino potesse desiderare: l'esplorazione.
Si partiva presto, mio padre ed io, soli; nello zainetto di tela - lo
conservo ancora, tutto sdrucito - la “polpetta” antivipera, due panini e i
gessetti colorati raccomandati da mamma: «Ogni tanto fate un segno, così
non vi perdete».
La conca di Amatrice è la terra di origine della famiglia di mia madre, ma
mio padre era nuovo del posto: i sentieri li scoprivamo cartina alla mano
e, in caso d'incertezza, si tirava fuori la bussola. Così la nostra più
grande avventura la vivemmo quando, per sbaglio, imboccammo un grosso
tratturo non segnalato sulla carta e perdemmo l'orientamento. E il bosco
era il più bello che avessi mai visto, cosparso di enormi massi sui quali
ogni tanto facevo qualche segno con i gessetti. Alcuni presentavano delle
bizzarre cavità, a volte tanto grandi da poterci entrare dentro. Allora,
accanto ai buchi, scrivevo “Rifugio”.
Arrivati ad un chiassoso torrente, l'errore di percorso fu chiaro. Saremmo
dovuti tornare indietro, ma l'acqua, svelta e allegra, era troppo
invitante e decidemmo di seguirla. Si saltava da un sasso all'altro, e a
un certo punto fummo anche costretti a traversare arrampicando sul bordo
di una larga vasca. Poi, lungo un canalino ripido e sassoso, risalimmo una
propaggine che il torrente aggirava con una serie di grandi e spumeggianti
cascate. Sull'altro lato, il bosco era ormai finito e il greto, ora
pianeggiante, era luminoso e pieno di grandi fiori bianchi e gialli. Poco
oltre, dove nuove cascate sbarravano il percorso, riconoscemmo il nostro
sentiero. A malincuore, lasciato il Fosso di Selva Grande, ci incamminammo
lungo l'antica mulattiera.
Allo stazzo della Pacina però mi attendevano ancora emozionanti scoperte;
accanto alla sorgente dove bevvi l'acqua più leggera del mondo, era
disteso un gran cumulo di pietre dal quale, direttamente verso il cielo,
si innalzava un orrido e fantastico canalone che, ancora bianco di neve,
saliva fino in vetta a quota 2283. La cima fu prontamente battezzata
"Monte Spaccato".
Ancora alcuni faggi nodosi e secolari, più volte spezzati dai fulmini e...
i ricordi svaniscono in una nebbia simile a quella che dopo il temporale
sale lungo i canaloni e avvolge dolcemente le cime più alte.
Innumerevoli volte sono tornato a Selva Grande. Per i funghi, i mirtilli,
le faggete dimenticate e la neve nei canali; per salire al Gorzano in una
notte di plenilunio o semplicemente per vedere se è veramente forte,
quando soffia davvero, il vento a Colle del Vento... e poi, ovviamente,
per l'acqua. Per quella irruente delle cascate in piena allo sciogliersi
delle nevi o quella che, limpida e tranquilla ma pur sempre freddissima,
riposa nelle vasche di pietra viva; per quella che d'inverno gela e
solidifica in forme cristalline, gioia degli occhi e dei ramponi, e anche
per quella che ormai non c'è più, giù nella gola silenziosa, perché se l'è
presa l'Enel, e a noi non rimane altro da fare che immaginarla libera e
impetuosa, tonante come doveva essere un tempo.
E’ durata anni l'esplorazione dell'alveo, un pezzetto alla volta, senza
fretta. Infine, quando ogni tratto fu noto, venne il momento di riordinare
le idee, di ricomporre ogni frammento in un mosaico unico.
Si scendeva senza fatica lungo il nastro trasparente che divide gli umidi
boschi della Pacina dai pendii aspri e spogli della Solagna. In un
caleidoscopio di verdi dalle mille tonalità, da quello smagliante dei
prati al sole a quello cupo dei tassi affacciato dalle rupi, seguivamo
l'acqua correre schietta in un ruscello, ruzzolare saltando da un gradino
all'altro di una ciclopica scala scolpita nel tufo, scivolare svelta e
schizzare all'improvviso nel vuoto tuffandosi nel profondo di un'ampia
pozza. Poi, quando le possibili variazioni sul tema sembravano ormai
esaurite, il colpo di scena: il greto del torrente, quasi rinnegando se
stesso, barattava la sua ruvida anima di grigia arenaria con una più
calcarea e alla moda, trasformandosi in una forra scura e fascinosa. La
attraversammo in un tempo indefinito, come risucchiati dal vortice di un
buco nero: dall'altra parte ci attendeva un mondo diverso. Le montagne si
erano allontanate e attorno a noi non si ergevano più i fusti diritti dei
faggi. Al loro posto una macchia bassa e ispida fronteggiava il giallo
della paglia e il bruno della terra arsa. Scomparso il leggero odore della
sabbia umida, nell'aria calda esalavano essenze aromatiche. Sotto un sole
impietoso, nel sudore e nella fatica di un interminabile tratto di arido
greto sassoso, si stemperavano le emozioni appena vissute.
Con Vincenzo, però, quella dalle sorgenti a Capricchia non fu solo una
magnifica escursione, ma anche uno strano viaggio nel tempo. Mentre
attraversavamo la montagna seguendo il fluire dell'acqua, tornavano alla
mente ricordi remoti e vicini e, in una continua dissolvenza, immagini ed
emozioni ora chiare e distinte ora appena intuite. Alla fine, più forte
che mai, la sensazione di aver esplorato non uno ma cento fossi di Selva
Grande.
Non è facile farsi un'idea unitaria di un torrente così vario, specie dopo
averlo osservato con occhi sempre diversi, provando - ogni volta con animo
differente - emozioni che non abitano più quell'alveo, ma solo la memoria.
Ritrovare il torrente che tanto mi entusiasmò in un'età in cui era più
facile meravigliarsi non è possibile; l'ho cercato ingenuamente, ma al suo
posto ce n'era un altro, nemmeno tanto somigliante. Anche l'ingresso della
gola la prima volta era diverso, ho controllato le diapositive. Certo, la
luce non è mai la stessa, e chi fotografa sa cosa vuol dire, ma... Non si
era sicuri di cosa ci fosse laggiù in fondo: dal sentiero non si capiva
bene, si intuiva solo, e quando finalmente fummo sull'orlo del primo salto
del canyon, dinnanzi a quel vuoto così attraente, quale luce avrebbe
potuto rendere il luogo più entusiasmante?
D'altra parte è anche vero che nel tempo il fosso cambia e che qualche
sorpresa la riserva sempre. La pozza dove tante volte ti sei tuffato un
giorno scompare cancellata da una piena; l'acqua ferma e limpida in cui si
specchiano argentee le placche levigate della forra, un'estate la trovi
inspiegabilmente torbida e limacciosa. E può anche sorgere il dubbio che
non si tratti del solito torrente quando il cielo di luglio scompare
occultato dalla volta di un'inattesa galleria di ghiaccio rilucente.
Così, in fin dei conti, non stupisce più di tanto l'assenza dell'acqua
proprio lì dove dovrebbe essere più abbondante, anche se questa volta non
è colpa di una natura un po' bizzarra, ma solo dell'invadenza dell'homo
energeticus. Un'invadenza e un'arroganza così naturali per la
mentalità occidentale, che a Capricchia c'è ancora qualcuno che
innocentemente si interroga sul perché e sul come mai un giorno non si sia
più vista quella maestosa coppia di aquile reali che aveva il nido accanto
alla cascata del Fosso della Corva. Eppure per anni i grandi rapaci erano
stati così puntuali all'incontro con le gesta ormai mitiche di un glorioso
montanaro che, arrampicandosi a piedi nudi su quella pietra terrificante,
regolarmente ogni anno ne razziava la prole...
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