Lo scalatore e la cantante

 

di Massimo Bursi

 

Condividevo con altri scalatori una malga, abbandonata e diroccata, situata in un prato nelle vicinanze del Passo Pordoi.
La ‘baracca’, così la chiamavamo affettuosamente, era la base d'appoggio ideale per le nostre scorribande in Val di Fassa, in Val Gardena, in Marmolada ed ogni altro magnifico posto che potessimo raggiungere con le nostre scassatissime auto.
Probabilmente la baracca era sorta come luogo di raccolta degli attrezzi o del fieno ma comunque successivamente fu abbandonata; noi l'abbiamo resa abitabile anche se, a onor di cronaca, gli scalatori hanno un concetto molto blando di abitabilità. Ai primi soggiorni ero rimasto impressionato dalla dura vita: mancanza di servizi, mancanza di una cucina e soprattutto spifferi abbondantissimi favoriti dalle assi di legno non propriamente adiacenti. Ma con pochi teli di nylon anche il posto più inospitale diventa accogliente quando fuori spazza un vento infernale.

La baracca era situata in un posto strategico: Sass Pordoi, Gruppo del Sella, Sassolungo e Marmolada erano le mete abituali dove eravamo soliti andare. Altre volte invece ci spostavamo: Civetta e Tofane, oppure Catinaccio solo per citare i posti più famosi...
Ricordo che quando pioveva le serate scorrevano lente; se c'era il solito gruppo di amici, qualcuno giocava a carte, altri tra cui io, consultavamo riviste, cartine geografiche e guide alpinistiche che ormai conoscevamo a memoria.
Bastava evocare un nome, Vinatzer ad esempio, che subito tutti, anche chi giocava a carte, come in una litania, snocciolava gli itinerari che avevano a che fare con Vinatzer. Spesso sorseggiavamo vino o birra, spesso cominciavamo a tagliare un salamino di quelli piccanti. Ogni tanto qualcuno usciva, sotto la tettoia, per osservare il tempo atmosferico.

Io continuavo a consultare la guida soffermandomi sulle pagine consunte della relazione del diedro Philipp - Flamm in Civetta o della via Tempi Moderni in Marmolada. Osservando quei begli schizzi provavo ad immaginare alcune lunghezze di corda: rimanevo sempre colpito da quel tiro da superare in dülfer su un'esile rigola di Tempi Moderni, un tiro solo di VI ma senza possibilità di mettere chiodi o friend (che delusione quando verificai che la rigola, imbottita di spit, era diventata un gioco da ragazzi).
Comunque dopo un po' mi crollava il sonno addosso e mi trascinavo a letto. Chiuso nel mio sacco a pelo sentivo le tavole del pavimento scricchiolare quando i miei amici si alzavano a camminare e vedevo le luci dell'unico locale centrale riflettersi in maniera spaventosa sulle pareti di legno che separavano il camerone dal soggiorno.
Prima di dormire pensavo sempre alle grandi montagne dell'Hymalaya, ai grandi ghiacciai, agli immensi spazi, non antropizzati di quelle regioni orientali e desideravo ardentemente andarvi, anche solo a camminare, vagare senza vincoli di tempo in spazi così estremamente diversi dalle Dolomiti, graziose, ma piccole e piene di gente. Mi piaceva pensare queste cose prima di addormentarmi, anzi questi pensieri, queste idee mi rilassavano e coltivavo sempre la segreta speranza di avere i milioni (quattro, cinque, venti... chissà) per poter passare là un lungo periodo.

Mi consideravo fortunato avere una baracca da sfruttare come campo base per le mie campagne dolomitiche, un luogo da poter dividere con gli altri compagni di cordata, ragazzi che come me intendevano passare cinque, sei mesi in montagna per poi trasferirsi d'inverno sulle montagne venete minori a lavorare in cooperative di disgaggio.
Era bello, dopo una serata trascorsa così piacevolmente, alzarsi e accorgersi del miracolo di una giornata tersa, senza una nuvola: velocemente si formano le cordate, con alleanze e rivalità, sottili o dichiarate, e si va.
Altre a volte, invece, chiuso nell'intimità del mio sacco a pelo, pensavo con un po' di apprensione alla scalata del giorno successivo quando sapevo che forse si sarebbe bivaccato o forse avremmo schivato il bivacco arrampicando, camminando no-stop per tante ore fino a notte.
Poiché non si può sempre arrampicare, spesso andavamo a camminare: ci inoltravamo nei luoghi più reconditi, nelle valli più inospitali con la segreta speranza di trovare una parete, una montagna bella esteticamente e possibilmente non ancora salita da nessuno.

In piena estate turistica, spesso alla sera scendevamo nei paesi dove sapevamo esserci feste campagnole: un po' di birra, musica e possibilità di incontrare conoscenti erano gli ingredienti che ci facevano muovere dalla baracca. In realtà queste feste erano momenti organizzati appositamente per i turisti ma non percepivo l'artificialità della festa e lo sforzo per far convivere etnie profondamente diverse: i montanari ed i cittadini.
Durante una festa di fine estate, in settembre, ad Ortisei, c'era una giovane band che suonava canzoni che non si potevano non conoscere: Dio è morto, Auschwitz, Pablo è vivo e Sound of Silence... Il pubblico si univa in coro nel cantare queste canzoni che tante volte abbiamo cantato in gruppo, sul pullman durante le gite scolastiche, la sera davanti ad un fuoco con gli amici, con gli scout.
In realtà la band era costituita da una ragazza che cantava, suonava la chitarra e coordinava altri tre ragazzi che suonavano gli altri strumenti: batteria, tastiera e chitarra elettrica.
Chiaramente noi eravamo abbastanza catalizzati da questa sorta di Joan Baez: capelli lunghi, vestiti stile anni '70 e sguardo molto simpatico, del tipo “scusatemi se sono qui a vendermi per quattro soldi, ma devo vivere anch'io!”.

In quel periodo io vivevo con questo gruppo di amici ma tutto sommato vivevo solo perché ciascuno si chiudeva a riccio nella propria sfera sentimentale: in fin dei conti avevamo deciso di vivere così perché ci interessava vivere e scalare, ma inevitabilmente il vuoto interiore, la mancanza di una relazione fissa, di un punto di riferimento costante, di una casa lo sentivamo e lo si vedeva dalla nostra vita, dai nostri atteggiamenti un po' squilibrati.
Mi sarebbe piaciuto frequentare una ragazza ma avrei voluto continuare a vivere in montagna, anzi in ‘baracca’, per sei mesi l'anno, non volevo chiudermi in casa o dover trovare un lavoro per coltivare il mio amore: in realtà le ragazze che avevo conosciuto fino allora non intendevano la vita in modo così avventuroso come piaceva a me!
Amavo sorseggiare un bel boccale di birra e ascoltare queste canzoni che ormai facevano parte del mio stile di vita, soprattutto mi piaceva star lì ad osservare quella ragazza: tutti giorni vedevo pietre inanimate e vivevo con questa tribù di ragazzi molto simpatici, ma erano pur sempre ragazzi e non ragazze.

In quei giorni avevo in ballo una impegnativa scalata nel gruppo del Sassolungo: avevo trovato un'interessantissima linea di salita che intendevo percorrere. Volevo cercare un compagno che facesse suo il problema ma soprattutto una persona che desiderasse una soluzione pulita: pochi chiodi, nessun chiodo a pressione, un' apertura tutta in un'unica soluzione senza tentativi, senza corde fisse e senza tentennamenti.
Proprio per tutti questi motivi non riuscivo a decidermi, avevo paura di rovinare questa possibilità nel magnifico e ancora selvaggio gruppo del Sassolungo, e pensare che sarebbe bastato andare in Marmolada con un sacchetto di spit e aprire, a forza di tentativi e di voli, l'ennesimo itinerario uguale a molti altri: la popolarità sarebbe assicurata, il rischio molto basso e soprattutto avrei mantenuto la possibilità di calarmi al rifugio Falier ogni volta che lo avrei desiderato.
Cullato da questi bei pensieri osservavo trasognato la ragazza ‘zingara’ cantare: mi piaceva pensare ai suoi sentimenti, alle sue aspirazioni. Altro che vie in roccia, lei avrà immaginato di incidere un disco, e se io sognavo l'America per andare in Yosemite Valley lei invece avrà sognato l'America sperando di approdare a New Orleans, il regno del blues e del jazz nero. Ammetto che facevo un po' di fatica ad immaginare una ragazza che desiderasse qualcosa che fosse diverso dall'arrampicata.
Avevo come l'impressione che Jenny, questo era il suo nome d'arte scritto su un tamburo, mi guardasse quando cantava i suoi pezzi più coinvolgenti, eppure so che non era vero, non era possibile: quando sei sul palco guardi giù ma non osservi nulla, e anche se volessi, con le luci abbaglianti negli occhi, proprio non potresti...
E poi terminato il concerto, di notte si tornava in baracca. Tutto sommato, pur volendo sfuggire alla società e alle sue usanze, non disdegnavamo qualche bella serata all'insegna del consumismo più spinto: un gelato enorme, un cartoccio di patatine fritte, caramelle e qualsiasi altro stuzzichino che desideravamo; in fondo era tutto lì a portata di mano, bastava sganciare qualche banconota per avere a disposizione tutto il proibito che in baracca era impensabile.

Infine una sera di settembre, una di quelle malinconiche serene notti dolomitiche che sono un preludio all'autunno, una sera in cui ci si ritrova in pochi abitanti stanziali, pochi forestieri, ... una sera, terminato il concerto, la conobbi.
Parlammo del più e del meno e la mia solita loquacità mi lasciò a metà strada, io parlavo del mio mondo, delle mie sensazioni, del bagno di natura in cui mi immergevo d'estate e lei parlava del mondo delle note musicali e parlava di cose che non capivo. Ma ciò non era importante, quello che invece mi colpiva era sentirla vibrare quando parlava della sua musica e delle sue canzoni. In fin dei conti non eravamo molto diversi, avevamo un interesse che ci occupava i pensieri e il nostro tempo, e, semplicemente, questo interesse era completamente differente.

Quel ‘mitico’ settembre aprii la via a cui tenevo fortemente: non so dire se era difficile o semplice, bella o brutta, so solo che Silvio ed io la aprimmo di corsa alternando lunghezze di corda friabili ad eccellenti tiri in placca e quando chiedevo a Silvio se voleva procedere come capocordata lui mi rispondeva di andare avanti io visto che era il mio momento di grazia da sfruttare fino in fondo...
A distanza di tempo di quella fantastica avventura rimangono alcune fotografie, un po' bruttine e male inquadrate, dove compaio in mezzo ad un mare di corde. Inevitabilmente la chiamammo via Jenny ma ancora oggi non so se lei abbia apprezzato o meno tale omaggio; il massimo comunque che uno scalatore possa offrire al gentil sesso.

Ora Chiara, mia moglie, quando vede i nostri due bambini arrampicarsi con foga fra cuscini e divani mi guarda compiaciuta e ripensa a quando lei era Jenny ed io quel ragazzo un po' insolito che passava la bella stagione in baracca per essere più vicino alle pareti dolomitiche.

 

<Verona, 2000>
© gennaio 2003 intraisass  

Massimo Bursi

 

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