Condividevo con altri scalatori una malga, abbandonata e
diroccata, situata in un prato nelle vicinanze del Passo Pordoi.
La ‘baracca’, così la chiamavamo affettuosamente, era la base d'appoggio
ideale per le nostre scorribande in Val di Fassa, in Val Gardena, in
Marmolada ed ogni altro magnifico posto che potessimo raggiungere con le
nostre scassatissime auto.
Probabilmente la baracca era sorta come luogo di raccolta degli attrezzi o
del fieno ma comunque successivamente fu abbandonata; noi l'abbiamo resa
abitabile anche se, a onor di cronaca, gli scalatori hanno un concetto
molto blando di abitabilità. Ai primi soggiorni ero rimasto impressionato
dalla dura vita: mancanza di servizi, mancanza di una cucina e soprattutto
spifferi abbondantissimi favoriti dalle assi di legno non propriamente
adiacenti. Ma con pochi teli di nylon anche il posto più inospitale
diventa accogliente quando fuori spazza un vento infernale.
La baracca era situata in un posto strategico: Sass
Pordoi, Gruppo del Sella, Sassolungo e Marmolada erano le mete abituali
dove eravamo soliti andare. Altre volte invece ci spostavamo: Civetta e
Tofane, oppure Catinaccio solo per citare i posti più famosi...
Ricordo che quando pioveva le serate scorrevano lente; se c'era il solito
gruppo di amici, qualcuno giocava a carte, altri tra cui io, consultavamo
riviste, cartine geografiche e guide alpinistiche che ormai conoscevamo a
memoria.
Bastava evocare un nome, Vinatzer ad esempio, che subito tutti, anche chi
giocava a carte, come in una litania, snocciolava gli itinerari che
avevano a che fare con Vinatzer. Spesso sorseggiavamo vino o birra, spesso
cominciavamo a tagliare un salamino di quelli piccanti. Ogni tanto
qualcuno usciva, sotto la tettoia, per osservare il tempo atmosferico.
Io continuavo a consultare la guida soffermandomi sulle
pagine consunte della relazione del diedro Philipp - Flamm in Civetta o
della via Tempi Moderni in Marmolada. Osservando quei begli schizzi
provavo ad immaginare alcune lunghezze di corda: rimanevo sempre colpito
da quel tiro da superare in dülfer su un'esile rigola di Tempi Moderni, un
tiro solo di VI ma senza possibilità di mettere chiodi o friend (che
delusione quando verificai che la rigola, imbottita di spit, era diventata
un gioco da ragazzi).
Comunque dopo un po' mi crollava il sonno addosso e mi trascinavo a letto.
Chiuso nel mio sacco a pelo sentivo le tavole del pavimento scricchiolare
quando i miei amici si alzavano a camminare e vedevo le luci dell'unico
locale centrale riflettersi in maniera spaventosa sulle pareti di legno
che separavano il camerone dal soggiorno.
Prima di dormire pensavo sempre alle grandi montagne dell'Hymalaya, ai
grandi ghiacciai, agli immensi spazi, non antropizzati di quelle regioni
orientali e desideravo ardentemente andarvi, anche solo a camminare,
vagare senza vincoli di tempo in spazi così estremamente diversi dalle
Dolomiti, graziose, ma piccole e piene di gente. Mi piaceva pensare queste
cose prima di addormentarmi, anzi questi pensieri, queste idee mi
rilassavano e coltivavo sempre la segreta speranza di avere i milioni
(quattro, cinque, venti... chissà) per poter passare là un lungo periodo.
Mi consideravo fortunato avere una baracca da sfruttare
come campo base per le mie campagne dolomitiche, un luogo da poter
dividere con gli altri compagni di cordata, ragazzi che come me
intendevano passare cinque, sei mesi in montagna per poi trasferirsi
d'inverno sulle montagne venete minori a lavorare in cooperative di
disgaggio.
Era bello, dopo una serata trascorsa così piacevolmente, alzarsi e
accorgersi del miracolo di una giornata tersa, senza una nuvola:
velocemente si formano le cordate, con alleanze e rivalità, sottili o
dichiarate, e si va.
Altre a volte, invece, chiuso nell'intimità del mio sacco a pelo, pensavo
con un po' di apprensione alla scalata del giorno successivo quando sapevo
che forse si sarebbe bivaccato o forse avremmo schivato il bivacco
arrampicando, camminando no-stop per tante ore fino a notte.
Poiché non si può sempre arrampicare, spesso andavamo a camminare: ci
inoltravamo nei luoghi più reconditi, nelle valli più inospitali con la
segreta speranza di trovare una parete, una montagna bella esteticamente e
possibilmente non ancora salita da nessuno.
In piena estate turistica, spesso alla sera scendevamo nei
paesi dove sapevamo esserci feste campagnole: un po' di birra, musica e
possibilità di incontrare conoscenti erano gli ingredienti che ci facevano
muovere dalla baracca. In realtà queste feste erano momenti organizzati
appositamente per i turisti ma non percepivo l'artificialità della festa e
lo sforzo per far convivere etnie profondamente diverse: i montanari ed i
cittadini.
Durante una festa di fine estate, in settembre, ad Ortisei, c'era una
giovane band che suonava canzoni che non si potevano non conoscere: Dio è
morto, Auschwitz, Pablo è vivo e Sound of Silence... Il pubblico si univa
in coro nel cantare queste canzoni che tante volte abbiamo cantato in
gruppo, sul pullman durante le gite scolastiche, la sera davanti ad un
fuoco con gli amici, con gli scout.
In realtà la band era costituita da una ragazza che cantava, suonava la
chitarra e coordinava altri tre ragazzi che suonavano gli altri strumenti:
batteria, tastiera e chitarra elettrica.
Chiaramente noi eravamo abbastanza catalizzati da questa sorta di Joan
Baez: capelli lunghi, vestiti stile anni '70 e sguardo molto simpatico,
del tipo “scusatemi se sono qui a vendermi per quattro soldi, ma devo
vivere anch'io!”.
In quel periodo io vivevo con questo gruppo di amici ma
tutto sommato vivevo solo perché ciascuno si chiudeva a riccio nella
propria sfera sentimentale: in fin dei conti avevamo deciso di vivere così
perché ci interessava vivere e scalare, ma inevitabilmente il vuoto
interiore, la mancanza di una relazione fissa, di un punto di riferimento
costante, di una casa lo sentivamo e lo si vedeva dalla nostra vita, dai
nostri atteggiamenti un po' squilibrati.
Mi sarebbe piaciuto frequentare una ragazza ma avrei voluto continuare a
vivere in montagna, anzi in ‘baracca’, per sei mesi l'anno, non volevo
chiudermi in casa o dover trovare un lavoro per coltivare il mio amore: in
realtà le ragazze che avevo conosciuto fino allora non intendevano la vita
in modo così avventuroso come piaceva a me!
Amavo sorseggiare un bel boccale di birra e ascoltare queste canzoni che
ormai facevano parte del mio stile di vita, soprattutto mi piaceva star lì
ad osservare quella ragazza: tutti giorni vedevo pietre inanimate e vivevo
con questa tribù di ragazzi molto simpatici, ma erano pur sempre ragazzi e
non ragazze.
In quei giorni avevo in ballo una impegnativa scalata nel
gruppo del Sassolungo: avevo trovato un'interessantissima linea di salita
che intendevo percorrere. Volevo cercare un compagno che facesse suo il
problema ma soprattutto una persona che desiderasse una soluzione pulita:
pochi chiodi, nessun chiodo a pressione, un' apertura tutta in un'unica
soluzione senza tentativi, senza corde fisse e senza tentennamenti.
Proprio per tutti questi motivi non riuscivo a decidermi, avevo paura di
rovinare questa possibilità nel magnifico e ancora selvaggio gruppo del
Sassolungo, e pensare che sarebbe bastato andare in Marmolada con un
sacchetto di spit e aprire, a forza di tentativi e di voli, l'ennesimo
itinerario uguale a molti altri: la popolarità sarebbe assicurata, il
rischio molto basso e soprattutto avrei mantenuto la possibilità di
calarmi al rifugio Falier ogni volta che lo avrei desiderato.
Cullato da questi bei pensieri osservavo trasognato la ragazza ‘zingara’
cantare: mi piaceva pensare ai suoi sentimenti, alle sue aspirazioni.
Altro che vie in roccia, lei avrà immaginato di incidere un disco, e se io
sognavo l'America per andare in Yosemite Valley lei invece avrà sognato
l'America sperando di approdare a New Orleans, il regno del blues e del
jazz nero. Ammetto che facevo un po' di fatica ad immaginare una ragazza
che desiderasse qualcosa che fosse diverso dall'arrampicata.
Avevo come l'impressione che Jenny, questo era il suo nome d'arte scritto
su un tamburo, mi guardasse quando cantava i suoi pezzi più coinvolgenti,
eppure so che non era vero, non era possibile: quando sei sul palco guardi
giù ma non osservi nulla, e anche se volessi, con le luci abbaglianti
negli occhi, proprio non potresti...
E poi terminato il concerto, di notte si tornava in baracca. Tutto
sommato, pur volendo sfuggire alla società e alle sue usanze, non
disdegnavamo qualche bella serata all'insegna del consumismo più spinto:
un gelato enorme, un cartoccio di patatine fritte, caramelle e qualsiasi
altro stuzzichino che desideravamo; in fondo era tutto lì a portata di
mano, bastava sganciare qualche banconota per avere a disposizione tutto
il proibito che in baracca era impensabile.
Infine una sera di settembre, una di quelle malinconiche
serene notti dolomitiche che sono un preludio all'autunno, una sera in cui
ci si ritrova in pochi abitanti stanziali, pochi forestieri, ... una sera,
terminato il concerto, la conobbi.
Parlammo del più e del meno e la mia solita loquacità mi lasciò a metà
strada, io parlavo del mio mondo, delle mie sensazioni, del bagno di
natura in cui mi immergevo d'estate e lei parlava del mondo delle note
musicali e parlava di cose che non capivo. Ma ciò non era importante,
quello che invece mi colpiva era sentirla vibrare quando parlava della sua
musica e delle sue canzoni. In fin dei conti non eravamo molto diversi,
avevamo un interesse che ci occupava i pensieri e il nostro tempo, e,
semplicemente, questo interesse era completamente differente.
Quel ‘mitico’ settembre aprii la via a cui tenevo
fortemente: non so dire se era difficile o semplice, bella o brutta, so
solo che Silvio ed io la aprimmo di corsa alternando lunghezze di corda
friabili ad eccellenti tiri in placca e quando chiedevo a Silvio se voleva
procedere come capocordata lui mi rispondeva di andare avanti io visto che
era il mio momento di grazia da sfruttare fino in fondo...
A distanza di tempo di quella fantastica avventura rimangono alcune
fotografie, un po' bruttine e male inquadrate, dove compaio in mezzo ad un
mare di corde. Inevitabilmente la chiamammo via Jenny ma ancora oggi non
so se lei abbia apprezzato o meno tale omaggio; il massimo comunque che
uno scalatore possa offrire al gentil sesso.
Ora Chiara, mia moglie, quando vede i nostri due bambini
arrampicarsi con foga fra cuscini e divani mi guarda compiaciuta e ripensa
a quando lei era Jenny ed io quel ragazzo un po' insolito che passava la
bella stagione in baracca per essere più vicino alle pareti dolomitiche.