In alta Valtellina, anzi in Valfurva, al passo del Gavia
(2400 metri), presso un laghetto, un crocefisso con una iscrizione in
bronzo ricorda una vicenda quasi miracolosa con queste parole.
«In una gita in automobile da Bormio a Tonale si smarrirono il 2
ottobre 1929 Andrea Rupprechter, albergatore di Land-Kufsten Tyrolo, con
sua madre 72 anni, e la consorte Mizzi Rupprechter, condotti dalla
chauffeur Karl Mühlferner.
Avvolti in impenetrabili nuvole di nebbia, condannati a continuare la
strada tra la morte e la rovina raggiunsero con il volore di Dio dopo ore
di supplizio per il passo del Gavia il luogo Ponte di Legno.
Jn onore di Dio ed inestinguibile riconoscenza per la salvezza da pericolo
e morte eressero questa croce dal legno della patria.
Viantante, che passi per questa strada, pensa alla grazia di Dio e prega
un “pater noster”».
In una sera dell'agosto 2000, la famiglia milanese Demagistris era
davanti al crocefisso. I due ragazzi, Lucia di quattordici anni e
Davide di tredici erano stanchi ed un po' annoiati, la madre Giulietta
pensava ai propri lunghi trasferimenti in auto di un quarto di secolo
prima, attraverso l'Europa. Il padre Livio sorrise agli errori di
ortografia perdonabili ad un tipografo forse tirolese e sembrava voler
dire qualcosa, ma preferì tacere: si stava alzando il vento serale, ed era
meglio rientrare rapidamente al rifugio Berni, poche centinaia di metri
sotto il passo del Gavia, per la cena ed il pernotto.
Il rifugio del Gavia, così a ridosso dell'asfalto, ha poco del rifugio e
molto invece dell'alberghetto o addirittura del bar per la clientela di
passaggio, che va verso la Valfurva: molti automobilisti e motociclisti si
concedono una sosta ed una birra, ma pochi si fermano a dormire.
Tra i pochi appunto la famiglia Demagistris, che passava le vacanze nella
Valtellina di Sondrio e voleva fare qualche escursione in zona.
Nel confortevole rifugio, dopo cena, Davide osservava le fotografie di
un epico giro d'Italia, quello del 1980 che si trovò a transitare per il
passo Gavia in giugno, in una tempesta di neve che imbiancava la maglia
rosa. Lucia e Giulietta giocavano allegramente con il piccolo Matteo, il
bimbo di due anni che portava il nome del nonno, gestore del Rifugio,
guida emerita, taciturno ma buon cuoco. Livio aveva trovato un libro sulla
Guerra Bianca, le vicende che nel 1915-1918 avevano opposto su quelle cime
gli alpini del Battaglione Sciatori del Monte Ortles ai Landschützen
austroungarici.
I soldati scavavano trincee nel ghiaccio a tremila metri, costruivano
posti di vedetta a trenta gradi sotto zero, issavano cannoni con le slitte
trainate da muli e cani. Come sull'Adamello, sulla Presolana, o sul
Castelletto nelle Dolomiti, così sul Tresero e sul San Matteo, sulla
Thurwieser o sul Königspitze (sulle carte italiane Gran Zebrù), uomini
fatti di carne attaccavano cime fatte di ghiaccio difese da altri esseri
umani, in una lotta oggi incomprensibile.
Ancora il ghiacciaio trattiene i corpi di uomini come il Capitano Arnaldo
Berni, eroe veronese cui è dedicato il rifugio del Gavia, o del serg.
magg. Caimi e del cap.le magg. Venturini, entrambi di Valfurva, tutti
caduti alla cima del San Matteo (3678 m), il 3 settembre 1918, nella più
alta battaglia della prima guerra mondiale. A distanza di oltre ottanta
anni i ghiacciai si sono ritirati, sull'Everest si è ritrovato il corpo di
Mallory, e in Alto Adige l'uomo di Similaun, ma molti alpini e
Ständschützen sono ancora custoditi dai ghiacci dell'Ortles.
Il giorno stesso i Demagistris erano saliti in Vallumbrina, una
vallecola che sfocia poco sotto il passo Gavia, erano passati vicini ai
resti del vecchio rifugio Gavia, situato poche decine di metri sotto la
strada, e che fu a suo tempo sede del comando del battaglione Ortler.
Avevano saputo che Carlo Maria Martini, il grande arcivescovo di Milano
ormai prossimo alla fine del suo magistero, passava lì qualche giorno di
vacanza, ed avevano sperato di incontrarlo. Sarebbe stato un incontro con
un uomo eccezionale in un ambiente eccezionale, ma due eccezioni raramente
convivono.
Risalendo pian piano la morena erano giunti alla baracca in legno della
Grande guerra, ristrutturata e mantenuta, che oggi viene chiamata Rifugio
Btg. Skiatori Monte Ortler, un nome altisonante per quello che è in realtà
un modesto bivacco incustodito.
Poco sopra la baracca ancora si trovano i camminamenti e i posti di
vedetta che consentivano agli alpini di controllare il Monte Mantello, il
Tre Signori ed i movimenti dell'imperial-regio esercito.
La gita era stata molto bella, il tempo splendido. Davide era salito
fino al piccolo altare con il crocefisso di ferro battuto che ricordava i
caduti della guerra, e ne aveva suonato la campana. Lucia aveva compilato
il libro del rifugio e scritto cartoline per le sue amiche milanesi.
Giulietta pensava a suo padre, capitano medaglia d'oro nella seconda
guerra mondiale, ed a suo nonno colonnello degli alpini nella prima, una
famiglia di soldati.
L'escursione li aveva un po' stancati, ed il giorno dopo volevano salire
al bivacco Seveso, a quota 3398 e magari in cima al Tresero, una vetta cui
prima di sposarsi Livio e Giulietta avevano puntato, come all'ultima del
celebre giro delle Tredici Cime, ma che non erano riusciti a raggiungere.
Livio e Giulietta erano appassionati escursionisti, ma quando potevano si
cimentavano sulle salite alpinistiche facili, cui avevano avviato anche i
due figli, per esempio salendo tutti e quattro il Cevedale ed il Pizzo
Scalino l'anno precedente.
Così dopo cena decisero di andare presto nei letti a castello della
stanza sotto-tetto del rifugio Berni. Prepararono gli zaini, con tutto il
necessario, abiti e viveri ed anche corda, piccozze e ramponi per il
ghiacciaio.
Nella notte i ragazzi dormirono come si conviene alla loro età, Giulietta
fu un po' infastidita dal russo di Livio, gli dette qualche scrollone per
farlo tacere, e Livio ebbe un dormiveglia, come gli capitava prima di una
ascensione che – se non difficile – meritava attenzione per la
composizione della cordata. Livio era stato due mesi prima con una
escursione del CAI quasi fino in cima al San Matteo, solo il brutto tempo
li aveva fatti desistere dall'obiettivo, ma aveva studiato il percorso per
il bivacco Seveso ed era convinto che fosse alla portata della sua
famiglia.
Nel dormiveglia Livio ebbe un sogno, così vivido che sembrava vero.
Sognò, anzi vide, l'auto della famiglia Rupprechter nella tormenta al
Passo del Gavia.
Vide la moglie e la vecchia che pregavano la Vergine Maria, il marito che
non sapeva che fare e lo chauffeur/meccanico – che nel sogno aveva il
volto di Peppone - che cercava di portarsi fuori dall'inferno bianco.
Poco a poco l'auto si fermò e sembrava non ci fosse più verso di
riavviarla. L'albergatore copriva le due donne oranti con una coperta,
mentre Peppone girava laicamente la manovella per riavviare l'automezzo. A
quel punto comparvero cinque uomini, in abito militare e con un mulo.
Grigi spettri nella tormenta, non parlavano, si intendevano a gesti. Due
di essi si avvicinarono all'auto, facendo rientrare l'autista e
rincuorando le donne, il terzo attaccò una fune alla balestra anteriore ed
il quarto ne legò l'altro capo al basto del mulo. Poi i tre spinsero
l'auto verso il passo, il quarto conduceva il mulo. Il quinto, un
ufficiale, in disparte, a cenni comandava ed approvava l'opera. Con la
forza dei soldati e del mulo l'auto raggiunse il passo, ed iniziò la
discesa verso Ponte di Legno, l'autista riuscì a far ripartire il motore,
ed anche il tempo sembrò migliorare.
I soldati salutarono militarmente i civili e rientrarono nella bufera come
fossero i vapori dei Bagni Vecchi di Bormio. Livio nel sogno li seguì, e
sentì che parlavano in tedesco, li riconobbe come Standschützen -
riservisti esperti delle montagne in cui venivano reclutati - di cui
aveva letto la sera prima.
Il giorno dopo si erano alzati “per tempissimo”, come raccomandano i
vecchi manuali di montagna, si erano caricati dei sacchi, ed avevano
cominciato risalire la valle. Alle dieci erano sulla neve, e fecero una
sosta ed uno spuntino. I ragazzi faticavano un poco a salire ed anche i
genitori, malgrado il buon allenamento, procedevano adagio per il peso
degli zaini. La giornata era limpidissima. Man mano che salivano la
visione si allargava alle cime circostanti.
Nessuno era sul sentiero né sulla pista e questo a Livio piaceva.
Procedevano però lentamente, forse i ragazzi non avevano ancora smaltito
la stanchezza del giorno precedente. Così si trovarono nella parte più
ripida del ghiacciaio, proprio sotto al bivacco Seveso che era già
mezzogiorno passato e la neve cominciava a farsi meno dura.
Livio formò la cordata, sapendo che sotto la neve c'erano i crepacci.
Pensando al ghiaccio sottostante alla neve, si mise i ramponi e li fece
mettere alla moglie ed ai ragazzi, operazione quest'ultima che chiese
parecchio tempo. La cordata procedeva con Livio in testa, seguito da
Lucia, Davide e poi Giulietta. Il padre procedeva con cautela, sondando
con la piccozza i crepacci, sapendo che se vi fosse caduto, difficilmente
gli altri avrebbero saputo recuperarlo. All'inizio della crestina rocciosa
sotto il bivacco si tolsero i ramponi, per muoversi meglio, ma anche
questo chiese tempo. Insomma quando giunsero al bivacco, erano ormai quasi
le due, ben più tardi del programma, ma tutto procedeva bene. A salire al
Tresero, manco a pensarci. In quello splendido balcone panoramico si
rifocillarono e fotografarono e riposarono e Lucia propose addirittura di
restare lì per la notte, a godersi il posto e la solitudine.
Era però molto meglio ritornare, anche perché dei nuvoloni si stavano
avvicinando dalla cima del San Matteo, ed i genitori temevano il maltempo
in quota. Livio decise di scendere per neve, anziché per roccia e senza
mettere i ramponi, sia per guadagnare in velocità sia perché parevano
ormai inutili nella neve molle. Divallarono rapidamente, ma più rapida di
loro divallava la nuvolaglia, che stava per inghiottirli. L'ordine della
cordata era ora inverso, prima scendeva Giulietta, seguita da Lucia e
Davide, con Livio in fondo per trattenere tutti in una eventuale caduta.
Furono infine nella parte crepacciata, Giulietta in testa passò un
crepaccio dove il ponte di neve era ormai fradicio e disse a Lucia di
seguirla. La ragazzina si impaurì e non voleva procedere, ma Livio la
rincuorò, dicendo di procedere carponi... fu un errore.
La ragazza fu ingoiata dal crepaccio per circa due metri, abbastanza da
scomparire dalla vista: solo una mano spuntava dalla bocca della montagna.
La madre la trattenne subito con la corda, ma questo le costò
un'escoriazione al collo. Lucia non riusciva però ad uscire, gli scarponi
disarmati dai ramponi non artigliavano il ghiaccio. Cominciò a piangere ed
implorare di non lasciarla lì, l'ultima cosa che i genitori avrebbero
fatto. Livio si dette dello stupido per non avere fatto mettere i ramponi
ed avere mal consigliato la figlia. I genitori cercarono di tirare la
ragazzina fuori dal crepaccio con la corda, ma Giulietta non ne aveva la
forza e Livio tirando da monte e con in mezzo Davide non riusciva ad
aiutare. Il padre si sorprese della calma lucida che lo prese, raggiunse
il ragazzo che piangeva: “Ora moriremo tutti”, piantò bene una piccozza e
lo assicurò ad essa, sibilando: “Ora non muore nessuno”. Non dubitava di
poter estrarre la figlia del crepaccio, ma più di ogni altra cosa temeva
di finirci dentro lui, con il suo peso. L'unica era mettersi i ramponi, ma
Giulietta non poteva farlo senza lasciare la corda. Livio aveva preso il
tratto di corda che andava da Davide a Lucia e pensava ad assicurare
entrambe le donne, temendo che le forze della moglie si esaurissero.
Il telefonino per chiamare il 118 era nello zaino della madre,
irraggiungibile quanto inutile: non avrebbe preso il segnale. Le nuvole
avevano ormai inghiottito la cordata impacciata, e la temperatura si era
molto abbassata.
Ma dalla nebbia uscì la salvezza: una cordata di quattro alpini in
addestramento sbucò dal nulla; scendevano forse dal Tresero: in testa il
sergente, evidentemente istruttore di alpinismo o addirittura Guida, a
giudicare dalla sicurezza con cui si muoveva, dietro tre soldati, tutti in
tuta bianca e con la penna nera. Giulietta e Livio non credevano ai propri
occhi: in tutto il giorno non avevano visto anima viva, ed ora questi
giungevano al momento del bisogno. Giulietta si chiese come il marito si
sarebbe rivolto loro, se usando o meno la parola aiuto. Livio per non
allarmare civili e militari disse: “Siamo in difficoltà, potete darci una
mano?”.
Senza una parola il sergente indicò ai suoi di calzare i ramponi. Appena
armati gli scarponi, si avvicinò e guardò interrogativo la donna.
“La ragazza è caduta nel crepaccio”.
Queste parole fecero lampeggiare gli occhi scuri della guida, che vedendo
però la corda tesa respirò subito di sollievo.
I militari impiegarono poco a trarre dai guai i civili; come un esperto
pescatore il sergente recuperò la lenza e la preziosa esca intatta dalla
bocca della grande balena bianca.
Lucia era incolume, Davide si rincuorò. Gli alpini affiancarono poi la
cordata fino al punto in cui il ghiacciaio lasciava posto alla neve
sicura. Livio ringraziò, e chiese i nomi dei soccorritori.
Mentre i civili si riprendevano, scherzando nervosamente, e si
rifocillavano, i soldati salutarono militarmente e si diressero verso
Vallumbrina, come andassero al rifugio Btg. Ortler e furono subito
inghiottiti dalla nebbia. Il rientro ormai era cosa semplice, un po' lungo
ma senza pericoli e la sera al rifugio la buona gestrice rincuorò i
giovani, raccontando di quante volte le era capitato di finire nei
crepacci. Suo padre Matteo - la guida emerita - ascoltò il racconto e
chiese solo come fossero vestiti gli alpini e che mostrine avessero.
I quattro stanchissimi andarono a letto presto, accompagnati dalla più
bella sinfonia per un escursionista: la pioggia battente sul tetto del
rifugio. Ancora i ragazzi dormirono bene, ancora la moglie scrollò il
marito che russava. La mattina seguente era ancora una bellissima
giornata.
Verso le otto Livio attraversò il piazzale deserto del rifugio, passò a
fianco della chiesetta di pietra, si avvicinò alla piramide di sassi
sormontata dall'aquila di bronzo, monumento in memoria dei caduti e
dispersi della 307^ compagnia del V° Alpini.
Un dubbio gli venne quando lesse il nome del sergente Damiani Beniamino,
lo stesso del suo soccorritore, per un istante pensò ad un'omonimia o ad
una parentela, forse il nonno; ma subito riconobbe negli alpini Mazzoni
Giovanni, Riccitelli Luigi e Meriggi Giacomo i nomi che aveva appreso il
giorno prima. Un brivido gli percorse la schiena, guardò istintivamente il
SanMatteo e sentì di non essere solo: si voltò allora verso il rifugio ed
incrociò lo sguardo del vecchio Matteo che a pochi passi da lui