Ritratti 06

 Appunti artistici di storia dell'alpinismo  

 

 

Ritratto di
 Piera Biliato

 

 Testo di Carlo Caccia

 Ivan Guerini

        L’estenuante fatica di capire la vita 

L'incontro

Superare gli opposti, giungere alla sintesi nella quale è soltanto la pace, sognata, desiderata. Annullare i contrasti e conquistare l'equilibrio, scovare un linguaggio in grado di esprimere in pienezza i concetti, di aderire perfettamente alla complessità del pensiero e di renderlo quindi intelligibile. Raggiungere l'altopiano simbolico, lo spazio infinito dove il sole non tramonta mai e la sua luce si diffonde morbida tra le chiome di alberi secolari, popolate da migliaia di creature. Vincere il caos, staccarsi dalle vacue opinioni e scoprire la condizione ideale che non è soltanto razionale perché in essa le emozioni si elevano, rassicurate, ad altezze un tempo sconosciute. L'ineffabile non è più tale e l'estrema dicotomia cessa di esistere: la lotta si placa e l'animo, dilatato nella vastità cosmica, si rasserena. E' il trionfo della ricerca ultima, dell'incapacità di sottrarsi alle domande fondamentali e di perseverare fiduciosi, rigettando la banalità e percorrendo la propria via. Un cammino essenziale, frequentemente in salita, faticoso e arduo, che non ammette cedimenti e compromessi ma che, una volta scoperto, per nessuna ragione dovrà essere abbandonato. Perché, in verità, quel cammino “è simile ad un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (Vangelo di Matteo, 13, 44).

Non importa ciò che gli altri penseranno di lui: quell'uomo ha afferrato l'invisibile scoglio della salvezza e, ormai piantato in mezzo al corso della vita, ne sbarra il fluire per modificarlo come lo vede e lo sente. Lui, un tempo minuscolo e fragile, diventa il mondo e niente del mondo può risultare contrario al suo spirito perché, se egli non vede ciò che gli si oppone, dilata quello che gli è congeniale in misure gigantesche, tanto da riempire ogni spazio. Sarà oggetto d'infinite critiche, gli alfieri del ben pensare gli scaglieranno contro anatemi d'ogni genere - dalla perplessità alla disapprovazione e quindi all'odio il passo è breve - ma l'eroe inascoltato non si perderà d'animo e, nell'ordinario grigiore, sarà come un fascio di luce inafferrabile che, quando si crederà di averlo in pugno, svanirà nel nulla per riapparire pochi istanti dopo in un altro luogo, geloso della propria inestimabile libertà.

Il cavaliere del tempo andato e del tempo a venire continuerà il suo peregrinare, giungerà all'alba con il sole e sparirà al tramonto nelle tenebre, e l'incontro con lui sarà ogni volta un'esperienza emozionante. Perché, idealista impenitente, non risparmierà tempo ed energie per farvi partecipi dei suoi pensieri e delle sue azioni e vi racconterà storie mai udite, gesta incredibili e azioni apparentemente folli. Ma se avrete pazienza e capacità per ascoltarlo fino in fondo lo lascerete felici, dando ragione a colui che, un giorno, disse: “State vicini agli uomini grandi”.

 

Un compito difficile

È faccenda ardua e complessa narrare le sue gesta: un compito difficile, che richiede estrema concentrazione. Ci abbiamo già provato più volte e, immancabilmente, ci siamo ritrovati bloccati, insabbiati, incapaci di terminare il lavoro avviato con ogni cura e attenzione. Perché, ad un certo punto, ci rendevamo conto che c'era qualcosa che non andava, nella forma o nel contenuto, e il flusso dei pensieri si arrestava repentinamente, senza alcuna possibilità di riprendersi. Come mai? Domanda inevitabile, inquietante, alla quale non siamo ancora riusciti a fornire una risposta convincente. Che sia forse perché Ivan Guerini - ecco l'origine dei dubbi e delle titubanze! - tra i personaggi finiti vittime delle nostre analisi è quello che conosciamo meglio? Che la difficoltà stia proprio nell'aver di fronte una figura a tutto tondo, della quale scorgiamo anche i più piccoli particolari e, non dimentichiamo, con un cervello in costante, febbrile attività? Perché, obiettivamente, un conto è dover organizzare un lavoro basandosi su alcune testimonianze, ricordi e fonti scritte, e un altro è dover gestire, filtrandole, le migliaia di parole che Ivan, ogni volta che ne ha l'occasione, ci elargisce con grande generosità. Senza trascurare il fatto che il caro amico, informato della nostra intenzione di “ritrarlo”, ha risposto volentieri e come sua consuetudine con grande puntiglio ad una lunga serie di domande ad hoc - alla fine ci siamo ritrovati tra le mani un discreto fascicolo… - aprendo numerose piste di riflessione.

Ma ora, dopo l'ennesima lunga chiacchierata per approfondire alcuni argomenti e chiarire gli ultimi importanti punti da trattare, è finalmente il momento di abbandonare ogni paura dimenticando i tentativi infruttuosi e, animati dal sacro fuoco creativo, lanciarsi nel gran cimento per svelare i misteri del “profeta”. Perché, la puntualizzazione è d'obbligo, se Ivan Guerini è noto a molti, in verità soltanto pochissimi lo conoscono davvero.

 

La realtà

L'immagine comune di Guerini è quella di colui che, dopo aver scoperto la val di Mello, nel cuore del gruppo del Masino-Bregaglia, vedendola invasa da masse di arrampicatori sportivi privi di ogni rispetto per il giocattolo meraviglioso, frequenta oggi i dirupi più scomodi e impopolari, persi in valloni selvaggi dove mai nessuno ha il coraggio e la voglia di cacciare il naso. La realtà, per diverse ragioni, è tuttavia ben più complessa e, anche a chi immagina il primo salitore di Oceano irrazionale con barba incolta e fascia variopinta nei capelli, magari impegnato a dialogare con una farfalla, beh… non possiamo risparmiare una piccola (o grande) delusione. Perché l'attuale aspetto di Ivan, a quarantanove anni suonati - il nostro eroe è nato il 9 giugno 1954 - ha ben poco a che vedere con quei ricordi: se il fisico è rimasto quello di una volta, atletico anche se come allora non eccessivamente asciutto, il volto è del tutto privo di barba, con i pochi capelli rimasti a fare da malinconico sfondo ad un cranio lucente… Scherzi a parte, Ivan Guerini decise ad un certo punto di ritirarsi in una sua dimensione particolare, deluso e forse indignato per quanto stava accadendo nel mai abbastanza contraddittorio e sempre meno lineare mondo dell'arrampicata: se Gian Piero Motti non resse al crollo dell'utopia e decise di fuggire per sempre, Ivan intuì la possibilità di continuare solitario per la sua strada, di agire senza clamore e quindi senza il rischio, come spiega, «di precipitare nel vuoto ideologico che sempre più caratterizza l'alpinismo, un vuoto che molti hanno cercato di colmare, invano, con idee estranee alla comprensione reale di ciò che sono effettivamente le rocce, le montagne e il modo di rapportarsi con esse».

In un saggio intrigante dal titolo apparentemente innocuo e molto “alpinistico”, La stagione degli eroi, Enrico Camanni, Daniele Ribola e Piero Spirito scrivono che «uno dei servizi peggiori che possa essere richiesto ad un giornalista oggi è intervistare un giovane alpinista. È quasi peggio che interrogare un calciatore. Non si tratta del solito fervorino un po' ipocrita su quanto siano stupidi i figli degli anni Ottanta, è che proprio i nuovi campioni dell'alpinismo sono affetti da difficoltà espressive. Non sanno raccontare, non sanno esprimere alcunché di originale o almeno solo divertente, non sanno motivare il loro agire e la loro stessa esistenza». Una bocciatura senza appello, drammatica eppure assolutamente condivisibile, che fa pensare a Ivan e alla sua immensa e mai riconosciuta fatica intellettuale, della quale è possibile intuire i profili soltanto dopo aver discusso a lungo con lui. Innanzitutto per la complessità dei concetti e inoltre perché l'instancabile guerriero, entusiasta ed incandescente, è incapace di indietreggiare anche di un solo passo e di smussare pur soltanto temporaneamente, per renderlo maggiormente accessibile, il proprio “sistema”. E i colloqui con Ivan, animato dalla passione più autentica, somigliano ad un fiume in piena del quale s'ignora il percorso e nel quale si gettano innumerevoli affluenti.

 

Sulla roccia

Ma per conoscere davvero il nostro eroe è indispensabile arrampicare con lui. Perché è sulla roccia che egli libera i propri sentimenti più profondi, è sulla roccia che si sente completamente a suo agio. Basta guardarlo negli occhi, osservarne i movimenti ed ascoltare i suoi immancabili commenti: in parete appare leggero, ridotto all'essenza di se stesso e quasi identificabile, per chi è al suo fianco, con l'azione che gli è più cara. Un'azione, occorre chiarirlo con semplicità una volta per tutte, condotta ribaltando la prospettiva comune, perché per lui un diedro, una fessura, una placca non sono ciò che consente la scalata, la progressione - egli non si serve della roccia - ma, al contrario, proprio la scalata diventa il mezzo che permette di scoprire i segreti di quel diedro, di quella fessura, di quella placca. Come accadde una volta, in un caldo sabato d'inizio estate purtroppo colmo di tristi ricordi, sulla selvaggia e pochissimo frequentata parete nord-est del Corno Centrale di Canzo.

Quel giorno, proprio sopra le nostre teste, si stagliava contro l'azzurro del cielo uno scura fessura-camino strapiombante, da superare in spaccata. Gli altri ingredienti del piatto forte erano un prelibato vuoto di sapore dolomitico, chiodatura precaria e, dulcis in fundo, il ricordo dell'autore della via, il minuscolo Ercole Esposito, l'incredibile Ruchìn della Nord del Sassolungo, del pionieristico tentativo al diedro della Su Alto, il mago della roccia friabile e dell'artificiale da brivido.

Ivan parte, aggiunge due friend alle antiche protezioni e, mentre una pioggia di minuscoli sassolini invade l'aria - ovviamente di tanto in tanto non manca qualche proiettile più consistente -, lui sale e sale. Scioltezza esemplare, spaccata da manuale, lo strapiombo si placa e poi gli ultimi metri, in traverso: appoggi non saldissimi, un attimo d'esitazione e due movimenti facili. Una lunghezza di corda infuocata, di grande importanza storica: ottavo grado in libera per l'amico in grande spolvero, altrimenti artificiale faticoso e in ogni modo di grande soddisfazione. Per Ruchìn, in quel lontano 6 settembre 1942, certamente A3, ma innanzitutto una grande avventura, un'esperienza forte e profonda. Scendiamo, loquaci e traboccanti d'entusiasmo, lungo i ripidi pendii erbosi del versante meridionale del Corno; c'infiliamo nel caratteristico canyon e raggiungiamo Monica che, da un masso nei pressi del sentiero alla base della parete, aveva seguito più o meno attentamente le nostre evoluzioni.

 

Un gioco razionale

Quello di Ivan è un desiderio di conoscenza lontano dalla volontà di provocare o di rifiutare in segno di trasgressione i dettami antichi. Alla base della sua attività esplorativa c'è invece sempre stata una molla fortemente razionale, forse nascosta dalle apparenze come anche da alcune sue affermazioni, ma ben percepibile ad una lettura attenta del personaggio. Se una curiosità, quasi un pettegolezzo, è in questo senso estremamente chiarificatrice - Guerini, pochi ci crederanno, non ha mai messo piede in discoteca - invitiamo comunque il lettore a riprendere in mano la sua famosa guida Il gioco-arrampicata della val di Mello e ad osservare con attenzione gli schizzi delle singole vie.

Non si tratta di semplici relazioni ma, come precisa lo stesso autore, di “disegni rupestri” che partecipano della “verticalità minerale” delle pareti. Lavori essenziali, dal sapore ad un tempo arcaico e moderno, che nella loro rassicurante chiarezza si lasciano contemplare a lungo in ogni dettaglio: si tratta di composizioni bilanciate, ordinate, microcosmi indipendenti che se singolarmente non possiedono la forza per catapultarci nel “migliore dei mondi possibili” di leibniziana memoria, nel loro insieme toccano con delicatezza vari sentimenti senza trascurare il fine didattico-informativo. Ventidue disegni, ventidue “invenzioni” nelle diverse tonalità che richiamano alla mente, nella nostra perenne ricerca di ciò che unisce a scapito di ciò che divide, quelle miniature musicali a due e a tre voci che Johann Sebastian Bach, insuperabile cesellatore, creò con somma cura per i suoi giovani allievi.

Una forte carica razionale caratterizza anche il linguaggio verbale di Ivan, forse eccessivamente “zampillante” nei dialoghi (spesso monologhi…) e al contrario quasi sempre serrato e necessario negli scritti.E' uno stile, il suo, che nelle pagine migliori si presenta ad un tempo scarno e ricco di particolari, di grande immediatezza espressiva ma anche misurato e composto: il tutto in un fluire fresco e piacevole dato tanto dalla forma quanto dai contenuti.

«Riallacciare i contatti con la natura, e come amici prendersi per mano, e scoprire noi stessi, e finalmente comunicare - scrive Ivan nella pacata e poetica introduzione della sua storica guida -. E percepire non solo il tipo di realtà che ci viene sottoposta quotidianamente, bensì le diverse realtà di cui è composta l'esistenza. Non è cosa difficile comprendere, osservando le mutazioni delle stagioni, come esse abbiano una similitudine con la nostra vita» nella quale si teme soprattutto l'ignoto, ciò che non si conosce. La novità e il cambiamento sono quindi visti quasi con terrore e, oggi più di ieri, in una società in spasmodica ricerca delle più solide certezze, tutto ciò che conserva una carica più o meno marcata di imprevedibilità viene rifiutato, cancellato. Non si tratta di sano desiderio di ordine quanto, piuttosto, del trionfo di una nefasta volontà edonistica che impedisce di spiccare il volo, di lasciarsi travolgere in un vortice dove regnano la meraviglia e l'autentica conoscenza. Ma nella testa del nostro protagonista, in una sublime visione allegorica, il mondo è sempre stato una sorta di «valle, ampia e preistorica coi suoi sassi grandi e arrotondati con in cima magari un bosco di muschio per le formiche, quasi popolata da elefanti o meglio schegge d'elefante tanto che ti sembra d'essere dentro un elefante, tondo e mite. Questo grande palmo ricurvo all'insù sembra fatto apposta per incuriosire chi vi è dentro, facendogli venire voglia di vedere cosa c'è sopra, più sopra, grazie ai sentieri che la fantasia e la naturalezza di ciascuno possono far scegliere, infatti - conclude Monica Mazzucchi, moglie di Ivan e sua compagna in infinite avventure esplorative - sono convinta che chiunque troverebbe una sua via per arrivare al bordo con cui questa valle accarezza l'invisibile ed irraggiungibile cielo».

 

Presa di coscienza

Già, la via… Il piccolo Ivan, ancora bambino, la sognava sui banchi di scuola, la immaginava perdersi in luoghi lontani, da conoscere in un'esplosione senza fine di libertà: osservare la natura, studiarla e poi disegnare con ineffabile, infantile e quindi pura soddisfazione, alberi e animali.  Fino a quando, un giorno, ecco l'incontro con un nuovo elemento: il vuoto, la “vertigine rientrante” degli strapiombi. «Mi affacciai all'orlo superiore della bastionata del Buco del Piombo, nei pressi di Erba, a una cinquantina di chilometri a nord di Milano - racconta il nostro protagonista -. Rimasi tanto colpito da quel salto di centoventi metri che non procedetti per gradi e, con l'amico Antonio Goi, infiammato dalla voglia di fare, decisi di scalare un evidente diedro del settore destro della parete della Corna di Medale, che domina Lecco: senza saperlo, quasi completamente in libera, salimmo per un buon tratto la Colnaghi...».

Vano tentativo di seguire un corso di roccia del CAI e quindi, durante gli anni del liceo artistico a Brera, ecco il primo incontro davvero importante. Fu quello con Mario: il più taciturno, paziente e tenace dei dodici fratelli Villa. «Cominciammo a salire sui torrioni nei pressi di Lecco - ricorda Ivan -. Tutte vie oggi dimenticate perché discontinue, instabili ed erbose ma che, nella mia esperienza, ebbero un significato di “presa di coscienza”, facendomi capire come comportarmi in presenza di massi mobili che sussultano impilati sul fondo di un camino o di un diedro e, quindi, come affrontare l'ambiente, le cui condizioni trascendono le capacità soggettive dell'individuo».

 

Meraviglie da non toccare

In seguito l'attività di Ivan Guerini proseguì senza posa e, grazie anche ad un suo meticoloso lavoro di sintesi, vale la pena ripercorrerne almeno le tappe principali. All'inizio del lungo elenco incontriamo le ripetizioni in solitaria di itinerari storici: si va dalla Mauri sulla Punta Chiara (Masino-Bregaglia), salita in un'ora nel 1976, a numerose classiche della Grignetta, percorse nel 1978. L'anno seguente fu la volta di una brillante trasferta dolomitica che vide Ivan scatenarsi, nell'ordine, sul Diedro Armani al Croz dell'Altissimo (700 m, 4 ore), sul Diedro Aste al Crozzon di Brenta (900 m, 3 ore e mezza), sulla Steger al Catinaccio (600 m, 2 ore), sulla Eisenstecken alla Roda di Vael (350 m, 2 ore), sulla Via dei Fachiri e sulla Lacedelli alla Cima Scotoni (entrambe 600 m, 3 ore e mezza e 4 ore e mezza rispettivamente), sulla Costantini-Apollonio alla Tofana di Rozes (550 m, 2 ore e mezza) e lungo il Diedro Cozzolino al Piccolo Mangart di Coritenza (800 m, 5 ore). Senza perderci nell'elenco delle numerose vie delle Prealpi Lombarde “percorse per la prima volta senza tirare i chiodi” passiamo, immediatamente, a quelle che Ivan ha voluto definire “prime pareti difficili inesplorate delle Alpi Retiche salite in libera ben distinta dall'artificiale”. Ecco allora Ida e Maite (200 m, VII e A0) sul Picco Darwin (1974), Oceano irrazionale (500 m, VII e A2) sul Precipizio degli Asteroidi (1977) e Il naufragio degli Argonauti (400 m, VIII e A3) ancora sul Picco Darwin (1977). E' quindi la volta delle vie lungo “pareti e grandi pareti alpine inesplorate percorse in libera”. Delle prime, quelle sulle “pareti”, ricordiamo soltanto Perduti nello spazio (600 m, VII, 4 ancoraggi intermedi) sull'Anticima del Cavalcorto (1977) mentre delle seconde, quelle sulle “grandi pareti”, non possiamo dimenticare Tramonto della Luna (900 m, VI+, nessun ancoraggio intermedio) e Nelle stanze del passato (900 m, VII-, 2 nut intermedi) entrambe sul Sasso Manduino (1978 e 1983). Ancora sul Manduino, nel 1979, Guerini salì in solitaria Trapasso nel vero (1000 m, VII+, con due tentativi di autoassicurazione falliti e materiale lasciato in parete per documentare il proprio passaggio). Concludiamo con le “vie in falesia salite in libera a protezione naturale”, per le quali Ivan tiene a precisare che si tratta d'itinerari lungo i quali le difficoltà sono concentrate in brevi tratti e che, proprio per questa ragione, risultano non confrontabili con le vie di continuità percorse utilizzando gli spit. Ricordando che nel comprensorio lariano Guerini ha aperto in tutto circa novecento vie “di palestra”, delle quali si sente spesso parlare come se fossero degli autentici fantasmi, dei centotrenta itinerari sulla Costiera dell'Avorio, a picco sul lago di Lecco, citiamo L'uomo verso la scimmia (130 m, VII, 2 ancoraggi intermedi, 1979), Dacrongenesi (120 m, VIII+, 8 ancoraggi, 1981), Apotema del crollo (55 m, IX+, 7 ancoraggi, 1982), Meraviglie da non toccare (80 m, VIII, 9 ancoraggi, 1986) e La fine del potere (50 m, IX+, 14 ancoraggi, 1988). Passando alle cinquanta vie sul Sipario Ocra, sulla Torre Striata e sulle Pareti di Pradello, poco distanti dalla Costiera dell'Avorio, risalgono al 1980 Mano Bong (100 m, VII, 4 ancoraggi) e I Fessuriani (110 m, VII+, 5 ancoraggi), le uniche celebri della nutrita schiera (Alessandro Gogna le incluse nel suo Cento nuovi mattini). Del 1981 sono invece Terra, vento e fuoco (60 m, VIII-, 5 ancoraggi) e Avvertimento lenticolare (25 m, IX-, 4 ancoraggi). Potremmo citare anche qualche itinerario della Falesia di Fiumelatte – su quella selvaggia ed estesa bastionata, alta fino a duecento metri, il nostro instancabile esploratore ha tracciato circa ottanta vie – ma preferiamo fermarci, tornare all'inizio del curriculum e rileggere una breve annotazione. Ivan titola la lista Le ascensioni significative e, un po' a sorpresa, precisa che sono state «percorse senza studi a distanza, prove, cadute, sostegno d'integratori e farmaci ed elettrostimolazione».

 

Ivan e la val di Mello

Ma cosa significa per Ivan andare in montagna? O, meglio, cosa cerca durante i suoi viaggi in parete? La risposta è semplicissima: ciò che non si aspetta. Ossia tutto quello, spiega, «che è stato scagliato tanto lontano dall'immaginazione da annientare sia la logica sia l'intuizione. Più di una volta, trovandomi inaspettatamente nell'incertezza, sono giunto in vista del massimo coinvolgimento, di ciò che spiega le questioni più difficili». Su questo sfondo di base la val di Mello fu il luogo della spensieratezza giovanile, dove i concetti di vetta, di parete, di falesia e persino di “altopiano” e di “Nuovo Mattino” svanirono: lassù, in quel mondo scoperto un po' per caso e un po' grazie alle parole di Gian Piero Motti, Guerini si soffermò a lungo diventandone il “profeta”, per certi versi contrapposto agli arrampicatori locali, i cosiddetti Sassisti.

«Ivan viveva in una baitella e da lì partiva alla volta delle pareti e dei sassi arrampicando a tempo pieno - racconta Giuseppe Miotti -. Bisogna dire che furono proprio la sua sensibilità e la sua bravura che aprirono la strada e la mente anche ai Sassisti. Ivan era un po' come il messia del “nuovo verbo”, parlava dolce e difficile e parlava, allora, anche di una specie di amore universale con le rocce e sulle rocce. L'armonia che lui tanto predicava era certo assai attraente e noi tutti, grezzi provinciali, attraversammo un periodo di profondo invaghimento per il personaggio (mi risulta che la cosa sia comune a tutti quelli che hanno conosciuto Ivan). Guerini fu il primo in tutti i sensi e non solo in Lombardia; fu il primo ad arrampicare sui massi con fini che non fossero quelli del mero allenamento, fu il primo a capire quanto fosse importante un allenamento specifico e costante e fu il primo ad aprire itinerari concepiti e risolti quasi sempre in funzione dell'arrampicata libera».

Parole di stima di colui che Guerini definisce il “logico realizzativo” dei Sassisti alla cui testa, in verità, secondo Ivan esisteva anche un secondo leader: Antonio Boscacci. Miotti e Bosca, dunque: «Personalità dagli intenti antitetici - sostiene il “profeta” - attorno alle quali gli altri ragazzi si mossero come satelliti. Fu proprio il divario tra i due “capi” a consentire la libertà dei singoli i quali, molto semplicemente, facevano i cavoli propri secondo le occasioni del momento. E se è vero che per alcuni il lavoro era soltanto un optional necessario, per Antonio era una questione diversa. Egli, più che pensare alle montagne, credeva fermamente nell'insegnamento, che praticava con la stessa caparbietà con cui affrontava le pareti. Si disse che tra noi sorsero attriti, con tanto di guerra fredda nel nome di misteriose suole in grado di sostenere l'arrampicatore anche sulle placche più lisce... In verità fu inevitabile che quei ragazzi, vedendomi tanto diverso nel modo di vedere e di descrivere la roccia, tendessero a “mitizzarmi”, al punto che per loro divenni più inafferrabile della via meno percorribile. Ma cosa ci divideva veramente? Il fatto che, se i Sassisti volevano essere i primi sulle loro montagne, io desideravo soltanto conoscerle».

 

Una ricerca silenziosa e nascosta

Agli anni e alle vie della val di Mello, irripetibilmente frizzanti, seguirono periodi diversi, un “andare oltre” alla ricerca di luoghi inesplorati e nascosti. E come compiere questa ricerca? Combinandola con una scelta di vita radicale di più ampia portata, non legata esclusivamente all'arrampicata e alla roccia ma che, pur ponendo Ivan in ombra rispetto alle luci della ribalta storica - anche se, più che di storia, sarebbe meglio parlare di cronaca - gli consentì quella che egli definì “sopravvivenza sociale”. «Ecco - disse un giorno il nostro protagonista in un momento di “pensiero acuto” -: riflettendo sulle ingiustizie che la storia rivela sempre e soltanto quando giustizia non si può più fare, ritengo che il vero inganno non dipenda tanto dallo “star dentro” o dallo “star fuori” rispetto alla storia stessa. Il problema ultimo è che, anche se storicamente un individuo può avere un ruolo, più difficilmente possiede un'identità sociale. Di conseguenza l'identità extrastorica, più che una forma di anarchia, rappresenta una vera e propria forma di “sopravvivenza sociale”».

 

Un codice rigoroso

Oggi l'alpinismo è come raggelato. Lo abbiamo detto all'inizio: è muto, senza sentimenti. E in verità Ivan non si è mai sentito un alpinista, è sempre stato libero dai condizionamenti tipici del comune approccio alle pareti, e vedendolo arrampicare si ha proprio questa impressione: non che rifiuti il passato con i suoi grandi personaggi, tuttavia le imprese e i celebrati eroi di un tempo, una volta filtrati al suo setaccio, si presentano in una luce nuova e sempre imprevedibile. Più che al fatto tecnico, ridotto ad un semplice corollario, Ivan porta la sua attenzione al discorso umano e di scoperta, alle motivazioni alla base di una determinata azione. Di conseguenza i suoi giudizi si basano su criteri “insoliti” che, se possono indispettire qualcuno, alla fine aprono prospettive nuove e forse sconfinate.

Guerini, forte della sua non dipendenza da qualsiasi condizionamento - una libertà frutto di una scelta di vita particolare nella quale il legame con Monica è determinante - non ha mai avuto paura di esprimere compiutamente, rifiutando ogni compromesso, le proprie idee e i propri principi: ecco allora il rifiuto assoluto della perforazione della roccia – un'azione vista come eliminazione brutale e infantile della naturale compattezza dello scheletro della terra, una riduzione della natura ai propri bisogni in nome di un illusorio divertimento basato su una concezione puramente estetica dell'arrampicata -, ecco in secondo luogo l'esaltazione dell'esperienza in ambienti sconosciuti, dove la scalata non si riduce a semplice movimento ed ecco, infine, l'elogio della “libera autentica”, compiuta piazzando protezioni naturali e arrampicando “liberi” tra un chiodo e l'altro.

 

Oltre le montagne

Ivan il “profeta”: oggi, forse, un uomo che grida nel deserto. Eccolo che pensa, scrive, disegna, arrampica: la sua voce giunge ai pochi amici, a coloro che sono disposti ad ascoltarlo, ed è una voce in grado di dare la carica, che spinge a controllare le proprie paure tanto in montagna quanto nell'ordinaria quotidianità. Abbiamo tanto parlato di lui, eppure è rimasta in noi l'impressione di non essere riusciti a cogliere il nucleo del suo pensiero. Che sia perché va al di là delle rocce, perché ha bisogno di spazi più vasti delle pareti per esprimersi compiutamente?

Quando gli domandammo cosa rappresenti per lui l'amicizia ci diede una risposta difficilmente dimenticabile, più importante di qualsiasi scalata: «L'amicizia – disse – è un legame svincolato da intenti, che non ha bisogno di essere alimentato. E che permette, incontrando di nuovo dopo anni e senza una precisa ragione una persona, di riprendere insieme il cammino comune, lasciato un tempo in sospeso. In quei momenti “tutto torna”: ci si accorge che nulla è andato perduto e non ci si ritrova disorientati, estranei. Amici preziosi sono coloro coi quali mi lancio ad esplorare il senso dell'agire nel mondo: coloro che, a settant'anni, conservano un'incontenibile energia adolescenziale. Amici forti, modesti, veri: degli autentici compagni di viaggio il valore dei quali supera certamente quello delle montagne. E nella mia storia, ad un certo punto, comparve una persona la cui importanza oltrepassa di gran lunga quella delle vette e delle pareti: mia moglie Monica Mazzucchi. Nata in Argentina, a Buenos Aires, da genitori italiani, rimase laggiù otto anni, fino al 1963. C'incontrammo alle scuole superiori e le feci immediatamente “una testa così” sulle mie camminate e arrampicate… Fu tanto colpita dall'intensità delle mie descrizioni che volle seguirmi: la sua prima via in montagna fu la Gandin sul Torrione del Cinquantenario, in Grignetta. Con Monica, da subito, mi lanciai nell'estenuante e rischiosa fatica di capire la vita, della quale l'andare in montagna, pur importante, è soltanto una parte, e con lei compresi che, prima di capire le montagne, è necessario capire se stessi».

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© luglio 2003 intraisass

 

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