L'incontro
Superare gli opposti, giungere alla sintesi nella quale è soltanto la
pace, sognata, desiderata. Annullare i contrasti e conquistare
l'equilibrio, scovare un linguaggio in grado di esprimere in pienezza i
concetti, di aderire perfettamente alla complessità del pensiero e di
renderlo quindi intelligibile. Raggiungere l'altopiano simbolico, lo
spazio infinito dove il sole non tramonta mai e la sua luce si diffonde
morbida tra le chiome di alberi secolari, popolate da migliaia di
creature. Vincere il caos, staccarsi dalle vacue opinioni e scoprire la
condizione ideale che non è soltanto razionale perché in essa le
emozioni si elevano, rassicurate, ad altezze un tempo sconosciute.
L'ineffabile non è più tale e l'estrema dicotomia cessa di esistere: la
lotta si placa e l'animo, dilatato nella vastità cosmica, si rasserena.
E' il trionfo della ricerca ultima, dell'incapacità di sottrarsi alle
domande fondamentali e di perseverare fiduciosi, rigettando la banalità
e percorrendo la propria via. Un cammino essenziale, frequentemente in
salita, faticoso e arduo, che non ammette cedimenti e compromessi ma
che, una volta scoperto, per nessuna ragione dovrà essere abbandonato.
Perché, in verità, quel cammino “è simile ad un tesoro nascosto in un
campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia,
vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (Vangelo di Matteo, 13,
44).
Non
importa ciò che gli altri penseranno di lui: quell'uomo ha afferrato
l'invisibile scoglio della salvezza e, ormai piantato in mezzo al corso
della vita, ne sbarra il fluire per modificarlo come lo vede e lo sente.
Lui, un tempo minuscolo e fragile, diventa il mondo e niente del mondo
può risultare contrario al suo spirito perché, se egli non vede ciò che
gli si oppone, dilata quello che gli è congeniale in misure gigantesche,
tanto da riempire ogni spazio. Sarà oggetto d'infinite critiche, gli
alfieri del ben pensare gli scaglieranno contro anatemi d'ogni genere -
dalla perplessità alla disapprovazione e quindi all'odio il passo è
breve - ma l'eroe inascoltato non si perderà d'animo e, nell'ordinario
grigiore, sarà come un fascio di luce inafferrabile che, quando si
crederà di averlo in pugno, svanirà nel nulla per riapparire pochi
istanti dopo in un altro luogo, geloso della propria inestimabile
libertà.
Il
cavaliere del tempo andato e del tempo a venire continuerà il suo
peregrinare, giungerà all'alba con il sole e sparirà al tramonto nelle
tenebre, e l'incontro con lui sarà ogni volta un'esperienza emozionante.
Perché, idealista impenitente, non risparmierà tempo ed energie per
farvi partecipi dei suoi pensieri e delle sue azioni e vi racconterà
storie mai udite, gesta incredibili e azioni apparentemente folli. Ma se
avrete pazienza e capacità per ascoltarlo fino in fondo lo lascerete
felici, dando ragione a colui che, un giorno, disse: “State vicini agli
uomini grandi”.
Un compito difficile
È
faccenda ardua e complessa narrare le sue gesta: un compito difficile,
che richiede estrema concentrazione. Ci abbiamo già provato più volte e,
immancabilmente, ci siamo ritrovati bloccati, insabbiati, incapaci di
terminare il lavoro avviato con ogni cura e attenzione. Perché, ad un
certo punto, ci rendevamo conto che c'era qualcosa che non andava, nella
forma o nel contenuto, e il flusso dei pensieri si arrestava
repentinamente, senza alcuna possibilità di riprendersi. Come mai?
Domanda inevitabile, inquietante, alla quale non siamo ancora riusciti a
fornire una risposta convincente. Che sia forse perché Ivan Guerini -
ecco l'origine dei dubbi e delle titubanze! - tra i personaggi finiti
vittime delle nostre analisi è quello che conosciamo meglio? Che la
difficoltà stia proprio nell'aver di fronte una figura a tutto tondo,
della quale scorgiamo anche i più piccoli particolari e, non
dimentichiamo, con un cervello in costante, febbrile attività? Perché,
obiettivamente, un conto è dover organizzare un lavoro basandosi su
alcune testimonianze, ricordi e fonti scritte, e un altro è dover
gestire, filtrandole, le migliaia di parole che Ivan, ogni volta che ne
ha l'occasione, ci elargisce con grande generosità. Senza trascurare il
fatto che il caro amico, informato della nostra intenzione di
“ritrarlo”, ha risposto volentieri e come sua consuetudine con grande
puntiglio ad una lunga serie di domande ad hoc - alla fine ci
siamo ritrovati tra le mani un discreto fascicolo… - aprendo numerose
piste di riflessione.
Ma
ora, dopo l'ennesima lunga chiacchierata per approfondire alcuni
argomenti e chiarire gli ultimi importanti punti da trattare, è
finalmente il momento di abbandonare ogni paura dimenticando i tentativi
infruttuosi e, animati dal sacro fuoco creativo, lanciarsi nel gran
cimento per svelare i misteri del “profeta”. Perché, la puntualizzazione
è d'obbligo, se Ivan Guerini è noto a molti, in verità soltanto
pochissimi lo conoscono davvero.
La realtà
L'immagine comune di Guerini è quella di colui che, dopo aver scoperto
la val di Mello, nel cuore del gruppo del Masino-Bregaglia, vedendola
invasa da masse di arrampicatori sportivi privi di ogni rispetto per il
giocattolo meraviglioso, frequenta oggi i dirupi più scomodi e
impopolari, persi in valloni selvaggi dove mai nessuno ha il coraggio e
la voglia di cacciare il naso. La realtà, per diverse ragioni, è
tuttavia ben più complessa e, anche a chi immagina il primo salitore di
Oceano irrazionale con barba incolta e fascia variopinta nei
capelli, magari impegnato a dialogare con una farfalla, beh… non
possiamo risparmiare una piccola (o grande) delusione. Perché l'attuale
aspetto di Ivan, a quarantanove anni suonati - il nostro eroe è nato il
9 giugno 1954 - ha ben poco a che vedere con quei ricordi: se il fisico
è rimasto quello di una volta, atletico anche se come allora non
eccessivamente asciutto, il volto è del tutto privo di barba, con i
pochi capelli rimasti a fare da malinconico sfondo ad un cranio lucente…
Scherzi a parte, Ivan Guerini decise ad un certo punto di ritirarsi in
una sua dimensione particolare, deluso e forse indignato per quanto
stava accadendo nel mai abbastanza contraddittorio e sempre meno lineare
mondo dell'arrampicata: se Gian Piero Motti non resse al crollo
dell'utopia e decise di fuggire per sempre, Ivan intuì la possibilità di
continuare solitario per la sua strada, di agire senza clamore e quindi
senza il rischio, come spiega, «di precipitare nel vuoto ideologico che
sempre più caratterizza l'alpinismo, un vuoto che molti hanno cercato di
colmare, invano, con idee estranee alla comprensione reale di ciò che
sono effettivamente le rocce, le montagne e il modo di rapportarsi con
esse».
In un
saggio intrigante dal titolo apparentemente innocuo e molto “alpinistico”,
La stagione degli eroi, Enrico Camanni, Daniele Ribola e Piero
Spirito scrivono che «uno dei servizi peggiori che possa essere
richiesto ad un giornalista oggi è intervistare un giovane alpinista. È
quasi peggio che interrogare un calciatore. Non si tratta del solito
fervorino un po' ipocrita su quanto siano stupidi i figli degli anni
Ottanta, è che proprio i nuovi campioni dell'alpinismo sono affetti da
difficoltà espressive. Non sanno raccontare, non sanno esprimere
alcunché di originale o almeno solo divertente, non sanno motivare il
loro agire e la loro stessa esistenza». Una bocciatura senza appello,
drammatica eppure assolutamente condivisibile, che fa pensare a Ivan e
alla sua immensa e mai riconosciuta fatica intellettuale, della quale è
possibile intuire i profili soltanto dopo aver discusso a lungo con lui.
Innanzitutto per la complessità dei concetti e inoltre perché
l'instancabile guerriero, entusiasta ed incandescente, è incapace di
indietreggiare anche di un solo passo e di smussare pur soltanto
temporaneamente, per renderlo maggiormente accessibile, il proprio
“sistema”. E i colloqui con Ivan, animato dalla passione più autentica,
somigliano ad un fiume in piena del quale s'ignora il percorso e nel
quale si gettano innumerevoli affluenti.
Sulla roccia
Ma per
conoscere davvero il nostro eroe è indispensabile arrampicare con lui.
Perché è sulla roccia che egli libera i propri sentimenti più profondi,
è sulla roccia che si sente completamente a suo agio. Basta guardarlo
negli occhi, osservarne i movimenti ed ascoltare i suoi immancabili
commenti: in parete appare leggero, ridotto all'essenza di se stesso e
quasi identificabile, per chi è al suo fianco, con l'azione che gli è
più cara. Un'azione, occorre chiarirlo con semplicità una volta per
tutte, condotta ribaltando la prospettiva comune, perché per lui un
diedro, una fessura, una placca non sono ciò che consente la scalata, la
progressione - egli non si serve della roccia - ma, al contrario,
proprio la scalata diventa il mezzo che permette di scoprire i segreti
di quel diedro, di quella fessura, di quella placca. Come accadde una
volta, in un caldo sabato d'inizio estate purtroppo colmo di tristi
ricordi, sulla selvaggia e pochissimo frequentata parete nord-est del
Corno Centrale di Canzo.
Quel
giorno, proprio sopra le nostre teste, si stagliava contro l'azzurro del
cielo uno scura fessura-camino strapiombante, da superare in spaccata.
Gli altri ingredienti del piatto forte erano un prelibato vuoto di
sapore dolomitico, chiodatura precaria e, dulcis in fundo, il
ricordo dell'autore della via, il minuscolo Ercole Esposito,
l'incredibile Ruchìn della Nord del Sassolungo, del pionieristico
tentativo al diedro della Su Alto, il mago della roccia friabile e
dell'artificiale da brivido.
Ivan
parte, aggiunge due friend alle antiche protezioni e, mentre una
pioggia di minuscoli sassolini invade l'aria - ovviamente di tanto in
tanto non manca qualche proiettile più consistente -, lui sale e sale.
Scioltezza esemplare, spaccata da manuale, lo strapiombo si placa e poi
gli ultimi metri, in traverso: appoggi non saldissimi, un attimo
d'esitazione e due movimenti facili. Una lunghezza di corda infuocata,
di grande importanza storica: ottavo grado in libera per l'amico in
grande spolvero, altrimenti artificiale faticoso e in ogni modo di
grande soddisfazione. Per Ruchìn, in quel lontano 6 settembre
1942, certamente A3, ma innanzitutto una grande avventura, un'esperienza
forte e profonda. Scendiamo, loquaci e traboccanti d'entusiasmo, lungo i
ripidi pendii erbosi del versante meridionale del Corno; c'infiliamo nel
caratteristico canyon e raggiungiamo Monica che, da un masso nei
pressi del sentiero alla base della parete, aveva seguito più o meno
attentamente le nostre evoluzioni.
Un gioco razionale
Quello
di Ivan è un desiderio di conoscenza lontano dalla volontà di provocare
o di rifiutare in segno di trasgressione i dettami antichi. Alla base
della sua attività esplorativa c'è invece sempre stata una molla
fortemente razionale, forse nascosta dalle apparenze come anche da
alcune sue affermazioni, ma ben percepibile ad una lettura attenta del
personaggio. Se una curiosità, quasi un pettegolezzo, è in questo senso
estremamente chiarificatrice - Guerini, pochi ci crederanno, non ha mai
messo piede in discoteca - invitiamo comunque il lettore a riprendere in
mano la sua famosa guida Il gioco-arrampicata della val di Mello
e ad osservare con attenzione gli schizzi delle singole vie.
Non si
tratta di semplici relazioni ma, come precisa lo stesso autore, di
“disegni rupestri” che partecipano della “verticalità minerale” delle
pareti. Lavori essenziali, dal sapore ad un tempo arcaico e moderno, che
nella loro rassicurante chiarezza si lasciano contemplare a lungo in
ogni dettaglio: si tratta di composizioni bilanciate, ordinate,
microcosmi indipendenti che se singolarmente non possiedono la forza per
catapultarci nel “migliore dei mondi possibili” di leibniziana memoria,
nel loro insieme toccano con delicatezza vari sentimenti senza
trascurare il fine didattico-informativo. Ventidue disegni, ventidue
“invenzioni” nelle diverse tonalità che richiamano alla mente, nella
nostra perenne ricerca di ciò che unisce a scapito di ciò che divide,
quelle miniature musicali a due e a tre voci che Johann Sebastian Bach,
insuperabile cesellatore, creò con somma cura per i suoi giovani
allievi.
Una
forte carica razionale caratterizza anche il linguaggio verbale di Ivan,
forse eccessivamente “zampillante” nei dialoghi (spesso monologhi…) e al
contrario quasi sempre serrato e necessario negli scritti.E' uno stile,
il suo, che nelle pagine migliori si presenta ad un tempo scarno e ricco
di particolari, di grande immediatezza espressiva ma anche misurato e
composto: il tutto in un fluire fresco e piacevole dato tanto dalla
forma quanto dai contenuti.
«Riallacciare i contatti con la natura, e come amici prendersi per mano,
e scoprire noi stessi, e finalmente comunicare - scrive Ivan nella
pacata e poetica introduzione della sua storica guida -. E percepire non
solo il tipo di realtà che ci viene sottoposta quotidianamente, bensì le
diverse realtà di cui è composta l'esistenza. Non è cosa difficile
comprendere, osservando le mutazioni delle stagioni, come esse abbiano
una similitudine con la nostra vita» nella quale si teme soprattutto
l'ignoto, ciò che non si conosce. La novità e il cambiamento sono quindi
visti quasi con terrore e, oggi più di ieri, in una società in
spasmodica ricerca delle più solide certezze, tutto ciò che conserva una
carica più o meno marcata di imprevedibilità viene rifiutato,
cancellato. Non si tratta di sano desiderio di ordine quanto, piuttosto,
del trionfo di una nefasta volontà edonistica che impedisce di spiccare
il volo, di lasciarsi travolgere in un vortice dove regnano la
meraviglia e l'autentica conoscenza. Ma nella testa del nostro
protagonista, in una sublime visione allegorica, il mondo è sempre stato
una sorta di «valle, ampia e preistorica coi suoi sassi grandi e
arrotondati con in cima magari un bosco di muschio per le formiche,
quasi popolata da elefanti o meglio schegge d'elefante tanto che ti
sembra d'essere dentro un elefante, tondo e mite. Questo grande palmo
ricurvo all'insù sembra fatto apposta per incuriosire chi vi è dentro,
facendogli venire voglia di vedere cosa c'è sopra, più sopra, grazie ai
sentieri che la fantasia e la naturalezza di ciascuno possono far
scegliere, infatti - conclude Monica Mazzucchi, moglie di Ivan e sua
compagna in infinite avventure esplorative - sono convinta che chiunque
troverebbe una sua via per arrivare al bordo con cui questa valle
accarezza l'invisibile ed irraggiungibile cielo».
Presa di coscienza
Già,
la via… Il piccolo Ivan, ancora bambino, la sognava sui banchi di
scuola, la immaginava perdersi in luoghi lontani, da conoscere in
un'esplosione senza fine di libertà: osservare la natura, studiarla e
poi disegnare con ineffabile, infantile e quindi pura soddisfazione,
alberi e animali. Fino a quando, un giorno, ecco l'incontro con un
nuovo elemento: il vuoto, la “vertigine rientrante” degli strapiombi.
«Mi affacciai all'orlo superiore della bastionata del Buco del Piombo,
nei pressi di Erba, a una cinquantina di chilometri a nord di Milano -
racconta il nostro protagonista -. Rimasi tanto colpito da quel salto di
centoventi metri che non procedetti per gradi e, con l'amico Antonio Goi,
infiammato dalla voglia di fare, decisi di scalare un evidente diedro
del settore destro della parete della Corna di Medale, che domina Lecco:
senza saperlo, quasi completamente in libera, salimmo per un buon tratto
la Colnaghi...».
Vano
tentativo di seguire un corso di roccia del CAI e quindi, durante gli
anni del liceo artistico a Brera, ecco il primo incontro davvero
importante. Fu quello con Mario: il più taciturno, paziente e tenace dei
dodici fratelli Villa. «Cominciammo a salire sui torrioni nei pressi di
Lecco - ricorda Ivan -. Tutte vie oggi dimenticate perché discontinue,
instabili ed erbose ma che, nella mia esperienza, ebbero un significato
di “presa di coscienza”, facendomi capire come comportarmi in presenza
di massi mobili che sussultano impilati sul fondo di un camino o di un
diedro e, quindi, come affrontare l'ambiente, le cui condizioni
trascendono le capacità soggettive dell'individuo».
Meraviglie da non toccare
In
seguito l'attività di Ivan Guerini proseguì senza posa e, grazie anche
ad un suo meticoloso lavoro di sintesi, vale la pena ripercorrerne
almeno le tappe principali. All'inizio del lungo elenco incontriamo le
ripetizioni in solitaria di itinerari storici: si va dalla Mauri
sulla Punta Chiara (Masino-Bregaglia), salita in un'ora nel 1976, a
numerose classiche della Grignetta, percorse nel 1978. L'anno seguente
fu la volta di una brillante trasferta dolomitica che vide Ivan
scatenarsi, nell'ordine, sul Diedro Armani al Croz dell'Altissimo
(700 m, 4 ore), sul Diedro Aste al Crozzon di Brenta (900 m, 3
ore e mezza), sulla Steger al Catinaccio (600 m, 2 ore), sulla
Eisenstecken alla Roda di Vael (350 m, 2 ore), sulla Via dei
Fachiri e sulla Lacedelli alla Cima Scotoni (entrambe 600 m,
3 ore e mezza e 4 ore e mezza rispettivamente), sulla
Costantini-Apollonio alla Tofana di Rozes (550 m, 2 ore e mezza) e
lungo il Diedro Cozzolino al Piccolo Mangart di Coritenza (800 m,
5 ore). Senza perderci nell'elenco delle numerose vie delle Prealpi
Lombarde “percorse per la prima volta senza tirare i chiodi” passiamo,
immediatamente, a quelle che Ivan ha voluto definire “prime pareti
difficili inesplorate delle Alpi Retiche salite in libera ben distinta
dall'artificiale”. Ecco allora Ida e Maite (200 m, VII e A0) sul
Picco Darwin (1974), Oceano irrazionale (500 m, VII e A2) sul
Precipizio degli Asteroidi (1977) e Il naufragio degli Argonauti
(400 m, VIII e A3) ancora sul Picco Darwin (1977). E' quindi la volta
delle vie lungo “pareti e grandi pareti alpine inesplorate percorse in
libera”. Delle prime, quelle sulle “pareti”, ricordiamo soltanto
Perduti nello spazio (600 m, VII, 4 ancoraggi intermedi)
sull'Anticima del Cavalcorto (1977) mentre delle seconde, quelle sulle
“grandi pareti”, non possiamo dimenticare Tramonto della Luna
(900 m, VI+, nessun ancoraggio intermedio) e Nelle stanze del passato
(900 m, VII-, 2 nut intermedi) entrambe sul Sasso Manduino (1978 e
1983). Ancora sul Manduino, nel 1979, Guerini salì in solitaria
Trapasso nel vero (1000 m, VII+, con due tentativi di
autoassicurazione falliti e materiale lasciato in parete per documentare
il proprio passaggio). Concludiamo con le “vie in falesia salite in
libera a protezione naturale”, per le quali Ivan tiene a precisare che
si tratta d'itinerari lungo i quali le difficoltà sono concentrate in
brevi tratti e che, proprio per questa ragione, risultano non
confrontabili con le vie di continuità percorse utilizzando gli spit.
Ricordando che nel comprensorio lariano Guerini ha aperto in tutto circa
novecento vie “di palestra”, delle quali si sente spesso parlare come se
fossero degli autentici fantasmi, dei centotrenta itinerari sulla
Costiera dell'Avorio, a picco sul lago di Lecco, citiamo L'uomo verso
la scimmia (130 m, VII, 2 ancoraggi intermedi, 1979),
Dacrongenesi (120 m, VIII+, 8 ancoraggi, 1981), Apotema del
crollo (55 m, IX+, 7 ancoraggi, 1982), Meraviglie da non toccare
(80 m, VIII, 9 ancoraggi, 1986) e La fine del potere (50 m,
IX+, 14 ancoraggi, 1988). Passando alle cinquanta vie sul Sipario Ocra,
sulla Torre Striata e sulle Pareti di Pradello, poco distanti dalla
Costiera dell'Avorio, risalgono al 1980 Mano Bong (100 m, VII, 4
ancoraggi) e I Fessuriani (110 m, VII+, 5 ancoraggi), le uniche
celebri della nutrita schiera (Alessandro Gogna le incluse nel suo
Cento nuovi mattini). Del 1981 sono invece Terra, vento e fuoco
(60 m, VIII-, 5 ancoraggi) e Avvertimento lenticolare (25 m,
IX-, 4 ancoraggi). Potremmo citare anche qualche itinerario della
Falesia di Fiumelatte – su quella selvaggia ed estesa bastionata, alta
fino a duecento metri, il nostro instancabile esploratore ha tracciato
circa ottanta vie – ma preferiamo fermarci, tornare all'inizio del
curriculum e rileggere una breve annotazione. Ivan titola la lista
Le ascensioni significative e, un po' a sorpresa, precisa che
sono state «percorse senza studi a distanza, prove, cadute, sostegno
d'integratori e farmaci ed elettrostimolazione».
Ivan e la val di Mello
Ma
cosa significa per Ivan andare in montagna? O, meglio, cosa cerca
durante i suoi viaggi in parete? La risposta è semplicissima: ciò che
non si aspetta. Ossia tutto quello, spiega, «che è stato scagliato tanto
lontano dall'immaginazione da annientare sia la logica sia l'intuizione.
Più di una volta, trovandomi inaspettatamente nell'incertezza, sono
giunto in vista del massimo coinvolgimento, di ciò che spiega le
questioni più difficili». Su questo sfondo di base la val di Mello fu il
luogo della spensieratezza giovanile, dove i concetti di vetta, di
parete, di falesia e persino di “altopiano” e di “Nuovo Mattino”
svanirono: lassù, in quel mondo scoperto un po' per caso e un po' grazie
alle parole di Gian Piero Motti, Guerini si soffermò a lungo
diventandone il “profeta”, per certi versi contrapposto agli
arrampicatori locali, i cosiddetti Sassisti.
«Ivan
viveva in una baitella e da lì partiva alla volta delle pareti e dei
sassi arrampicando a tempo pieno - racconta Giuseppe Miotti -. Bisogna
dire che furono proprio la sua sensibilità e la sua bravura che aprirono
la strada e la mente anche ai Sassisti. Ivan era un po' come il
messia del “nuovo verbo”, parlava dolce e difficile e parlava, allora,
anche di una specie di amore universale con le rocce e sulle rocce.
L'armonia che lui tanto predicava era certo assai attraente e noi tutti,
grezzi provinciali, attraversammo un periodo di profondo invaghimento
per il personaggio (mi risulta che la cosa sia comune a tutti quelli che
hanno conosciuto Ivan). Guerini fu il primo in tutti i sensi e non solo
in Lombardia; fu il primo ad arrampicare sui massi con fini che non
fossero quelli del mero allenamento, fu il primo a capire quanto fosse
importante un allenamento specifico e costante e fu il primo ad aprire
itinerari concepiti e risolti quasi sempre in funzione dell'arrampicata
libera».
Parole
di stima di colui che Guerini definisce il “logico realizzativo” dei
Sassisti alla cui testa, in verità, secondo Ivan esisteva anche un
secondo leader: Antonio Boscacci. Miotti e Bosca, dunque:
«Personalità dagli intenti antitetici - sostiene il “profeta” - attorno
alle quali gli altri ragazzi si mossero come satelliti. Fu proprio il
divario tra i due “capi” a consentire la libertà dei singoli i quali,
molto semplicemente, facevano i cavoli propri secondo le occasioni del
momento. E se è vero che per alcuni il lavoro era soltanto un
optional necessario, per Antonio era una questione diversa. Egli,
più che pensare alle montagne, credeva fermamente nell'insegnamento, che
praticava con la stessa caparbietà con cui affrontava le pareti. Si
disse che tra noi sorsero attriti, con tanto di guerra fredda nel nome
di misteriose suole in grado di sostenere l'arrampicatore anche sulle
placche più lisce... In verità fu inevitabile che quei ragazzi,
vedendomi tanto diverso nel modo di vedere e di descrivere la roccia,
tendessero a “mitizzarmi”, al punto che per loro divenni più
inafferrabile della via meno percorribile. Ma cosa ci divideva
veramente? Il fatto che, se i Sassisti volevano essere i primi
sulle loro montagne, io desideravo soltanto conoscerle».
Una ricerca silenziosa e nascosta
Agli
anni e alle vie della val di Mello, irripetibilmente frizzanti,
seguirono periodi diversi, un “andare oltre” alla ricerca di luoghi
inesplorati e nascosti. E come compiere questa ricerca? Combinandola con
una scelta di vita radicale di più ampia portata, non legata
esclusivamente all'arrampicata e alla roccia ma che, pur ponendo Ivan in
ombra rispetto alle luci della ribalta storica - anche se, più che di
storia, sarebbe meglio parlare di cronaca - gli consentì quella che egli
definì “sopravvivenza sociale”. «Ecco - disse un giorno il nostro
protagonista in un momento di “pensiero acuto” -: riflettendo sulle
ingiustizie che la storia rivela sempre e soltanto quando giustizia non
si può più fare, ritengo che il vero inganno non dipenda tanto dallo
“star dentro” o dallo “star fuori” rispetto alla storia stessa. Il
problema ultimo è che, anche se storicamente un individuo può avere un
ruolo, più difficilmente possiede un'identità sociale. Di conseguenza
l'identità extrastorica, più che una forma di anarchia, rappresenta una
vera e propria forma di “sopravvivenza sociale”».
Un codice rigoroso
Oggi
l'alpinismo è come raggelato. Lo abbiamo detto all'inizio: è muto, senza
sentimenti. E in verità Ivan non si è mai sentito un alpinista, è sempre
stato libero dai condizionamenti tipici del comune approccio alle
pareti, e vedendolo arrampicare si ha proprio questa impressione: non
che rifiuti il passato con i suoi grandi personaggi, tuttavia le imprese
e i celebrati eroi di un tempo, una volta filtrati al suo setaccio, si
presentano in una luce nuova e sempre imprevedibile. Più che al fatto
tecnico, ridotto ad un semplice corollario, Ivan porta la sua attenzione
al discorso umano e di scoperta, alle motivazioni alla base di una
determinata azione. Di conseguenza i suoi giudizi si basano su criteri
“insoliti” che, se possono indispettire qualcuno, alla fine aprono
prospettive nuove e forse sconfinate.
Guerini, forte della sua non dipendenza da qualsiasi condizionamento -
una libertà frutto di una scelta di vita particolare nella quale il
legame con Monica è determinante - non ha mai avuto paura di esprimere
compiutamente, rifiutando ogni compromesso, le proprie idee e i propri
principi: ecco allora il rifiuto assoluto della perforazione della
roccia – un'azione vista come eliminazione brutale e infantile della
naturale compattezza dello scheletro della terra, una riduzione della
natura ai propri bisogni in nome di un illusorio divertimento basato su
una concezione puramente estetica dell'arrampicata -, ecco in secondo
luogo l'esaltazione dell'esperienza in ambienti sconosciuti, dove la
scalata non si riduce a semplice movimento ed ecco, infine, l'elogio
della “libera autentica”, compiuta piazzando protezioni naturali e
arrampicando “liberi” tra un chiodo e l'altro.
Oltre le montagne
Ivan
il “profeta”: oggi, forse, un uomo che grida nel deserto. Eccolo che
pensa, scrive, disegna, arrampica: la sua voce giunge ai pochi amici, a
coloro che sono disposti ad ascoltarlo, ed è una voce in grado di dare
la carica, che spinge a controllare le proprie paure tanto in montagna
quanto nell'ordinaria quotidianità. Abbiamo tanto parlato di lui, eppure
è rimasta in noi l'impressione di non essere riusciti a cogliere il
nucleo del suo pensiero. Che sia perché va al di là delle rocce, perché
ha bisogno di spazi più vasti delle pareti per esprimersi compiutamente?
Quando gli
domandammo cosa rappresenti per lui l'amicizia ci diede una risposta
difficilmente dimenticabile, più importante di qualsiasi scalata:
«L'amicizia – disse – è un legame svincolato da intenti, che non ha
bisogno di essere alimentato. E che permette, incontrando di nuovo dopo
anni e senza una precisa ragione una persona, di riprendere insieme il
cammino comune, lasciato un tempo in sospeso. In quei momenti “tutto
torna”: ci si accorge che nulla è andato perduto e non ci si ritrova
disorientati, estranei. Amici preziosi sono coloro coi quali mi lancio
ad esplorare il senso dell'agire nel mondo: coloro che, a settant'anni,
conservano un'incontenibile energia adolescenziale. Amici forti,
modesti, veri: degli autentici compagni di viaggio il valore dei quali
supera certamente quello delle montagne. E nella mia storia, ad un certo
punto, comparve una persona la cui importanza oltrepassa di gran lunga
quella delle vette e delle pareti: mia moglie Monica Mazzucchi. Nata in
Argentina, a Buenos Aires, da genitori italiani, rimase laggiù otto
anni, fino al 1963. C'incontrammo alle scuole superiori e le feci
immediatamente “una testa così” sulle mie camminate e arrampicate… Fu
tanto colpita dall'intensità delle mie descrizioni che volle seguirmi:
la sua prima via in montagna fu la Gandin sul Torrione del
Cinquantenario, in Grignetta. Con Monica, da subito, mi lanciai
nell'estenuante e rischiosa fatica di capire la vita, della quale
l'andare in montagna, pur importante, è soltanto una parte, e con lei
compresi che, prima di capire le montagne, è necessario capire se
stessi».
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© luglio 2003 intraisass