Doktor Faustus
è l'ultimo grande romanzo di Thomas Mann. Pubblicato nel 1947, è la
tragica storia del musicista tedesco Adrian Leverkühn che, come Faust,
ottenne dal demonio anni di stupefacente attività creativa ed
intellettuale in cambio della dannazione eterna. Mann affida la
narrazione della vicenda ad un amico di Adrian, il letterato Serenus
Zeitblom, che con ricercata misura ed equilibrio (e non senza timore),
racconta una vicenda dai tratti inquietanti e misteriosi, un viaggio in
un mondo dove l'umanistica fede nella ragione vacilla irrimediabilmente
e nel quale momenti e luoghi sono impregnati di arcano medioevo. E tanto
impegnativo e oscuro sarebbe stato il soggetto da trattare che lo
scrittore, premio Nobel nel 1929, prima di intraprendere la grande
fatica invoca le Muse con le stesse parole di Dante: «Lo giorno se
n'andava e l'aer bruno / toglieva gli animai che sono in terra / dalle
fatiche loro, ed io sol uno / m'apparecchiava a sostener la guerra / sì
del cammino e sì della pietate, / che ritrarrà la mente che non erra. /
O Muse, o alto ingegno, or m'aiutate, / o mente che scrivesti ciò ch'io
vidi, / qui si parrà la tua nobilitate» (Inferno, canto II).
Chiedo
immediatamente scusa al lettore per la lunga citazione ma,
nell'accingermi a ricordare la figura di Gian Piero Motti a vent'anni
dalla sua scomparsa, sono proprio i versi del sommo poeta fiorentino -
per l'uso che ne fa Thomas Mann - a venire alla mente con prepotenza. Il
motivo di ciò lo lascerò soltanto intuire – anche se, per chi conobbe
Gian Piero, è quasi certamente già chiaro – e dirò invece che l'idea di
scrivere qualcosa a proposito di colui che è stato definito “il filosofo
dell'alpinismo” era già da tempo quiescente nella mia testa. Non so se
Motti avrebbe approvato questo lavoro, tuttavia il fatto che egli abbia
dedicato pagine mirabili a un amico scomparso, Paolo Armando, mi lascia
fiducioso.
Vent'anni,
dicevamo. Ebbene sì: tanto tempo è già passato dalla morte di uno dei
più raffinati interpreti dell'alpinismo italiano tra gli anni Sessanta e
Settanta, scrittore prolifico e studioso di sensibilità e acutezza
straordinarie. Ma ogni etichetta e definizione sembra star stretta al
“Principe”, come fu chiamato per la sua proverbiale eleganza
nell'arrampicata, e affermare che Motti fu il padre del “Nuovo Mattino”
potrebbe forse collocarlo per molti in una posizione maggiormente
definita se non fosse che, purtroppo, proprio il concetto di “Nuovo
Mattino” è stato spesso travisato e ridotto a sinonimo di “arrampicatore
con fascia nei capelli”. Lo sforzo di queste pagine sarà allora quello
di presentare in modo più o meno originale la figura dell'alpinista
torinese basandosi sui suoi scritti e, soprattutto, sulle preziose
testimonianze di alcuni tra coloro che, in modi diversi, ebbero modo di
conoscerlo. «I suoi articoli e studi dicono di lui più di quanto non
appaia a prima vista – spiega Alessandro Gogna, che lo incontrò per la
prima volta nel 1967 ai piedi dell'Uja di Mondrone -. Con questo non
voglio sostenere che abbia sempre scritto “tutto”, perché molte idee non
ebbe mai il coraggio di fissarle sulla carta: si limitava a discuterne
con pochi amici, nell'anima dei quali rovesciava un incredibile flusso
di pensieri».
Gian Piero Motti
nacque a Torino il 6 agosto 1946. Si accostò giovanissimo alla montagna
e nel 1972 venne ammesso nelle file del Club Alpino Accademico Italiano.
L'anno seguente entrò a far parte anche del GHM (Groupe de haute
montagne) francese e, a metà degli anni Settanta, aveva alle spalle una
notevole attività alpinistica nella quale spiccano la prima solitaria
del Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, altre ripetizioni
di rilievo nel gruppo del Bianco (una tra tutte: la Cassin sulla
Nord delle Grandes Jorasses), salite di grosso impegno tecnico in
Dolomiti (come lo Spigolo degli Scoiattoli della Cima Ovest di
Lavaredo), numerose prime invernali e un'importante attività di ricerca
sulle pareti delle valli piemontesi. Un curriculum da far invidia ai più
accaniti collezionisti di salite che è tuttavia rimasto almeno in parte
nell'ombra, in pratica oscurato dalla ingente mole di articoli,
monografie, introduzioni, traduzioni, opere di grande respiro alle quali
Motti lavorò con alacre puntiglio e a cui è legata la celebrità di
quell'uomo “alto, fragile e bello” – sono parole di Andrea Gobetti – che
nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1983 decise di lasciarci e di
tornare tragicamente, di propria volontà, da dove era venuto.
Il percorso di
Motti rappresenta un fatto unico e straordinario nella storia
dell'alpinismo, un cammino del tutto personale che, come spiega ancora
Gogna «si mosse da alcune domande fondamentali sul passato e sul
presente, riferite ovviamente anche alla montagna. La svolta decisiva
avvenne il 15 giugno 1975 quando egli ebbe, ricercata, un'esperienza
visionaria mentre si trovava nella sua amata Val Grande di Lanzo. Dopo
quel momento molti si resero conto che quell'uomo “aveva visto” più
degli altri e “sapeva” più degli altri». Se è vero che lui stesso
riconobbe che l'esplorazione delle montagne era stata compiuta da due
categorie di alpinisti, quelli “del pensiero” e quelli “dell'azione”, e
che egli potrebbe a prima vista rientrare a pieno titolo nel secondo
gruppo, ad un'analisi attenta il nostro protagonista trascende una
distinzione che appare piuttosto scontata. Gian Piero comprese che
l'alpinismo non era soltanto ciò che tutti vedevano, raccontavano o
praticavano: scendendo oltre la ruvida superficie si poteva scoprire
come fosse un'allegoria del mondo e della vita, una sorta di punto
d'osservazione privilegiato dal quale scrutare con attenzione fatti ed
accadimenti di ogni genere. Le parole di Ivan Guerini, per molti
soltanto l'artefice di alcune grandi vie della Val di Mello ma in verità
instancabile “lettore” della roccia, in grado di sviscerare il senso più
recondito delle cose (basta un'affermazione apparentemente banale per
procurare la sua incredibile reazione che, spesso, si materializza in
interminabili conversazioni telefoniche), le parole di Guerini,
dicevamo, sono a questo proposito illuminanti: «Per la semplicità del
suo modo di scrivere – spiega il primo salitore di Oceano irrazionale
-, coadiuvato da una formidabile lucidità analitica e da una perspicace
capacità deduttiva, Gian Piero riuscì a farsi strada con sapienti
collegamenti fino al senso delle vicissitudini storiche più velate e
complesse. Avendo ben chiaro ciò che voleva dire, più che trasferire
nell'alpinismo i concetti acquisiti tramite le sue letture che
spaziavano in diversi campi culturali, egli interpretò fatti non
indagati arrivando a far luce sui punti dubbi e oscuri della storia».
Motti, in altri termini, come chiarisce Roberto Mantovani, attuale
direttore della Rivista della Montagna, «ebbe il coraggio di
esplorare una dimensione che non era soltanto alpinistica e si lanciò in
un mondo complesso, scoprendo ciò che risulterebbe difficile da
spiegare: spinse il suo sguardo oltre i presunti confini della ricerca
storica e intuì ciò che tutti ignoravano. Dipinse panorami nuovi e
divenne una sorta di profeta, un uomo in grado di comprendere ciò che
sarebbe accaduto in seguito al ‘tradimento’ del “Nuovo Mattino”».
Molti lo
conoscono attraverso i suoi scritti, tra i quali ve ne sono alcuni
diventati punti di riferimento per un'intera generazione di alpinisti.
Ma cosa ha veramente voluto comunicare Motti attraverso pagine
memorabili come Riflessioni, I Falliti, Il Nuovo
Mattino, Zero the Hero o Arrampicare a Caprie? Una
risposta completa sarebbe troppo complessa e richiederebbe un'analisi
attenta di ognuno degli articoli citati: diremo soltanto che Gian Piero,
attraverso una meditata provocazione, voleva presentare un ‘modello’ di
alpinismo antitetico a quello allora comunemente inteso. «Il “Nuovo
Mattino” – continua Mantovani - all'inizio fu un momento di forte
rottura. Non fu la negazione dei pantaloni alla zuava e l'esaltazione
della fascia nei capelli: Motti desiderava ‘soltanto’ proporre un
alpinismo più umano, slegato dalla sofferenza e dall'ostentato e
retorico eroismo. E per far questo era necessario scendere, abbandonare
per un certo tempo le grandi montagne e dedicarsi ad avventure su pareti
che, salendo dai prati verso i prati, permettevano di cancellare l'idea
del dolore e della morte con la conseguente riacquisizione di un
profondo umanesimo della montagna». Era l'esaltazione della vita in
parete, di un ritrovato rapporto tra l'uomo e la natura con il gesto
che, compiuto sulle rocce del fondovalle piuttosto che sulle ciclopiche
muraglie alpine, non perdeva comunque alcun significato: potrebbe
sembrare paradossale ma, a livello di vissuto interiore, per il
“Principe” esisteva perfetta coincidenza tra il trovarsi sulla
Nord-Ovest del Civetta o su una solare placca granitica a pochi metri da
terra. Scendere per poi risalire, lasciare il mondo di cristallo
dell'alta quota per tornarvi con uno sguardo nuovo: ecco l'essenza del
“Nuovo Mattino” che, nelle intenzioni di Motti, non avrebbe avuto alcuna
ragione di esistere se non in funzione delle “Antiche Sere”, ossia del
grande ritorno che ricorda quello di Ulisse ad Itaca. Anche se, come
spiega perplesso Alessandro Gogna, «le “Antiche Sere” sono forse la
contemplazione dell'irraggiungibile».
L'arrampicata
californiana, della quale tanto si parla quando si ricorda il nostro
protagonista, non era il suo ‘fine ultimo’: per Gian Piero rappresentava
soltanto una chiave, un possibile mezzo per illustrare la rivoluzione.
Spiega Ivan Guerini: «Non era difficile capire che per lui la
psicanalisi e il mito non erano un fine esaltante, ma uno strumento
interpretativo di significati, tanto quanto l'alpinismo californiano era
un pretesto per parlare del “Nuovo Mattino”». Egli, in verità, aveva in
mente una California ideale che avrebbe potuto realizzarsi in qualunque
luogo. Quando, era il 1980, la Rivista della Montagna pubblicò
Zero the Hero, furono molti coloro che non capirono il senso di
quella pagina bianca e delle carte del ‘matto’ e dell'‘appeso’ dei
tarocchi inserite nel testo. Quella volta Motti aveva lanciato una
provocazione assoluta, proclamando a gran voce la necessità di azzerare
ogni cosa ribaltando un ordine ormai privo di ogni senso e necessità. Fu
una sorta di estremo appello che cadde nel vuoto – e forse non poteva
essere altrimenti - e Arrampicare a Caprie, edito nel 1983 e
denso di riferimenti psicoanalitici, non è altro che l'amara
constatazione della fine del “Nuovo Mattino”, il crollo di un'illusione
che diventa metafora della vita. «Il free climbing – scrive Motti in
quello che fu il suo ultimo lavoro -, inteso non tanto nel senso di
“arrampicata libera” ma in quello più ambizioso e filosofico di “libero
arrampicare”, pareva essere nato come espressione di libertà e di
assoluta disibinizione. Ahimè... ora ci si va accorgendo che invece ha
portato gli alpinisti a schiavitù, dogmi, imposizioni, divise da
portare, fazioni, provincialismi, miti e mitucci dell'uomo muscolo alla
Bronzo di Riace, glorie e gloriuzze, re e reucci di paese... un quadro
forse peggiore di quello dell'alpinismo di ieri. Il “Nuovo Mattino”
rappresentava la possibilità di estendere la dimensione dello spirito a
quelle strutture rocciose che erano invece ripudiate dagli alpinisti
tradizionali. Era la possibilità di vivere la dimensione spirituale in
una fase critica e delicata, in cui era necessario allontanarsi per un
po' dalla grande montagna [...]. Ma dopo era necessario tornare,
discendere; e il “Nuovo Mattino” era nato proprio come ponte per
raggiungere la pianura dalla quale si sarebbero cominciate a scorgere le
altre montagne, quelle vere, quelle che avrebbero portato all'Altopiano
della Vita [...]».
L'ideale di vita
di Gian Piero Motti, ridotto ai minimi termini, era la ricerca della
propria strada, della propria via: un cammino personale che, una volta
individuato, si dischiude man mano che lo si percorre. «Quando gli
chiesi notizie sulle pareti della Valle dell'Orco – racconta Guerini –,
mi disse che in Val Masino esistevano placconate non ancora salite, alte
e difficili. Oggi, ripensando a quel momento, credo che Gian Piero abbia
voluto sussurrarmi di non seguire la strada degli altri ma di cercare la
mia: “Quella che ora non vedi ma che si dischiuderà mentre la
percorri!”. E così continuai per la via già imboccata sulle pareti delle
Grigne».
«Era un uomo
impegnato in una lotta totale – ricorda Gogna -, che aveva capito che
‘la salvezza’ non può arrivare dall'alleanza con gli altri. Per questa
ragione era forte, volitivo e testardo nelle cose che gli interessavano.
Fu un rivoluzionario, ma nel profondo: ciò contrastava con il suo
comportamento, con il suo fare borghese ostentato, con il suo vestire
sempre in ordine e con il suo intellettualismo. Era, in breve, una
persona che non sapeva fingere». Dalle parole di Roberto Mantovani, al
quale Motti ha probabilmente lasciato non poca parte della sua eredità
spirituale, emerge un personaggio di grande spessore culturale, di
mentalità apertissima e, particolare di non secondaria importanza,
autodidatta senza compromessi: un giovane, Gian Piero, che risaltava nel
rigido ambiente alpinistico torinese della scuola Gervasutti, un
arrampicatore di classe che si faceva notare nei rifugi per la sua
finezza e sensibilità, in grado di sgretolare la spesso ostentata
volgarità di certi montanari incapaci di strutturare il più elementare
ragionamento. «Era spesso portatore di grande allegria – ricorda ancora
Mantovani –, amante della compagnia oltre che, naturalmente, incredibile
conversatore. Non gli mancarono le fidanzate, tuttavia vedeva in
personaggi come Gervasutti, al quale dedicò uno dei capitoli più
straordinari della sua Storia dell'Alpinismo qualcosa di elevato
e nobile». Un punto di vista, quello del direttore dello storico
periodico torinese, che coincide con quello che Guerini presenta in
significativo aneddoto: «Era il 1981. Ricevetti una telefonata di Gian
Piero che voleva avere la mia biografia per l'Enciclopedia della
Montagna. Quando ci incontrammo, in quel di Torino, passammo insieme
un'intera giornata e mi resi inaspettatamente conto di un lato nascosto
della sua personalità: nei momenti in cui si sentiva a suo agio era un
personaggio di squisita ironia. Non ricordo se durante i nostri incontri
successivi passammo più tempo a parlare o a ridere degli aspetti più
paradossali dell'esistenza... Con lui gli argomenti interessanti
venivano a galla spontaneamente, con naturalezza, ma capitava spesso di
finire seduti a terra, uno di fronte all'altro, a ridere e soltanto
ridere, come se l'intensità di quei ragionamenti vorticosi ci avesse
svuotati. L'ironia, comunque, non era un prendersi gioco della realtà,
ma un modo per visualizzare ciò che ci sembrava grottesco».
Abbiamo già
accennato all'eleganza di Gian Piero che si manifestava in pienezza
durante l'arrampicata: lo stesso Guerini, che la prima volta lo vide
impegnato sulla Gogna in Medale, lo ricorda fulmineo, leggero,
capace di “scorrere in verticale” con movimenti ampi ed eleganti. «Era
una persona dai modi gentili e delicati – aggiunge Ivan -, tanto nello
scalare quanto nel pensare e nello scrivere. Era un ragazzo
terribilmente appassionato che si recava spessissimo in montagna per
compiere salite belle ed impegnative, sempre entusiasta ed eccitato
dalla scoperta di posti nuovi. Ma era anche un giovane che leggeva in
continuazione libri su libri, testi faticosi e difficili». Così ancora
oggi non è difficile immaginarlo immerso nei suoi studi, impegnato in
un'avventura davvero titanica alla quale accennò, non troppo vagamente,
in una lettera inviata a Ugo Manera nel 1980. Motti scrisse di «una
forza enormemente più grande e più forte di me» che lo aveva chiamato ad
«un lavoro oscuro, terribilmente difficile ed ingrato. Un lavoro
compiuto e da compiere tutto con il pensiero, dove si incontrano pareti
immense, sconfinate, da affrontare in una solitudine che non lascia
speranze». Egli giunse a scorgere simboli e significati oltre la scorza
delle rocce, a penetrarne il mistero, a profetizzarne il divenire in
vana attesa del sospirato ritorno. Il suo viaggio non ebbe mai termine e
le visioni di un tempo - come quella dell'agosto 1973, in compagnia di
Roberto Bianco, ai piedi dei Piloni del versante meridionale del Monte
Bianco - erano destinate a rimanere tali. «Ero in testa in quel tratto –
scrive Gian Piero nel numero del 1979 di Scandere, il glorioso
annuario del Cai di Torino –. Ancora una volta ebbi l'apparizione.
E vidi. Vidi la parete del sogno, la parete perfetta
nella luce delle prime ore del pomeriggio, i tre pilastri
rossi, verticali, simbolici. In quell'attimo tutto
tornò sacro, svanì l'incantesimo malvagio, mi
sentii come purificato e leggero» (corsivo mio). Sono parole che
richiamano alla memoria quelle di un altro grande, il francese Bernard
Amy, che nei suoi racconti parlava di una montagna magica, allegoria del
Caos e del Cosmo, del disordine e della razionalità, delle
più alte aspirazioni e dei più squallidi desideri. La montagna, in
sintesi estrema, come luogo privilegiato per elevarsi oltre
l'“insostenibile pesantezza dell'essere” ma anche dove lasciar scatenare
l'egoismo e il lucido desiderio di annientare persino il proprio simile.
«Oggi – fruga nei
ricordi Ivan Guerini -, ho l'impressione che certe considerazioni di
Gian Piero siano state tanto intime e profonde da assomigliare a quei
sogni dei quali non si ricorda nulla ma che, a distanza di tanto tempo
dischiudono il loro significato. L'ultima volta che lo vidi fu nel
novembre 1982. Nel tardo e piovoso pomeriggio di quell'intensa giornata
d'autunno, durante la quale mi parve di aver parlato di tutto, mentre si
andava alla stazione e il traffico sfrecciava convulso intorno a noi,
egli guidava piano pronunciando lentamente le parole. Sembrava quasi
evidenziare che, nello stesso momento, la realtà è composta da elementi
paralleli e differenti... Lo salutammo, io e Monica, di corsa verso il
treno in partenza, e quando giungemmo davanti al vagone provammo il
rammarico di chi intuisce di aver visto per l'ultima volta una persona
cara: mi voltai per un ultimo saluto ma egli era già scomparso, come uno
spettro nel mondo frettoloso dei vivi. Ci lasciò l'anno seguente. Un
giorno Monica mi disse che nella vita c'è un punto, non importa a che
altezza, giunti al quale si decide inconsciamente di cominciare a
morire...».
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