Oggi Riccardo Cassin ha novantaquattro anni, essendo nato il 2 gennaio 1909 a
Savorgnano di San Vito al Tagliamento. Friulano d'origine, vive a Lecco
dal 1926 e, pensando alle sue imprese alpinistiche, vien da chiedersi
cosa sarebbe stato di lui se non fosse giunto giovanissimo e in un
preciso momento storico nella città ai piedi delle Grigne e del Resegone.
Perché alla base dei suoi successi in ogni settore della catena alpina
sta una preparazione metodica - simile a quella dei rappresentanti della
famosa “Scuola di Monaco” - compiuta sulle pareti e sui pinnacoli delle
montagne di casa.
Se alla fine
dell'Ottocento e nei primi anni del Novecento le vette lecchesi erano
state oggetto dell'attenzione dei facoltosi milanesi e, successivamente,
anche di alpinisti provenienti da altre località – ricordiamo soltanto
Arturo Andreoletti e il varesino Eugenio Fasana -, verso il 1930 dalla
Lecco operaia sorse un nutrito manipolo di rocciatori che ogni domenica,
salendo a piedi dalla città lungo la val Calolden, si recava in Grignetta. I protagonisti di quelle incredibili avventure, oltre a
Cassin, erano i vari Mario Dell'Oro, più noto come Boga, Vittorio Panzeri, Augusto Corti, Antonio Piloni, Vittorio Ratti, Luigi Esposito...
Arrampicatori di classe indiscussa che, nel giro di pochi anni, si
sarebbero affermati come una delle più solide e brillanti realtà
dell'alpinismo europeo, in grado di primeggiare tanto nelle Dolomiti
quanto sulle pareti di misto delle Alpi Occidentali. Nel cuore del
cosiddetto “periodo del sesto grado”, inaugurato da Emil Solleder e
Gustav Lettenbauer nel 1925 con la prima salita della parete nord-ovest
del Civetta, i lecchesi arrivavano, osservavano e passavano, senza alcun
timore reverenziale e sostanzialmente estranei ad un regime che non
mancò di esaltarne le gesta.
Le Grigne
rappresentarono per Cassin un meraviglioso terreno d'avventura: nel giro
di pochi anni egli percorse i vecchi itinerari e si cimentò
nell'apertura di nuove vie che, ancora oggi, sono guardate con rispetto.
In particolare merita di essere ricordata quella lungo la parete sud
della Torre Costanza che, tracciata nel 1933, risolse con difficile e
faticosa arrampicata artificiale il problema dell'evidente fessura
strapiombante che incide la compatta e giallastra bastionata. «La Grignetta era lì: una bella montagna da scalare – racconta Riccardo -.
La dome-nica salivo lassù e cercavo quelle vie che non erano state anco-ra
percorse... La mia preferita? Quella sulla sud del Costanza: mi ha sempre
attirato parecchio. Le altre grandi vie in Grigna, come quelle sul Sasso
Cavallo e sul Sasso dei Carbonari (le cui pareti, sulle quali negli anni
Trenta in pochissimi osarono cimentarsi, raggiungono rispettivamente i
500 e i 700 metri d'altezza, ndr) erano da “fare” e nulla più...
Per me non aveva-no niente di speciale: le montagne più imponenti, in
tutta sincerità, non mi hanno mai spaventato. Fu dopo tante scalate in Grignetta che andai in Dolomiti e al Bianco...».
Il grande
vecchio dell'alpinismo mondiale è di poche parole: osserva sornione e
divertito il suo malcapitato interlocutore - che vorrebbe sapere
qualcosa in più, annotare qualche ulteriore dettaglio - e ride senza
aggiungere altro. Una risata appena accennata, quasi diabolica, che
sembra esprimere l'essenza del suo modo di agire che, spesso, non fu
altro che un prendersi gioco, certamente inconsapevole, delle difficoltà
che le pareti gli opponevano. Cassin era mosso da una determinazione
inesauribile, alimentata a sua volta da un ragionamento elementare,
brutalmente essenziale, che non lasciava spazio ad alcuna sottigliezza.
E fu proprio questa, come vedremo, la sua carta vincente: egli, in
occasione di ogni salita, mai badò a quanto era stato detto e fatto
prima del suo arrivo. Perfettamente cosciente delle proprie possibilità,
apparentemente illimitate, fissava la montagna davanti a sé e, con
l'unico pensiero di concludere la salita, cominciava ad arrampicare.
Non è l'età
avanzata che l'ha reso taciturno perché lui, Riccardo, in verità è
sempre stato così, come testimonia un articolo apparso l'8 settembre
1934 sul settimanale Il popolo di Lecco e relativo alla brillante
ripetizione, portata a termine in compagnia del Boga e di Gigi
Vitali - un altro personaggio di primo piano nel mondo alpinistico
lecchese, primo salitore, con Vittorio Ratti, della parete ovest dell'Aiguille
Noire de Peutérey - della Comici-Dimai sulla parete nord della
Cima Grande di Lavaredo. «Intervistare Riccardo Cassin sulle sue
prodezze alpinistiche è faccenda assai seria – scrive il cronista -;
qualche cosa come affrontare un... sesto grado. Dopo i primi approcci vi
accorgerete che la penna è superflua e che meglio sarebbe sostituirla
con un... cavaturaccioli. Atleta completo sotto ogni aspetto – fisicamente
forte, agile, prudente e calmo, sia nei passi estremamente difficili che
in quelli trascurabili – sembra estraneo a tutto ciò che si riferisce alle sue doti eccezionali e alle sue brillanti imprese crodaiole. Cassin
sembra quasi trascurato di se stesso e questa trascuratezza rasenta
talora l'ingenuità».
Il primo
incontro di Cassin con la roccia risale al 1929 quando, con un gruppo di
impavidi giovani compagni, raggiunse la vetta della Guglia Angelina, in
Grignetta, salendo per la via normale. Dopo le realizzazioni sulle
montagne di casa, alle quali abbiamo già accennato e che rappresentarono
un tirocinio ideale, il nostro personaggio ebbe l'opportunità di
cimentarsi con le grandi pareti dolomitiche. Fu Emilio Comici, durante
un memorabile soggiorno a Lecco nell'estate del 1933, a lanciarlo: il
triestino ebbe modo di apprezzare le doti di quei ragazzi ormai abili
nell'arte dell'arrampicata pura ed insegnò loro, a parole e con
l'esempio, le nuove tecniche di progressione artificiale. «Poter vedere
arrampicare Comici, ascoltarne i consigli, penetrarne la mentalità fu
per noi fortuna rara – scrive Cassin nel suo volume autobiografico
Dove la parete strapiomba (1958) -. Lo considerammo maestro; molto
alla mano e sempre cordiale, Comici fece sì che i rapporti fossero
improntati a schietto cameratismo. La progressione artificiale, che per
noi della Grigna era un semplice “sentito dire”, già costituiva per
Comici il gioco preferito che gli consentiva un notevole risparmio di
energia, permettendogli contemporaneamente di passare là dove sino ad
allora era proibito. Fu al Nibbio (uno dei luoghi storici
dell'arrampicata lecchese e lombarda, situato ai piedi della Grignetta e
caratterizzato da una larga parete strapiombante alta circa novanta
metri e rivolta a nord, ndr) che per la prima volta si introdusse
in Grigna la doppia corda con la salita a forbice e l'uso delle staffe».
Il 1934 segnò
l'ormai inevitabile uscita di Cassin e compagni dall'ambiente lecchese,
con un deciso allargamento di orizzonti rispetto alle familiari torri
della Grignetta. Nell'estate di quell'anno, oltre alla parete nord della
Cima Grande di Lavaredo, Riccardo salì in prima ascensione la parete
sud-est della Piccolissima. Seguirono, nel 1935, la prima ripetizione
della Comici sulla nord-ovest del Civetta, il capolavoro sullo
spigolo sud-est della Torre Trieste e la soluzione di quello che,
all'epo-ca, era considerato il problema principe dell'arrampicata
dolo-mitica: gli strapiombi della parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, tentati in precedenza ben ventisette volte. Cassin e Vittorio
Ratti vi misero mano e li superarono al primo colpo portando a termine,
come si legge ancora ne Il popolo di Lecco, una «spettacolosa e
chiara affermazione internazionale» che ebbe «la più larga eco nella
stampa italiana ed estera e fra gli alpinisti più quotati. Ciò non
meraviglia, data la leggenda di invincibilità che s'era creata attorno
la famosa parete il cui caratteristico rigonfiamento sembrava una sfida
all'ardimento umano e ai mezzi che la tecnica aveva reso familiari». Il
settimanale dedica un'intera pagina alla grande impresa e, pur non privo
di roboante e stucchevole retorica, lo scritto che la racconta è un
documento importante tanto per cogliere in presa diretta alcuni aspetti
del clima sociale dell'epoca quanto per conoscere la considerazione di
cui godeva il nostro protagonista durante i suoi “anni d'oro”. «Dove
attacca Cassin ci lascia il segno – si legge -. Affrontare l'impossibile
con decisione pronta e senza tentennamenti o ritorni è nel suo stile. La
vittoria (sulla Cima Ovest, ndr) è una prova tangibile che oltre
i mezzi artificiali ci sono quelli fisici e soprattutto morali. E' a
questi che si fa appello di fronte ai problemi senza via d'uscita
apparente. Non tutti sanno resistere quattro ore in pieno strapiombo per
piantare un solo chiodo. Meriterebbe di essere rintracciato per essere
conservato a testimonianza del valore di chi ha saputo piantarlo».
Pur coscienti
che meriterebbe ben altro spazio, accenniamo soltanto alla seconda perla
del “trittico” di Cassin – la prima salita della parete nord-est del
Pizzo Badile, nel 1937 – per rivolgere immediatamente la nostra
attenzione a quella scalata che, compiuta tra il 4 e il 6 agosto 1938,
poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, chiuse un'epoca
fondamentale della storia dell'alpinismo. Stiamo parlando della prima
salita dello sperone Walker della parete nord delle Grandes Jorasses,
nel massiccio del Monte Bianco, in occasione della quale Cassin, Tizzoni
ed Esposito raggiunsero il vertice della parabola, polverizzando i
timori di coloro che più volte avevano - o avrebbero voluto - tentare la
via ma che, per una sorta di irrazionale e invincibile timore
reverenziale, non ebbero mai il coraggio di intraprendere un'azione
decisa. Cassin, grazie anche a quei meravigliosi chiodi che produceva da
sé, ebbe la meglio sulle placche ghiacciate, procedendo sulla
leggendaria parete con la precisione e la regolarità di un orologio
svizzero. Niente e nessuno, dopo le dure esperienze in Grigna e sulle
Dolomiti, avrebbe potuto fermarlo. «E' facile immaginare l'interessamento
del pubblico lecchese durante le giornate di sabato (giorno 6, ndr)
e domenica (giorno 7, ndr) – scrisse Ausonio Zuliani sul numero
del 13 agosto 1938 de Il popolo di Lecco -. Abbiamo notato delle
persone che volentieri rivoluzionerebbero una seconda volta la tecnica
della abitazione per abolire le scale, tanto sono nemiche delle... salite,
affannarsi nei ritrovi abituali dei tifosi dell'alpinismo, come se
fossero essi stessi degli scalatori incalliti. Vecchi, fanciulli e
prosperose ragazze sognanti la... cordata a due, tutti si interessavano
con vivo compiacimento dell'impresa con domande nelle quali palpitava il
sentimento dell'orgoglio cittadino».
Nel 1954 Cassin
fu clamorosamente escluso dalla spedizione nazionale al K2 ma il 6
agosto 1958, esattamente vent'anni dopo il suo successo sulla Walker,
ebbe la propria “rivincita” grazie a Carlo Mauri e Walter Bonatti,
cordata di punta della spedizione al Gasherbrum IV della quale egli era
il capo. I due giovani fuoriclasse, dopo aver superato grandi difficoltà
tecniche, raggiunsero il punto più alto del gigante del Karakorum che,
per poche decine di metri, non raggiunge la fatidica quota “8000”. Del
1961, invece, è l'impresa sulla parete sud del McKinley - un successo
corale con tutti i membri della spedizione in vetta – mentre risale al
1975 l'unica bruciante rinuncia nell'incredibile carriera del mai domo
Riccardo. Fu la parete sud del Lhotse, che sarebbe stata salita per la
prima volta dallo sloveno Tomo Cesen, a cacciare in malo modo il nostro
protagonista e gli altri membri del gruppo, tra i quali Reinhold Messner,
Alessandro Gogna, Ignazio Piussi, Giuseppe “Det” Alippi e Mario Curnis.
Scrivendo di
Cassin ci siamo soffermati soprattutto sulle imprese, senza indugiare su
particolari attorno ai quali sono già state dette e ripetute tante
parole. Il piccolo-grande uomo dell'alpinismo italiano e mondiale, colui
che nell'immaginario collettivo incarna ancora le salite eroiche di un
tempo, con chiodi artigianali e corde di canapa, alle quali seguirono le
esperienze quasi visionarie di un Bonatti e il vertice dell'alpinismo mediatico raggiunto da Messner, osserva oggi le nuove generazioni senza
biasimare nessuno e, anzi, dispensando apprezzamenti ed elogi. Non è nel
suo stile lanciarsi in considerazioni slegate da ciò che si trova
davanti a suoi occhi: la sua semplicità e, soprattutto, l'estrema
aderenza alla realtà concreta che ha sempre caratterizzato il suo
modo di agire, lo hanno portato a valutare di volta in volta, senza
distrazioni, i fenomeni e i problemi. Il suo pensare - anche se qualcuno
affermò che egli “non pensava” - era teso alla ricerca di una soluzione
che immancabilmente egli avrebbe scovato e, anche se forse
l'inossidabile Riccardo non brillò per creatività seguendo piuttosto
l'onda della “moda” alpinistica e dei problemi del momento, fu
probabilmente proprio questa sua caratteristica a spingerlo avanti e
sempre avanti, senza immaginare di cedere neppure nel bel mezzo di una
tempesta.
Cassin è
l'espressione di una terra laboriosa, il Lecchese, dove la speculazione
intellettuale legata all'alpinismo non è mai stata in verità
particolarmente rilevante: la sua è una montagna ben definita, dove le
mani si posano alla ricerca di solidi appigli e gli occhi scrutano la
roccia per trovare le fessure nelle quali piantare i chiodi. Non
rappresenta nulla di simbolico: si limita ad essere, come il nostro ama
spesso ripetere, una severa maestra di vita. «Per andare in montagna –
disse un giorno - occorre passione, una grande passione, perché lì sono
fatica e sacrificio. Ma le cime regalano anche soddisfazioni... A chi mi
chiede dove stia andando l'alpinismo rispondo semplicemente: in
montagna. E' questo quello che conta. Tutto il resto è un di più».
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© febbraio 2003
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