Ritorno al mistero

 

di Alessandro Gogna


Devo salire sempre più in alto
e guardare sempre più lontano.
(Goethe)


 

Dall'orrido al pittoresco

La gente chiama "romantiche" le passeggiate nei boschi o comunque nei luoghi belli. E in effetti sono proprio stati gli artisti e gli scrittori del romanticismo a valorizzare questo tipo di attività fisica, prima riservato alla vita quotidiana dei contadini e dei montanari. Eppure, nel silenzio e nella solitudine dei boschi, i romantici cercavano ben altro.

I primi a decantare le Alpi e la loro "bellezza" furono i poeti del XVIII secolo. Il loro messaggio mirava così lontano che nessuno dei montanari locali poteva capirlo. Per la gente che viveva lassù l'esistenza era assai grama; coloro che erano costretti a transitare per le montagne non parlavano di bellezza: soldati, pellegrini, commercianti vedevano solo i fastidiosi ostacoli sul loro cammino; e infine gli abitanti delle città vedevano i montanari come ignoranti trogloditi. Eppure le ali della poesia volano lontano, perché maestosità dei paesaggi, grandiosità delle montagne selvagge e semplicità di costume giunsero relativamente in fretta al cuore del cittadino, con le conseguenze che conosciamo. Nel 1729 il bernese Albrecht von Haller, giovane ventunenne, pubblicò Die Alpen, le sue recenti esperienze di viaggio. L'opera ebbe fortuna pur essendo veramente rivoluzionaria. Nessuno fino ad allora aveva parlato così del mondo della montagna. Egli capovolgeva le idee correnti di inospitalità e inabitabilità delle alte vallate, introduceva il rispetto per una vita di duro lavoro lontano dalle scostumatezze delle città e dagli agi materiali. Quello di von Haller era un entusiasmo giovanile che si rivelò contagioso, provocando interesse e voglia di vedere di persona. Il messaggio di von Haller era però rigorosamente razionalista, la natura era da lui contemplata in un idillio pittoresco comune alla letteratura del primo '700. Si può dire che siano tutti seguaci di von Haller (e non romantici) coloro che amano le passeggiate. Dall'orrido degli antichi tempi si è passati così al pittoresco.

 

Il sublime

A più riprese il grande Johann Wolfgang Goethe accennò al Monte Bianco e alle regioni ai suoi piedi. In Aus einer Reise in die Schweiz (1779) racconta del Col de Balme e dei grandi panorami tra Savoia e Vallese. Non appena il massiccio del Monte Bianco divenne l'attrattiva del nascente turismo alpino, fra le escursioni del visitatore più preparato e ambizioso ci fu subito il periplo completo. Tra i primi illustri viaggiatori che compirono quella che per allora era già una bella impresa, dobbiamo ricordare Horace Bénédict de Saussure. Per studiare da ogni angolazione la montagna dei suoi sogni, lo studioso ginevrino fece il giro ben tre volte, nel 1767, nel 1774 da solo e infine nel 1778, allo scopo di riempire "molte lacune e dubbi" in vista della pubblicazione di una descrizione del massiccio. Si viaggiava allora con una piccola carovana di muli, ingaggiando guide e aiutanti fra gli abitanti dei paesi attraversati. I muli erano fondamentali, non solo per portare attrezzi scientifici, viveri di conforto ed equipaggiamento, ma anche per essere caricati dei campioni di roccia che lo studioso raccoglieva. Il giro era molto più ampio di quanto proposto oggi. Più o meno coincideva da Cha­monix a Cour­mayeur, attraverso il Col du Bonhomme e il Col de la Seigne, ma poi non risaliva la Val Ferret per tornare a Chamonix attraverso la Fenêtre d'Arpette. Si preferiva invece scendere ad Aosta ed entrare in Svizzera attraverso il Gran San Bernardo per raggiungere Martigny. Allora non c'era fretta e percorsi come questo erano momenti di studio e riflessione; non un bene di consumo da bruciarsi nelle nostre poche giornate di ferie annuali. Queste lunghe e faticose camminate erano preparatorie: in de Saussure possiamo vedere l'uomo del '700, studioso, illuminista, classicista. Un esploratore del pittoresco che si preparava, senza saperlo, a vivere l'esperienza della sua vita, quella del sublime.

Quando il 2 agosto 1787 raggiunse finalmente la vetta del Monte Bianco, egli finalmente comprese, "come in un sogno", le strutture, i rapporti, le pieghe d'un paesaggio che anni di lavoro non erano riusciti a far capire in profondità. Il paesaggio dalla vetta del Monte Bianco non aveva più nulla da spartire con quello di von Haller; e quando de Saussure fu costretto a bivaccare sul ghiacciaio, scosso dal terrore, gli sembrò d'essere l'unico sopravvissuto all'universo che in quel momento, come un cadavere, gli era steso ai piedi. Lo sconvolgimento illuminante di quella visione gli fece in seguito riconoscere che per tristi che siano idee di quel genere esercitano su di noi un'attrazione alla quale con fatica si resiste. Fu lui dunque il primo alpinista romantico: fu lui che trovò, nella grandiosità della montagna e nel sublime di certe esperienze, una propria coscienza dilaniata tra la dispersione nell'infinito e l'autoaffermazione ostinata.

Godevo di una tale salute che mi sentivo disposto ad intraprendere con successo qualunque cosa io volessi o dovessi fare; solo mi era rimasta una certa irritabilità nervosa che disturbava quest'armonia di funzioni... Salii da solo fin sopra la più alta torre della cattedrale e mi fermai sotto la corona dell'ultima cupola, e là stetti circa un quarto d'ora prima ch'io avessi il coraggio di uscir fuori sulla piattaforma che è larga poco più di una tesa, e dove aggrappandomi potevo contemplare il paese sterminato che mi si stendeva dinanzi. Pareva di trovarsi in un pallone volante. L'emozione e l'oppressione dolorosa che provavo stando a quell'altezza la vinsi ritornando spesso in quel luogo fino a che divenne per me affatto indifferente. Questo poi mi giovò, e molto, nei viaggi sulle montagne, negli studi di geologia, e nelle visite dei monumenti di Roma, dove spesso, per vedere da vicino le cose, gareggiai con i più intrepidi muratori (Aus meinem Leben, IX). Questo passo di Goethe racchiude in sé l'essenza del romanticismo, dall'abbandono del classico e del pittoresco alla tensione al sublime, con lacerazione interiore tra la sensazione d'essere piccoli e miseri e l'esaltazione di una vittoria su se stessi e sul mondo.

E' lo Spirito che crea la realtà, è l'Io che da solo dà legge al mondo: con l'idealismo (la regione filosofica del romanticismo, Kant, Hegel) l'Io abbandona l'illusione di una vita naturale, tra la ragione dei "lumi" e il mistero in provetta dei primi chimici: l'Io cresce e soffre al cospetto della natura. La domina e ne è dominato. L'uomo che oggi si avvia a diventare il padrone dell'universo è il primo a soffrire di quel distacco dalla natura che questi due ultimi secoli gli hanno riservato. Così la calpesta e la protegge. A volte, decadenti, intuiamo che solo con la morte potremo ricomporre il dissidio tra la nostra coscienza di esistere e madre natura.

Goethe rimirava estatico la grandiosità della montagna, ma non ne era soggiogato: per questo provava un forte dissidio interiore, come quando di fronte alla visione del Monte Bianco scrisse: Le stelle ascendevano una dietro l'altra, e noi osservammo sopra le cime dei monti, davanti a noi, a destra, una luce che non riuscimmo a spiegare. Quella luce chiara, senza splendore, come la via lattea, ma più densa, quasi come le Pleiadi, ma più grande ci fermò l'attenzione a lungo, fino a che, essendoci noi spostati, ci apparve più alta delle cime: una piramide, rischiarata da una luce segreta interna, che non si potrebbe meglio paragonare che a quella di una lucciola e che ci fece certi che era la sommità del Monte Bianco. Visione di bellezza straordinaria, poiché brillando la montagna con le stelle che la circondavano, non di una luce altrettanto viva, ma in una massa più vasta e più coerente, sembrava agli occhi che appartenesse ad un'altra sfera, e la mente faticava a fissarne le radici sulla terra. Davanti ad essa vedevamo una fila di monti ammantati di neve, già invasi dalle ombre, stendentisi su larghi dossi boscosi, e immani ghiacciai divallanti tra i boschi cupi (Goethe, Aus einer Reise in die Schweiz, 1779).

Il dissidio di Goethe, l'Io di fronte alla Natura selvaggia, è lo spirito stesso dell'Alpinismo: È la ripidezza, la verticalità che sembra andare a genio alla gioventù; attaccarla, darle la scalata, conquistarla, questo è un godimento per le membra giovanili (Goethe).

Ma ecco ancora lo stesso Goethe, sulla MISERIA dei propri tentativi di dominare il dissidio: Oh povero mio cuore! / Per andare lassù sopra quel monte, / oh celeste Possanza, / dammi ancora soltanto un po' d'ardore... (Sturm und Drang).

Talvolta Goethe era così grande che riusciva a contraddirsi senza pagarne il prezzo: solo lui, uomo anche classico, poteva ricomporre il proprio dissidio e il proprio "esilio": Come poi vien la sera, e nella brezza tranquilla le rade nubi si posano sulle cime dei monti librandosi nel cielo quasi immote e, dopo il tramonto, comincia a farsi distinto lo stridio delle locuste, allora ci sentiamo a nostro agio in questo mondo; e non più a pigione o in esilio.

E nel Faust disse chiaramente: Da lungo tempo è preparato un accordo tra le forze primitive dell'uomo e quelle delle montagne; felice chi seppe congiungerle.

Friedrich Nietzsche sentiva ancora più forti questo contrasto e questa doppiezza: Non l'altitudine, è il pendio che è terribile! Il pendio lungo il quale lo sguardo precipita in basso, mentre la mano brancica verso l'alto. E intanto il cuore, preso tra questo doppio impulso, ha la vertigine (Così parlò Zarathustra). Ha coraggio chi sa la paura, ma la raffrena; chi guarda l'abisso, ma superbamente; chi guarda l'abisso, ma cogli occhi dell'aquila, e vi si aggrappa cogli artigli dell'aquila: quegli ha coraggio (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra). E ancora, lo stesso Nietzsche, a proposito di ESALTAZIONE: Guardate in alto se volete esaltarvi. Chi di voi conosce insieme l'esaltazione e il riso? Colui che sale i monti più alti ride di tutte le tragedie rappresentate e vissute.

 

Ritorno al mistero

Ma cos'è oggi il Sublime? La grandiosità della montagna (e con essa la grandiosità della natura selvaggia) è stata erosa per quasi 250 anni dalla sete di conoscenza dell'uomo. E la progressione odierna nella medesima direzione è oggi esponenziale. Con l'avvento e lo sviluppo dell'alpinismo, con il quale l'uomo ha raggiunto tutte le più alte vette per i versanti più difficili, con l'esplorazione ormai quasi totale delle nostre Alpi, con l'introduzione della tecnica di sfruttamento del potenziale turistico alpino ed extraeuropeo, nasce il legittimo sospetto che il mistero, nocciolo nucleare della grandiosità apparentemente inconoscibile e inconquistabile, stia per esaurire la sua carica vitale.

Cosa caratterizza l'alpinismo nei confronti delle altre attività sportive? Molti sono gli elementi di differenza, ma basta osservare la quantità di scritti, memorie, relazioni, discussioni cui l'alpinismo ha dato luogo per cogliere al volo l'abissale dimensione della “passione” alpinismo. Una documentazione gigantesca, in tutte le lingue, un'immaginaria biblioteca altrettanto impossibile da conoscere a fondo. Ma io so che, se voglio, posso trovare ogni particolare e ogni dettaglio, attraverso gli indici, attraverso Internet, attraverso il tale che sa le cose che io non so, attraverso i collegamenti di un'intelligenza che sa muoversi e districarsi nella babele di informazioni. Non esiste più alcuna montagna sulla quale aleggi un pieno alone di mistero.

Ciò e vero oggi, ma lo è già da tempo. Consideriamo la gran parte delle relazioni, delle autobiografie, delle cronache, dei racconti d'avventura. Quante volte abbiamo interrotto una lettura, magari anche interessante per altri versi? Certo, il tempo è poco per tutti, ma se si è incominciata una lettura, perché la si interrompe? Noia? Scarsa capacità di raccontare? Può darsi. Ma spesso ciò che c'infastidisce è una retorica latente, un messaggio strisciante, un dubbio atroce.

Chiunque voglia oggi esprimere la montagna o per iscritto o per immagini rischia la retorica. La retorica, come oggi comunemente s'intende il significato di questa parola e tralasciandone le origini del tempo socratico, è esprimersi vuoto di senso. L'autore sottintende che il lettore condivida con lui un ideale, la cosiddetta passione per la montagna. Ma ci siamo mai chiesti quanto noi, oggi, crediamo veramente a questo ideale? Siamo sicuri che vogliamo, da un punto di vista collettivamente inconscio, porci ancora come antagonisti della natura selvaggia? O forse non avvertiamo che il tempo dell'ebbrezza è concluso, che la festa è finita, che domani il lavoro riprende? Certo, è dura riprendersi dall'era delle vittorie. Prima l'epoca d'oro del Sesto Grado, poi l'artificiale onnirisolutiva, poi il Settimo Grado, poi l'arrampicata spinta ai limiti estremi di bravura. E il gioco continua anche oggi, perché giustamente i giovani vanno avanti, e al galoppo. Forse abbiamo semplicemente paura di non vincere più abbastanza, o di non vincere più sulla Natura. Se sai tutto della storia dell'alpinismo, pieno di ammirazione come sei per i fasti passati, vedi il grigiore espressivo di oggi agitarsi nella retorica; se non sai nulla del passato, ancora peggio: la tua ignoranza ti porta ancora di più ad osannare e a incensare la cronaca odierna e a non vedere quanto stai fuggendo. Ignoranti o no, ci richiamiamo continuamente a ideali che intimamente rifiutiamo. E più il dubbio interiore su questi ideali è forte, più il discorso è retorico, cioè vuoto. Gli ideali oggi sono forme senili e non più valide di miti che si evolvono, in quanto approssimazioni variabili da epoca a epoca di ciò che vive dentro di noi.

Non c'è stata finora espressione artistica o letteraria che si sia servita dell'esperienza alpinistica per significare la grandezza di un mito. È infatti difficile per l'arte infrangere il compatto muro della retorica che noi stessi inconsciamente erigiamo scalando, scrivendo, leggendo.

Dopo l'orgia industriale e nel pieno dominio dell'informatica virtuale e globale, nasce il sospetto che lo scopo di questo muro così alto e compatto sia di far riacquistare alla montagna (e quindi un po' anche al mondo) tutto il suo vigore e il suo mistero. Dentro noi alpinisti moderni c'è come una censura spontanea che c'impedisce l'ingresso nell'arte e nella letteratura maggiori. Tanto più la montagna è tecnicamente conosciuta, descritta, sfruttata, tanto più coercitiva è l'autocensura. Tanto più l'alpinismo diventa tecnico e mediatizzato, tanto più s'avvicina ad un prodotto della civiltà industriale, in piena opposizione ad una vera esperienza umana.

Ed appare chiaro che questa contraddizione non può rivelarsi che nel nostro intimo, diventando quindi un nuovo tabù.

La separazione tra Io e Natura è più viva che mai, il Romanticismo è ben lungi dall'esser concluso ed il mistero, in questo secolo più piccolo e lontano, sempre più appare come le Sirene di Ulisse, al tempo stesso un nemico acerrimo e un suadente tentatore.

L'esperienza dell'arrampicata sportiva, dell'agonismo e della frammentazione dell'alpinismo originario in varie e diverse specialità hanno introdotto la cultura del nudo risultato; la divisione di terreno sportivo e terreno d'avventura (di matrice francese) è il risultato di un'ulteriore classificazione tendente ad incasellare e definire una serie di esperienze. Tutto ciò riuscirà prima o poi a far tacere ogni nostra vocina interiore e il silenzio totale (unico possibile spettatore del nudo risultato e della cronaca) sarà raggiunto. Ma era questo l'obiettivo? Apparentemente il mistero tornerà con l'assenza di relazioni dettagliate, con il silenzio coatto, ma non sarà che un mistero non riconosciuto, sospinto brutalmente al fondo dei nostri abissi incoscienti.

È vero, come ho sentito dire dal docente di letteratura a Genova Giorgio Bertone, che la lingua italiana è difficile per qualunque italiano. Secondo Bertone la lingua italiana è così naturalmente retorica che diventa difficile per tutti i natii esprimersi per iscritto senza esserne permeati. Forse gli italiani non credono nell'italiano, perché siamo una nazione giovane? L'esperienza alpinistica britannica sembra infatti patire meno di queste limitazioni. È facile per un alpinistica britannico scrivere in maniera oggettiva, raccontare così, semplicemente, e quindi avvincere il lettore. Fare il best seller. Forse raggiungere l'arte. Di certo il real climbing britannico è quello che si avvicina di più alla confidenza con la natura. Se si escludono i mezzi e le tecniche aggressivi (allo scopo di rendere sicuro con protezioni concrete un percorso roccioso), se si arrampica il più possibile secondo un'etica precisa che veda la montagna come partner e non come oggetto di superamento, necessariamente occorre, per sopravvivere, ricorrere al sentire la natura e l'ambiente circostante come quel qualcosa che è con te: occorre porre il proprio senso di sicurezza nella pronta intuizione che lo stesso ambiente circostante provvede a suggerirti al momento. L'esperienza di fusione con la Natura, nata già con John Muir, è forse a portata di mano: e lì si concluderebbe l'epoca romantica.

Il futuro del Mistero è nelle nostre mani. Vogliamo ucciderlo definitivamente? Vogliamo isolarlo? O vogliamo esserne compresi?

In ogni caso l'avvenire della documentazione storico-geografico-culturale degli accadimenti alpinistici si troverà nel problema più grave della sua storia, e potrà uscirne solo con un salto di qualità. Sono già state avanzate ipotesi di non più scrivere relazioni di vie alpinistiche appena aperte, lasciando così intatto il mistero per chi seguirà. Questo modo di agire, al di là della concreta possibilità di applicazione (remota?) avrebbe due conseguenze importanti. Il legittimo orgoglio per una prima ascensione, finora più o meno sentito, più o meno mascherato, sarebbe letteralmente violentato dal non racconto e dalla non relazione. Siamo pronti per questo, e soprattutto siamo sicuri che sia la soluzione per riappropriarci del mistero? In secondo luogo ci si troverebbe nell'impossibilità di esprimere quella gioia di dare agli altri che spesso permea una grande o piccola impresa alpinistica. Quando un'impresa è grande? Quando fa sognare, indipendentemente dai numeri tecnici, dall'exploit. Questo scambio emotivo tra persone è insostituibile, la rinuncia sarebbe troppo grande nei confronti dell'obiettivo stesso. Se perdiamo il gusto di dare agli altri, e la conseguente emozione, verrebbe meno lo scopo di ogni associativismo, si potrebbero mettere in discussione perfino le utilità dei vari club alpini, delle scuole, eccetera. L'alpinista come monade a sé stante e a sé bastante sarebbe una triste conclusione.

Quindi è ben diverso il salto di qualità che ci attendiamo. Scalare ancora, scrivere e leggere ancora. Ma assieme al Mistero, nel silenzio e nel rispetto.

I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi (Goethe).

 

<1996-1997-2002*>
© luglio 2002 intraisass

Alessandro Gogna

 

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N.d.r.

* I primi 2/3 sono stati pubblicati su ALP nel 1996 (in un reportage sul Romanticismo), poi ripresi nel 1997 in un capitolo del volume VII della collana I GRANDI SPAZI DELLE ALPI (di Alessandro Gogna e Marco Milani, Edizioni Melograno). L'ultimo terzo, conclusivo, è inedito.
 

 

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