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 la recensione letteraria di intra i sass 

Titolo: Il sogno del lupo
Autore:
Ario Sciolari
Pagg. 475
con foto a colori e disegni b/n
Editore: Corbaccio, Milano, 2005
Prezzo: € 18,50
 

 

I LUPI CHE SAPEVANO AMARE
Confessioni da una traversata
recensione di Franco Michieli

Ci sono diversi casi in cui la lettura di un libro può essere una lotta, a cui tuttavia non si può sfuggire perché, una volta cominciato, benché scombussolati, a mollare la presa ci si sentirebbe sconfitti.
Può essere una lotta leggere testi come 1984 di George Orwell: l'abisso chiamato uomo è presentato con tale lucidità da provocare una seria depressione in chiunque non sia un povero ignavo; nello stesso tempo si capisce che, riuscendo ad assimilarne il significato fino alle ultime pagine, ci si libererà per tutta la vita da qualunque fiducia nel potere umano e nei suoi personaggi (compreso il proprio potere), il che è una conquista non da poco, anche se non allegra.

Leggere Il Sogno del Lupo di Ario Sciolari, che non c'entra niente (o quasi) con Orwell, per me è stata una lotta perché ho dovuto affrontare ad ogni pagina una nostalgia pericolosa, che mi trascinava indietro a forza lungo una traccia interminabile, così come la pulka di Ario, nel suo racconto, viene tirata a fatica nella neve per 133 giorni, su e giù per i monti norvegesi. Sì, gran parte delle pagine mi trascinano indietro di una ventina d'anni, a quando nella terra norvegese scoprii di vedermi in uno specchio. O forse era quella terra che in un istante aveva fatto di me uno specchio distendendomisi dentro per migliaia di chilometri. Parola dopo parola, per 475 pagine, di quel percorso esteso sulla curvatura iperborea del pianeta riconosco quasi tutto. Molto di più di una striscia ininterrotta di luoghi. Sinceramente vorrei consigliare la lettura di questo diario d'avventura e di trasformazione interiore sul campo, ma come posso parlarne in modo oggettivo? Quegli orizzonti impalpabili e crepuscolari degli altipiani, le successioni dei laghi nel nulla delle tormente, le selve dei mille esseri bianchi camuffati da betulle, i ricoveri di legno che si disegnano d'un tratto nella foresta o nella notte infinita, o in una nevicata più vasta della nostra capacità di quantificare un'estensione; e gli odori dei legni, dei suoli, del gelo; i suoni degli sci, della neve che cigola, dei venti, delle acque, delle parole norvegesi e sami;  i timori e le speranze degli incontri improvvisi, strani, irreali, durante qualche istante inciso tra giorni o settimane di solitudine; il sentimento di accettazione di fronte agli ostacoli più grandi delle mie forze e il sentimento dello sfinimento, trasformati entrambi in sensazione da un corrispondente brivido di bagnato e di freddo nel corpo affaticato, trasformato infine in poesia dal semplice essere lì.
Tutto questo: mi taglia le gambe, mi sento cadere, col libro in mano.

Cinque mesi attraverso una terra, quasi tutta natura e montagne. Poi non si può più tornare indietro. Ario ora sta per partire per la traversata dell'Alaska (vedi www.backtothemother.it ), l'anno scorso ha attraversato un bel pezzo di Canada. Per forza. Si può tornare nel mondo, ma non credo che si possa più essere del mondo. Vent'anni fa avevo percorso quella terra a piedi tra metà maggio e metà ottobre, giusto i mesi contrapposti a quelli scelti da Sciolari, da metà novembre ad aprile. Stessi punti di partenza e di arrivo, dettati dalla forma della terraferma. Continuo a viaggiare in quei luoghi, l'ho fatto un'altra ventina di volte, ma il segreto dell'appartenenza, cui continua a tornare il pensiero di Ario come di ogni grande traversatore, è la durata; è la condizione di un ultimo orizzonte così lontano da non poter essere concepito, da stare al di là di ogni immaginabile traguardo. In cinque mesi ci sta, in un mese no. L'ho vissuto a 23 anni, ora i tempi corrono più compressi. Solo che perdendomi tra le pagine del Sogno del Lupo ritorna la coscienza: non si può tornare indietro da quella dimensione. Sono più che contento della mia vita, eppure l'orizzonte oltre la morte lo sogno come quello: qualcosa di analogo alla bellezza di essere in movimento a piedi, in un tempo sospeso come quello di vent'anni fa, su un territorio come quel Nord. Ha senso? Poco importa, questo è un sentimento che nasce da qualcosa di vero.

Il libro di Ario contiene in realtà diverse storie intrecciate. Se la più continua, da capo Lindesnes a capo Nordkinn, è quella del suo cercare di liberarsi dalle paure dell'isolamento e della forza immensa della natura che limitano il suo abbandonarsi alla Madre Terra, la storia più intensa e commovente è quella della relazione con i due lupi che lo accompagnano, Chinook e Mohawk. Si tratta di veri lupi canadesi, che ha preso con sé da cuccioli nati in cattività, e con cui è partito per la traversata quando avevano sei mesi. Se all'inizio è stato lui a insegnargli come comportarsi in montagna, a poco a poco il rapporto si inverte, ed è Ario ad assorbire dal loro comportamento e dal loro affetto suggerimenti per risvegliare l'appartenenza ancestrale al territorio selvaggio. La presenza dei lupi arricchisce enormemente anche il fascino che prova il lettore. Che proprio da esso riesce poi a percepire concretamente la bassezza e il precipizio in cui sta cadendo l'uomo civile, quando impone con la legge la separazione dei protagonisti della storia. È il simbolo della persecuzione subita dai popoli nativi del mondo, di cui i Sami sono significativi rappresentanti. Del popolo nomade delle renne si parla molto durante il racconto, e proprio dalla loro sensibilità per la Terra nasce il tema del Sogno del Lupo, che diviene il sogno di Ario. Nel sopruso dei popoli stanziali nei confronti dei nativi e dei nomadi c'è in verità un richiamo a 1984 di Orwell, non certo perché Sciolari lo citi – anzi l'autore si tiene a debita distanza da qualsiasi intellettualismo da una parte, come da qualsiasi riferimento tecnicistico o sportivo dall'altra -, ma perché lo scrittore inglese ha lasciato parole valide per dipingere qualunque ingiustizia, di cui il destino dei popoli nativi e delle loro culture è un emblema: «Se vuoi un simbolo figurato del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano... per sempre». Se allarghiamo il concetto del “volto umano” di Orwell a ciò che l'uomo potrebbe essere nelle sue potenzialità più positive e in relazione equilibrata con la natura cui è appartenuto, ebbene, possiamo davvero dire che anche oggi quel volto è schiacciato da uno stivale. Sia perché molta umanità è davvero in quella condizione, sia perché lo è la Terra che dovrebbe dar vita a tutti senza essere devastata. Tema complesso, dunque, che Sciolari affronta con grande entusiasmo e trasporto, senza mai darsi per vinto e sperimentando prima di tutto su se stesso la ricerca del distacco dal potere, dalle sicurezze mondane, dagli eccessi tecnologici, aiutato da un'attrazione incontenibile per la wilderness. Va sottolineata la sincerità con cui Ario alterna la critica verso la schiavitù dell'uomo moderno (anche in Norvegia!) rispetto alle macchine e alla sedentarietà, e la spontanea confessione di trovarsi, appena dopo simili pensieri, nella necessità di essere aiutato – proprio lui - da persone che mettono a disposizione le loro tecnologie per risolvergli qualche grave problema. C'è molta umanità in questo atteggiamento, che ricorda costantemente che non stiamo leggendo di una prestazione, ma di una ricerca molto combattuta. Al suo posto potrebbe esserci ognuno di noi, se solo avessimo l'entusiasmo di Ario!

Completano l'avvincente diario i bellissimi disegni in bianco e nero realizzati da Ario stesso, capaci di incrementare la dimensione poetica di tutta la storia.

Franco Michieli
Valcamonica, ottobre 2005

 

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