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 la recensione letteraria di intra i sass 

Titolo: Il mio mondo verticale
Autore: Jerzy Kukuczka
Traduzione di Manuela Burchi e Jurek Sztekiel
Prefazione di Reinhold Messner e Simone Moro
Pagg. 284 con foto b/n
17,50
Editore: Versante Sud - gennaio 2004
Collana
: I Rampicanti

 

 

Il mio mondo verticale  recensione di Flavio Faoro

I grandi nomi dell'alpinismo, chi più chi meno, i loro bravi libri li hanno pubblicati da tempo. Tutti. Italiani e stranieri, di oggi e del passato, grandi davvero o – più spesso – un po' meno. Tutti, fuorché qualcuno. E di questi pochi mancava, forse, il più grande. Uno di quegli alpinisti che in Italia sono diventati famosi “dopo”, non “durante” le sue imprese. “Dopo” che era entrato in quella assurda (ma, in fondo, mica tanto) gara con Reinhold Messner per chi avrebbe salito per primo tutti gli Ottomila, dopo che ebbe trovato finalmente uno sponsor italiano e il suo corpo robusto era apparso nelle pubblicità delle riviste, dopo che cadde, con una caduta quasi infinita, di circa 3000 metri, dalla parete Sud del Lhotse, a duecento metri dalla cima. Stiamo parlando, l'avrete capito, di Jerzy Kukuczka, l'alpinista polacco di cui ora le edizioni Versante Sud mandano in libreria nella collana I rampicanti Il mio mondo verticale, ben 285 pagine con 22 fotografie in bianco/nero, 17,50 euro.

Diciamolo subito, è un bel libro, uno di quei libri che quando li hai iniziati sei contento di aver ancora centinaia di pagine lì davanti, che ti aspettano. E' bello perché racconta la storia per noi misteriosa di questo alpinismo polacco, fatto, prima di tutto, di grande impegno e fatica per il superamento non delle difficoltà in parete o sulle cime, ma dei problemi economici, burocratici, di trasporto. Un assillo costante, queste difficoltà, che attraversa tutto il libro, lasciandoci stupiti per la forza di volontà e la determinazione con cui questi alpinisti riuscivano a partire da casa per raggiungere non solo l'Himalaya o le Ande, ma anche le Alpi. E forse anche in ciò sta la chiave per interpretare la cosciente scelta di affrontare rischi e fatiche da cui gli alpinisti occidentali rifuggivano, concatenando non tanto le cime o le scalate, quanto i lavori in patria per pagarsi le spedizioni (le famigerate pulizie e verniciature di ciminiere, innanzitutto), i permessi strappati alle autorità politiche o alpinistiche (sic!), la costruzione in proprio di attrezzi che in occidente erano sofisticati e molto, molto costosi.

Colpisce proprio, nel lungo racconto, il contrasto stridente fra la maniera di condurre le spedizioni degli alpinsiti polacchi e quella occidentale, contrasto che crea frustrazioni e tensioni quando Kukuczka e i suoi compagni si trovano ospitati nei grandi team ricchi di mezzi e di sponsor. Emblematica la spedizione al Nanga Parbat guidata dal mitico dr. Herligkoffer, una specie di Ardito Desio tedesco che conduce da decenni sfortunati assedi allo stesso gigante himalayano. Le pagine che descrivano il vero e proprio scandalo che colpisce Kukuczka al vedere lo sciupio di denaro e di mezzi della spedizione internazionale è una delle parti più gustose del libro e spande nuova luce su una storia dell'alpinismo sulle grandi montagne spesso scritta secondo punti di vista e criteri del tutto parziali.

A proposito di grandi montagne, per capire la grandezza di Kukuczka va ricordato come sia sì giunto secondo nella gara per la conquista dei 14 ottomila, ma anche come le sue salite si siano svolte nell'arco sorprendentemente breve di 8 anni (e questo è un record – orribile parola, usata qui - non ancora battuto) e come soprattutto ciò sia avvenuto realizzando dieci vie nuove e quattro prime salite invernali. Il tutto, lo ripetiamo, superando sfinenti difficoltà burocratiche ed economiche e senza rinunciare a crearsi una famiglia in patria.
Ecco, se è vero che questo aspetto “umano” nel libro risulta quantitativamente sacrificato, i pochi flash sulla vita privata sono resi dall'autore con forte intensità ed emerge, ben poco velato, un sincero senso di colpa per il poco tempo dedicato al ruolo di padre e di marito.

Lo stile dell'opera è sorprendentemente piano e piacevole, fresco nonostante la traduzione, e questo è un merito della coppia di traduttori Burchi e Sztekiel. Ricorda, proprio per la freschezza e l'efficacia narrativa, le pagine di un altro polacco, quel Zbigniew Tumidajewicz (ecco, l'ho scritto!) che con il suo Un estate a Chamonix ha vinto l'anno scorso il premio Itas per la narrativa di montagna al Filmfestival di Trento. Una lettura piacevole, dunque, senz'altro favorita dalla curiosità per il personaggio, ma anche per la carrellata veloce, anche se un po' caotica, di partenze, ritorni, rinunce e salite.
Non dovrebbe mancare nella vostra biblioteca, se vi piace l'Himalaya e la sua storia alpinistica, o se, semplicemente, volete passare alcune ore a seguire le tracce profonde, e purtroppo effimere, di un grandissimo dell'alpinismo del Novecento.

Flavio Faoro
Belluno, marzo 2004
 

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