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 la recensione letteraria di intra i sass 

Titolo: Wolfgang Güllich - Action Directe
Autore: Tilmann Hepp
Pagg 285 con illustrazioni b/n
17,00
Editore: Versante Sud - 2003
Collana
: I Rampicanti

 

Wolfgang Güllich - Action Directe  recensione di Marco Bellini


La gente inizia ad arrampicare perché soffre le regole e
i regolamenti, e Dio benedica queste persone!

John Gill

Güllich è un nome noto agli arrampicatori sportivi, per aver più volte innalzato il livello in arrampicata libera (raggiungendo infine il 9a della scala francese, nel 1991), per aver scritto il primo manuale di arrampicata sportiva, tutt'oggi ristampato, e per essere – non ultimo – riuscito a vivere di sola arrampicata.

Quindi – sembrerebbe logico dedurre – questo libro è indirizzato principalmente a chi  s'interessa di arrampicata sportiva, riuscendo invece di scarso interesse per l'appassionato di alpinismo?
No.

Innanzitutto perché supporre che la storia dell'alpinismo non sia campo per un uomo che ha aperto Eternal Flame (IX-/A2 - Himalaya a 6000 metri di quota) e Riders on the storm (36 tiri fino al IX/A3 sulle Torri del Paine in Patagonia) è un'assurdità. Poi, perché ostinarsi a vedere Güllich in pantaloncini a torso nudo che scala a Finale Ligure è voler vedere solo quello che permette di mantenere invariati i nostri pregiudizi, spesso dovuti alle nostre reali incapacità.
Il fatto che la sua più grande passione fosse legata all'arrampicata sportiva non lo relega al di fuori dell'alpinismo. Sarebbe un errore di profondità storica, una classificazione a priori che non rende conto della ricchezza storica dell'evoluzione dell'alpinismo. E non spiegherebbe perché invece le direttissime sui chiodi a pressione abbiano diritto alla memoria storica alpinistica e non (come già da altri ribadito) agli annali della carpenteria.

Wolfgang Güllich fu arrampicatore sempre fortemente influenzato da un'idea etica dell'arrampicata, che lo ha spinto a considerare valide le sue salite solo se effettuate dal basso e senza la possibilità di calarsi sul tiro per studiare i passaggi singolarmente; assai spesso usava proteggere i suoi tiri con nuts o altri aggeggi (il famigerato bivo, che uscì da un buco causandogli una rovinosa caduta a terra) al posto dei chiodi a pressione, apprezzando in questo senso l'etica americana e quella anglosassone di Moffat e degli altri scalatori del grit.
 

Senza dubbio le cifre romane che definiscono i gradi di difficoltà sono una prestazione sportiva, tuttavia essi non dovrebbero in nessun caso diventare la misura di tutte le cose nell'arrampicata. Molto più importante e significativo è lo stile con cui un grado di difficoltà viene superato.

(Güllich e Kubin, L'arrampicata sportiva)

Da giovanissimo iniziò a frequentare la montagna scalando tutte le vie più dure della sua zona; scalava le classiche del VI grado tutte staffe e chiodi, in scarponi e col martello. Col tempo si accorse che era possibile fare di più. Cominciò a frequentare coloro che liberavano le classiche e aprivano nuove vie di difficoltà superiore. Cominciò ad allenarsi. Cominciò a riflettere su che senso avesse utilizzare chiodi e staffe laddove, con nut e adeguato allenamento, era possibile passare in libera (un problema ancora oggi irrisolto...).

Fondamentalmente Güllich era un viaggiatore e un giramondo, insofferente agli obblighi e alle mode. Si costruì una vita senza troppi condizionamenti, dedicò se stesso all'arrampicata, rinunciò ad un lavoro fisso per poter andare in giro per il mondo a cercare. Una passione bruciante per l'arrampicata lo spinse ovunque, a studiare i modi e le tecniche, aprendo vie nuove ovunque andasse. Esplorava tanto il mondo (forse con uno sguardo un po' disinteressato) quanto le sue personali capacità, fisiche e mentali.
Ma il filo conduttore della vita di Güllich fu sempre molto umano: la ricerca di un gruppo di persone con cui trovarsi a suo agio, con cui scalare senza invidie e senza rancori, con cui divertirsi e far tardi, con cui allenarsi serissimamente per potersi spingere ancora più in là.

Anche chi non scala o non pratica l'alpinismo sa però bene cosa voglia dire farsi prendere da una passione; vuol dire allenarsi (mentalmente o fisicamente), prepararsi, organizzare la propria vita per poter dedicare tempo a sufficienza alla nostra passione al fine di raggiungere ambiziosi obiettivi che ci si è prefissi. Güllich scelse di assecondare completamente la propria passione, senza scendere a compromessi. Non apprezzava le gare, il cui clima era troppo competitivo e teso: vi partecipò solo per divertirsi con gli amici, senza mai ottenere un piazzamento degno di rilievo. Amava arrampicare ovunque: volle eseguire il più lungo traverso della storia (sulla muraglia cinese), fece trazioni sulle bocche dei carri armati nel deserto, oppure boulder sulle piramidi. Mangiava enormi quantità di torte alla panna, però faceva duecento trazioni prima di andare ad arrampicare e, al ritorno, ne faceva altre duecento. Almeno da questo lato, aveva decisamente pochi condizionamenti. 

L'assuefazione ai libri dell'epoca dell'alpinismo eroico potrebbe indurre in tentazione: sarebbe facile giudicare questo libro come “per climber”, per quei pochi che potrebbero essere interessati a leggerlo. E' invece d'obbligo per un appassionato di alpinismo dedicarsi alla lettura del volume, per seguire una vicenda tutta umana che introduce garbatamente ad un mondo che dall'alpinismo è nato, si è sviluppato, è cresciuto. Non è corretto giudicare del presente senza conoscerne le radici, soprattutto se sono comuni.

In quegli anni Messner espresse un rigido bilancio sull'alpinismo extra-europeo: “Ormai l'Himalaya è superata, più in alto non si può... adesso la sfida sta nelle grandi distese”.  Leggendo di questa frase, Güllich se la prese e maturò un suo personale tentativo di risposta.
La storia insegna che questo genere di riflessioni è sempre prematuro (e ribadisco sempre). Motti, nella sua guida sul canavese, scriveva che al Caporal poco restava da fare senza usare chiodi a pressione, e ben dopo di lui ancora altre vie vennero aperte senza alterare la roccia. Royal Robbins aveva la stessa idea riguardo a El Capitan. Anche Messner giudicò prematuramente come chiuso il campo degli ottomila, dopo la loro salita per le vie più logiche e tecnicamente meno esigenti; Güllich ebbe invece la visione di alpinisti che scalavano in libera, senza utilizzare i chiodi come mezzo di progressione, le altissime pareti himalayane cercando l'estetica e la prestazione. Si trattava di esportare sulle più alte pareti del mondo lo stile imparato nel Frankenjura, in Yosemite, in Verdon, a Finale. Si trattava di imparare dalla lezione himalayana di Messner e di aggiungerci proprio quello che lo stesso Messner aveva fatto in Dolomiti, con le sue incredibili vie in solitaria agli albori del VII. Serviva lo stesso coraggio degli alpinisti di sempre, insieme ad un allenamento specifico e di altissimo livello.
Serviva una mente in grado di concepire ed esprimere quest'uovo di Colombo, che ha aperto la strada ai migliori alpinisti di oggi. All'epoca pochi videro dove conduceva la strada, pochissimi si permisero di percorrerla. Ciò che oggi è alpinismo di punta è stato additato più di un decennio fa da Wolfgang Güllich – con l'esempio.

Dal libro emerge l'immagine di Güllich sempre gentile, onesto e attento alla correttezza. Schivo, un po' introverso, ma amante dell'amicizia e della vita libera. E' un impulso fortissimo a rivedere i nostri modelli di arrampicata consumistica in falesia: “l'obiettivo – scriveva nel suo manuale – è la salita free-solo di un itinerario sconosciuto” – cioè slegati e senza aver mai provato prima; rivedere anche il modello di alpinismo a tutti i costi che ogni domenica ci viene tristemente mostrato sulle vie normali intasate dei nostri quattromila. Chi vuole può sentirsi in dovere di rivisitare in questa chiave anche una vita piena zeppa di compromessi – e qui ognuno valuti da sé.
Leggere questo libro fa bene alla psiche, fa tornare dentro la voglia di crearsi la propria visione della vita, la propria arrampicata e il proprio alpinismo, oltre l'ansia da prestazione, la necessità di esibirsi, oltre qualsiasi moda e qualsiasi modello proposto/imposto.
Sarà perché ho letto il libro contemporaneamente a Ci sfiorava il soffio delle valanghe di Paleari, ma davvero penso che ognuno alla fine potrebbe sentire il desiderio di trovare una parete nascosta, senza sapere se sia mai stata salita – e salirla. Salirla privatamente, senza esibizione o racconto; chissà se lì sarebbe possibile trovare quella “maggior consapevolezza di sé” che molti arrampicatori accampano come risultato umano delle loro scalate e che – personalmente – non ho mai sfiorato.

Güllich era un leader, un pioniere, e questo nel senso più puro dell'esplorazione e della ricerca (forse il motore dell'alpinismo?):
 

«L'arrampicata sta diventando sempre più un riflesso della società. [...] Molto apparire invece che essere. Ci sono colori di moda da indossare, ci sono zone di moda da visitare e vie di moda da arrampicare. La miglior zona d'arrampicata viene descritta da qualche parte e già si forma il corteo di arrampicatori che, tutti in fila come pecore, vanno a provare queste vie. [...] Con tutto il rispetto, viene da chiedersi se questo progresso si possa veramente definire tale. Questo sviluppo non porterà forse a una perdita di individualità?»

Marco Bellini
Vercelli, ottobre 2003

 

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Libri correlati
Di alpinismo:
– AMENT, GILL – Il signore del boulder
– CARRARI E FERRARI, Segni sul calcare
– GÜLLICH E KUBIN, L'arrampicata sportiva
(da leggere e confrontare con A. Gennari e C. Core, Train)
– ALP WALL, n. 208 – Estate 2002 (monografia su Güllich)
– HARD GRIT, Videocassetta sull'arrampicata inglese
– WHILLANS, Ritratto di un alpinista
– MESSNER, Settimo grado

Di viaggio ed etica:
– FRANCO MICHIELI, vari articoli su Rivista della Montagna
– CHATWIN, Che ci faccio qui?
– ALBERTO PALEARI, Ci sfiorava il soffio delle valanghe
– PEKKA HIMANEN, L'etica hacker
– MAX STIRNER, L'Unico e la sua proprietà
– FOSCO MARAINI, Viaggiator curioso

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