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la recensione letteraria di intra i sass |
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Titolo: Wolfgang Güllich -
Action Directe |
Wolfgang Güllich - Action Directe recensione di Marco Bellini |
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Güllich è un nome noto agli arrampicatori sportivi, per aver più volte innalzato il livello in arrampicata libera (raggiungendo infine il 9a della scala francese, nel 1991), per aver scritto il primo manuale di arrampicata sportiva, tutt'oggi ristampato, e per essere – non ultimo – riuscito a vivere di sola arrampicata.
Quindi – sembrerebbe logico dedurre – questo libro è
indirizzato principalmente a chi s'interessa di arrampicata sportiva,
riuscendo invece di scarso interesse per l'appassionato di alpinismo?
Innanzitutto perché supporre che la storia dell'alpinismo
non sia campo per un uomo che ha aperto Eternal Flame (IX-/A2 -
Himalaya a 6000 metri di quota) e Riders on the storm (36 tiri fino
al IX/A3 sulle Torri del Paine in Patagonia) è un'assurdità. Poi, perché
ostinarsi a vedere Güllich in pantaloncini a torso nudo che scala a Finale
Ligure è voler vedere solo quello che permette di mantenere invariati i
nostri pregiudizi, spesso dovuti alle nostre reali incapacità.
Wolfgang Güllich fu arrampicatore sempre fortemente
influenzato da un'idea etica dell'arrampicata, che lo ha spinto a
considerare valide le sue salite solo se effettuate dal basso e senza la
possibilità di calarsi sul tiro per studiare i passaggi singolarmente;
assai spesso usava proteggere i suoi tiri con nuts o altri aggeggi
(il famigerato bivo, che uscì da un buco causandogli una rovinosa
caduta a terra) al posto dei chiodi a pressione, apprezzando in questo
senso l'etica americana e quella anglosassone di Moffat e degli altri
scalatori del grit. Senza dubbio le cifre romane che definiscono i gradi di difficoltà sono una prestazione sportiva, tuttavia essi non dovrebbero in nessun caso diventare la misura di tutte le cose nell'arrampicata. Molto più importante e significativo è lo stile con cui un grado di difficoltà viene superato. (Güllich e Kubin, L'arrampicata sportiva) Da giovanissimo iniziò a frequentare la montagna scalando tutte le vie più dure della sua zona; scalava le classiche del VI grado tutte staffe e chiodi, in scarponi e col martello. Col tempo si accorse che era possibile fare di più. Cominciò a frequentare coloro che liberavano le classiche e aprivano nuove vie di difficoltà superiore. Cominciò ad allenarsi. Cominciò a riflettere su che senso avesse utilizzare chiodi e staffe laddove, con nut e adeguato allenamento, era possibile passare in libera (un problema ancora oggi irrisolto...).
Fondamentalmente Güllich era un viaggiatore e un giramondo,
insofferente agli obblighi e alle mode. Si costruì una vita senza troppi
condizionamenti, dedicò se stesso all'arrampicata, rinunciò ad un lavoro
fisso per poter andare in giro per il mondo a cercare. Una passione
bruciante per l'arrampicata lo spinse ovunque, a studiare i modi e le
tecniche, aprendo vie nuove ovunque andasse. Esplorava tanto il mondo
(forse con uno sguardo un po' disinteressato) quanto le sue personali
capacità, fisiche e mentali. Anche chi non scala o non pratica l'alpinismo sa però bene cosa voglia dire farsi prendere da una passione; vuol dire allenarsi (mentalmente o fisicamente), prepararsi, organizzare la propria vita per poter dedicare tempo a sufficienza alla nostra passione al fine di raggiungere ambiziosi obiettivi che ci si è prefissi. Güllich scelse di assecondare completamente la propria passione, senza scendere a compromessi. Non apprezzava le gare, il cui clima era troppo competitivo e teso: vi partecipò solo per divertirsi con gli amici, senza mai ottenere un piazzamento degno di rilievo. Amava arrampicare ovunque: volle eseguire il più lungo traverso della storia (sulla muraglia cinese), fece trazioni sulle bocche dei carri armati nel deserto, oppure boulder sulle piramidi. Mangiava enormi quantità di torte alla panna, però faceva duecento trazioni prima di andare ad arrampicare e, al ritorno, ne faceva altre duecento. Almeno da questo lato, aveva decisamente pochi condizionamenti. L'assuefazione ai libri dell'epoca dell'alpinismo eroico potrebbe indurre in tentazione: sarebbe facile giudicare questo libro come “per climber”, per quei pochi che potrebbero essere interessati a leggerlo. E' invece d'obbligo per un appassionato di alpinismo dedicarsi alla lettura del volume, per seguire una vicenda tutta umana che introduce garbatamente ad un mondo che dall'alpinismo è nato, si è sviluppato, è cresciuto. Non è corretto giudicare del presente senza conoscerne le radici, soprattutto se sono comuni.
In quegli anni Messner espresse un rigido bilancio
sull'alpinismo extra-europeo: “Ormai l'Himalaya è superata, più in alto
non si può... adesso la sfida sta nelle grandi distese”. Leggendo di
questa frase, Güllich se la prese e maturò un suo personale tentativo di
risposta.
Dal libro emerge l'immagine di Güllich sempre gentile,
onesto e attento alla correttezza. Schivo, un po' introverso, ma amante
dell'amicizia e della vita libera. E' un impulso fortissimo a rivedere i
nostri modelli di arrampicata consumistica in falesia: “l'obiettivo –
scriveva nel suo manuale – è la salita free-solo di un itinerario
sconosciuto” – cioè slegati e senza aver mai provato prima; rivedere anche
il modello di alpinismo a tutti i costi che ogni domenica ci viene
tristemente mostrato sulle vie normali intasate dei nostri quattromila.
Chi vuole può sentirsi in dovere di rivisitare in questa chiave anche una
vita piena zeppa di compromessi – e qui ognuno valuti da sé.
Güllich era un leader, un pioniere, e questo nel
senso più puro dell'esplorazione e della ricerca (forse il motore
dell'alpinismo?): «L'arrampicata sta diventando sempre più un riflesso della società. [...] Molto apparire invece che essere. Ci sono colori di moda da indossare, ci sono zone di moda da visitare e vie di moda da arrampicare. La miglior zona d'arrampicata viene descritta da qualche parte e già si forma il corteo di arrampicatori che, tutti in fila come pecore, vanno a provare queste vie. [...] Con tutto il rispetto, viene da chiedersi se questo progresso si possa veramente definire tale. Questo sviluppo non porterà forse a una perdita di individualità?» |
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Marco Bellini
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