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 la recensione letteraria di intra i sass 

Titolo: I conquistatori dell'inutile
Autore: Lionel Terray

Traduzione di Andrea Gobetti
Introduzione di Enrico Camanni
Pagg. 333 con illustrazioni b/n
€ 19,50
Editore: Vivalda Editori - 2002
Collana: "I Licheni"

 

I conquistatori dell'inutile recensione di Alberto Pezzini

E' difficile persino trovare le parole per descrivere l'intensità accecante che spira dalle pagine di questo riassunto di vita. Lionel Terray riesce a profondere una tale densità di emozioni nelle pagine scritte che diventa ardua impresa quella di concentrarle nelle parole rigide di una recensione. Di libri di montagna se ne leggono tanti e le emozioni si accompagnano a momenti, affetti, finestre su panorami tinti di azzurro e freddi come la tundra. Il libro di Terray è unico e profondo come un pozzo abissale dove l'acqua si indovina e le pareti risuonano di echi continui. Pubblicato per la prima volta per i tipi di Gallimard nel 1961, quattro anni prima della scomparsa del suo amato autore, viene ora rivisto nella traduzione vivacissima e tambureggiante di Andrea Gobetti, speleologo audace e scrittore godibilissimo che sa scrivere in modo maledettamente invidiabile. La scorrevolezza delle pagine di Terray - tradotte con la limpidezza di Gobetti - restituiscono le emozioni forti e coinvolgenti dei fumetti o dei romanzi di avventura che da bambino ti inchiodavano su una sedia nei pomeriggi piovosi e fuori a giocare non si poteva andare. Il coinvolgimento è pressoché totale ed ogni momento di libertà e divertissement viene già prenotato per la lettura fino a quando il libro termina all'improvviso e ti ritrovi con una pienezza straripante che vorresti comunicare ed un vuoto improvviso apertosi dietro le spalle. Un classico a cui non si può rinunciare e che si deve leggere per andare in montagna. Nelle pagine di Terray c'è la montagna in toto: dallo sci con cui inizia, giovane squattrinato, a cercare di trovare un momento di equilibrio nella vita anche sotto il profilo economico, alle prime arrampicate condotte con amici sempre diversi e poi in coppia con alpinisti indimenticabili. Passano con una velocità impercettibile montagne asperrime e taglienti come coltelli acuminati: viene vinto l'Eiger - anche durante quella spedizione di soccorso che vide l'autore affannarsi per salvare un italiano allucinato dalla montagna, Corti; ve lo ricordate nel libro bellissimo e toccante del CDA? - allo Sperone Walker e fino al Pizzo Badile, per arrivare all'Annapurna di Herzog ed al Fitz Roy, in una cavalcata alpinistica che non termina mai. Ciò che colpisce di Terray è la sua inesauribilità, il carattere terragno ed incrollabile di un cittadino innamorato visceralmente delle montagne fino all'ultimo spasimo. A volte la penna dell'alpinista - e c'è da domandarsi quando abbia trovato il tempo materiale di scrivere un libro del genere - lascia intravedere profondi e saggi squarci dell'anima dell'uomo che non sa darsi pace e non sa godere di un solo momento della propria vita in cui potersi fermare pochi battiti di ciglia e respirare la montagna nella sua purezza. Dove il cielo si confonde con la neve bianchissima e liliale delle cime più alte del mondo, quando l'aria è rarefatta e la sua semplice inalazione cagiona un dolore quasi fisico e fa sanguinare se non hai l'ossigeno, qui Terray sogna momenti di calma apparente. Torna poi alla casa, all'amata Grenoble ed appena il riposo è stato tale da restituire un poco di sostanza ad un corpo consumato dalla fatica e dalla tensione, vuole ripartire immediatamente. La narrazione della vita di guida ci dà uno spaccato sincero di chi è la guida veramente e di certi momenti in cui le guide avvertono quelle sensazioni che ti domandi sempre se vivano anche loro. Quando ti dai ad una guida l'affidamento diventa totale e soltanto la sua esperienza e capacità diventano i più veri lasciapassare per scalare una vetta. Le pagine più ammalianti - e bisognerebbe interrogare Freud per comprendere i sottili meccanismi che un libro così completo sa far scattare - sono quelle in cui rivive l'Annapurna e le spedizioni in Tibet e Nepal. Qui si può respirare ancora l'aria sottile e tagliente degli ottomila e provare per un solo attimo, terribile, l'angoscia assordante che si può toccare a quell'altitudine quando i tuoi compagni sono accecati dall'oftalmia, hanno la carne bruciata dal gelo che macina le articolazioni, il vento taglieggia le menti e gli occhi si fanno vitrei con le orbite svuotate. La marcia di avvicinamento, i campi insieme agli alpinisti più brillanti e versatili - c'è chi dopo un'esperienza così lancinante come l'Annapurna si dedicherà all'automobilismo estremo dove la tecnica verrà sfruttata fino all'ultima goccia quasi a voler sfidare e ricercare quella morte che tante volte ti eri ritrovato danzante davanti agli occhi inargentati dal ghiaccio vorace -, la vetta dove il vento unisce nel silenzio più profondo la montagna al cielo, diventano i momenti più catturanti di tutte le pagine. Se potessi starei tutta la notte ancora a a scrivere - male ovviamente - di queste pagine che sono la massima espressione dell'alpinismo e della letteratura di montagna e che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita. Guardate la fotografia che c'è in copertina: gli occhi stanchi di Terray sono pieni di un senso malinconico e potente di vita che nessuna montagna potrà mai far trascolorare. Ed è bello pensare che la montagna, che tanto ha dato a Terray, lo abbia voluto con sé anche nella morte per difenderlo da ciò che sarebbe potuto arrivare dopo. Ciò che gli ha dato ha richiesto un prezzo molto elevato ma, se ci pensate, un libro simile ed una esistenza così completa e piena non avrebbero potuto essere pagati meno cari.

P.S. La traduzione di Andrea Gobetti val bene una bottiglia del migliore Barbaresco di Gaja che possiate aver bevuto in tutta la vostra vita e per tradurre così è meglio ritornare sui banchi del liceo e passare i pomeriggi di aprile a leggere Gide dall'originale. Magari servisse a qualcosa e che invidia!

 

Alberto Pezzini
Sanremo, maggio 2002


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