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Le Dolomiti cessarono di essere un «altrove» in senso geografico
non molti anni dopo avere avuto il nome e poco dopo che, con il progredire
dell'unificazione italiana, vennero tagliate da un confine fra stati. A
dissolvere la lontananza geografica furono la ferrovia, intorno al 1870, e
le strade (penso soprattutto, emblematicamente, alla Grande strada delle
Dolomiti inaugurata nel 1909). «Senza strada, nessun hotel; senza hotel,
nessuna strada» amava dire il pioniere del turismo sudtirolese, Theodor
Christomannos; e fu proprio il turismo a creare le basi per la scomparsa
(o forse meglio l'eclissi, l'oscuramento) di un secondo «altrove» delle
Dolomiti, quello antropologico. Se leggiamo i resoconti dei viaggiatori,
soprattutto inglesi ma anche quei pochi francesi, del secondo Ottocento
vediamo un'immagine di queste montagne che ricorda quella che può offrire
oggi un paese come il Perù fuori dai percorsi turistici (devo il
riferimento a due conoscitori di entrambi i mondi, Silvia Metzeltin e Gino
Buscaini); d'altronde la regione dolomitica era a quei tempi una delle
ultime zone delle Alpi a essere raggiunta dal turismo. Con poche ma
significative eccezioni, questi libri ebbero un'edizione italiana negli
anni Ottanta, in un periodo in cui l'editoria sulle Dolomiti era alla
ricerca di nuove idee, soprattutto in Italia. Si tratta di un pugno di
libri che vengono continuamente citati. Quel revival era il sintomo di una
nostalgia: applicato alle Dolomiti fu un fenomeno tipicamente italiano.
Con la scomparsa nel secondo dopoguerra di molte attività tradizionali,
con l'urbanizzazione e l'abbandono dei terreni marginali, con l'iscrizione
di alcune valli dolomitiche nei «distretti industriali» del Nordest, con
l'esplosione delle stazioni invernali si è molto attenuata, se non è del
tutto sparita, l'immagine di un mondo «altro», basato su un paesaggio
interiore forse arcaico ma capace di produrre modelli riconoscibili,
alternativi a quelli della pianura. Quel paesaggio interiore era costruito
anche attraverso la trasmissione fra generazioni di storie e leggende, di
pratiche di fede, di un senso contadino del tempo sia cronologico, sia
meteorologico. Vogliamo trovare una data emblematica di questa scomparsa
dell'«altrove antropologico»? Suggerisco le Olimpiadi del 1956 a Cortina,
o i mondiali di sci del 1970 in Val Gardena: l'ingresso ufficiale della
modernità in queste montagne.
Per cinquanta-sessant'anni, a cavallo fra Otto e Novecento, i libri di
viaggio inglesi e francesi nelle Dolomiti tramandarono l'immagine, che ben
presto risultò oleografica e stereotipata, di un paese lontano e diverso.
Così era per gli inglesi con il loro punto di vista imperiale. Ma così era
anche per un divulgatore benemerito come Antonio Stoppani: basta leggere
il capitolo iniziale del Bel Paese nel quale l'abate scienziato
descrive la risalita del Canale d'Agordo con l'intento evidente di
«avvicinare l'altrove», facendolo conoscere, appena fatta l'Italia, ai
nuovi italiani e con ciò stesso superandolo, eliminandolo. I tedeschi,
invece, non vedevano allora le Dolomiti come una particolarità, un caso
eccezionale, ma come la parte di un tutto: le deutsche Alpen, le
Alpi tedesche. Molti e interessanti sono gli articoli (veri e propri
saggi) che si possono leggere in questa chiave nelle annate della Rivista
del Club alpino austro-tedesco fino alla Grande guerra. Che, come
sappiamo, segnò anche per le Dolomiti la fine di un mondo, la scomparsa di
un confine politico: ma non quella di confini culturali che in parte si
riconoscono tuttora.
E oggi: in che modo queste montagne rappresentano ancora un «altrove»? in
che cosa possiamo esplorarle per cercare particolari capaci di spiazzarci
e stupirci, di mettere in discussione alcune certezze, di spingerci a
interrogarci sul nostro modello di vita? Perché questo, secondo me, è il
senso dell'altrove.
Se così è, altrove non sono soltanto luoghi lontani e pieni di avventura,
ma anche realtà che si crede di conoscere ma che riservano sempre nuove
aperture.
Una prima risposta è che si riconosce ancora, tra antropologia e storia,
nonostante i cambiamenti tumultuosi, uno stile di vita che possiamo
definire «dolomitico»: nell'attaccamento a tradizioni; negli antichi
sistemi di gestione dei beni comuni e delle autonomie (le Regole, le
Magnifiche comunità); nell'intreccio di lingue e di culture attraverso
confini oggi invisibili, ma reali e mobili in un passato anche recente; in
una cura del paesaggio che è un modo assai intimo d'interpretare la
bellezza.
Quando ho lavorato, insieme a Franco de Battaglia, alla preparazione dell'Enciclopedia
delle Dolomiti, tutti questi intrecci sono emersi con tanta forza che
abbiamo deciso di affrontarli direttamente in una serie di capitoli
d'insieme, perché ci sembrava che solo così si potesse suggerire al
lettore come esplorare, come un altrove, queste montagne.
Trovare nei dettagli i riflessi di tutto questo è un primo approccio a un
«altrove» dolomitico. E i dettagli possono essere i più vari: la cura dei
prati (anche se non dovunque); oppure le storie antiche della valle di
Primiero affrescate da Riccardo Schweizer accanto al campo di calcio a
Siror; oppure ancora le tracce, soprattutto quelle meno invase dal
turismo, della Grande guerra. O ancora gli intrecci linguistici che sono
intrecci di culture.
Ma noi cerchiamo, qui e oggi, qualcosa di più specifico. Una seconda
risposta ci aiutano allora a trovarla la letteratura, i libri. E non solo
quelli «di montagna»: una tipologia che non compare neppure nelle
classificazioni che l'ISTAT usa per analizzare il mercato editoriale.
Mi è capitato di leggere una citazione da un autore inglese di biografie,
Richard Holmes, che ci offre uno spunto interessante. Si occupava di
Robert Louis Stevenson e stava cercando le tracce dello scrittore nelle
Cevennes, la regione francese sulla quale Stevenson aveva scritto un libro
di viaggio. Holmes intraprese lo stesso viaggio cercando le tracce del suo
uomo, per poterne ricostruire lo stato d'animo e l'esperienza. Capì che
non sarebbe mai riuscito nel suo intento quando si trovò
nell'impossibilità di attraversare un ponte semicrollato: il passato si
rivelava improvvisamente come «un altro paese» e lui si rese conto che non
è immedesimandosi col soggetto che se ne può raccontare la vicenda con
verità. Anche nelle Dolomiti il passato è «un altro paese», una forma di
altrove.
Un esempio. Durante la preparazione di una monografia sulle Pale di San
Martino, che concepivo piuttosto con lo spirito di un libro di viaggio
(parte sul terreno, parte negli archivi), ho cercato a San Martino di
Castrozza l'hotel Fratazza, quello dove Arthur Schnitzler ha ambientato la
vicenda della Signorina Else. Da oltre ottant'anni l'albergo non esiste
più, se non in vecchie carte e dipinti d'epoca, solo qualche cultore di
storia locale ne sa qualcosa; fu uno dei pochi a non essere ricostruito
dopo la Grande guerra e il luogo dove sorgeva è da decenni il piazzale di
una funivia, il nome è passato a un altro albergo più recente, degli anni
Trenta. L'ho cercato con accanimento, quell'albergo scomparso, ho cercato
chi potesse raccontarmene la storia, ho raccolto vecchie foto; poi dal
luogo dove sorgeva ho guardato il Cimon della Pala come se questo mi
aiutasse a capire cosa poteva avere negli occhi Else quando disse «Troppo
grande il Cimone, fa paura, sembra che voglia cadermi addosso». E la
signorina Else sarà esistita o no? Schnitzler fu più volte a San Martino,
ma scrisse quel racconto quando già l'albergo non esisteva più. E anche
per Else quel luogo di villeggiatura, dove si consumerà la sua tragedia, è
un altrove. È circondata da persone del suo mondo, dalle abitudini della
sua società, ama le gite in montagna; ma i luoghi, le montagne sono la
scena fredda nella quale la ragazza dirà addio alla vita. Schnitzler, nel
suo racconto, fa delle Dolomiti un «luogo altro», che spiazza e inquieta
il lettore e il turista: si guarda al Cimone con occhi diversi, dopo
averlo letto.
È un «altrove», questo, facile da sperimentare: Buzzati ce ne dà molti
altri esempi. Uno per tutti, il deserto dei Tartari. Qualunque vallone o
altopiano delle Dolomiti egli avesse in mente, ne ha fatto un luogo altro,
di attesa e di ansia. E il gioco degli esempi può continuare. Si possono
così incrociare le memorie di Kokoschka e di Alma Mahler per avere
un'immagine del passo Tre Croci molto più romantica e intensa di quella
che nella realtà quel luogo trasmette. La valle di Zoldo può essere
riletta attraverso certe pagine di Vassalli e quella del Biois, la valle
dei santi alle finestre, attraverso la storia degli antichi pittori
inventata da Enzo Demattè.
Andare alla ricerca di cose come queste (e sono mille) è un modo, a buon
mercato se si vuole, di essere viaggiatori e non turisti; di leggere la
montagna senza rivolgersi alla letteratura di montagna; di fare
scorribande fra letteratura italiana e letteratura tedesca. È anche uno
stimolo a cercare i piccoli particolari che fanno delle Dolomiti un mondo
diverso, che può darci idee e suggestioni. Si tratta di un altrove dal
sapore letterario, ma che offre esperienze importanti a chi è capace e ha
voglia di scoprirle.
Nella casa editrice in cui lavoro, ho cominciato a occuparmi della collana
di libri di montagna quasi trent'anni fa. Ripercorrendo questo periodo mi
chiedo, per tenermi al tema: dove sta l'altrove delle Dolomiti
nell'editoria specializzata, quella dei cosiddetti libri di montagna, che
illustrano queste montagne in Wort und Bild, in parole e immagini,
come si diceva una volta?
In un elenco approssimativo e personale, comincerei con i libri di Toni
Hiebeler, in Germania, e di Piero Rossi da noi fra gli anni Sessanta e
Settanta: l'idea delle alte vie nelle montagne bellunesi, dello
scialpinismo nelle Dolomiti; la descrizione accurata di un parco che era
ancora di là da venire: erano modi di esplorare un «altrove» rispetto ai
panorami standard e alle zone del turismo consolidato. C'era poi la
necessità di riprendere il filo della documentazione alpinistica: e vanno
ricordate, per la gran massa di documenti di prima mano, almeno le
monografie di Bernardi e di Angelini da noi, alcuni libri di Helmut Dumler
(sulla Marmolada e le Tre Cime) in Germania. Lo sguardo sulle Dolomiti, mi
pare, era analogo nell'editoria italiana e in quella tedesca. E anche in
quella italiana di lingua tedesca, assai florida (penso in particolare ai
libri di Hermann Fras e di Hans Paul Menara).
Poi, fra gli Ottanta e i Novanta, ricordo alcuni titoli che, pur
somigliando a guide illustrate, offrivano uno sguardo nuovo e inedito: i
primi di Visentini sui gruppi dolomitici, la collana d'itinerari scelti
ideata da Rébuffat (o secondo altri, con opposto campanilismo, da Walter
Pause) e, più recentemente la proposta di una riscoperta delle vie normali
di Buscaini e Metzeltin. Gli esempi anche qui sarebbero mille, ma tra
tutti quest'ultimo mi sembra particolarmente emblematico.
Quando progettammo (autori ed editore) questo libro, pensammo alle vie
normali come a un vero «altrove» a portata di mano, un altrove rispetto
all'alpinismo blasonato e alla moda delle vie ferrate (alla quale peraltro
in casa editrice abbiamo contribuito senza rimorsi). Andare a cercare le
vie normali porta a un alpinismo d'altri tempi, a ripercorrere tracce
solitarie, qualche volta all'avventura: gli autori ne trassero
un'esperienza positiva e diedero un'immagine a tutto tondo di un mondo
dolomitico per nulla banalizzato. Fu l'unico caso in cui, di un nostro
libro, pubblicammo direttamente anche l'edizione in lingua tedesca. Mentre
però l'edizione italiana ha avuto buon successo, i risultati di quella
tedesca sono stati modesti: questo è stato per noi un chiaro segnale che
il sottile e sfrangiato confine linguistico che attraversa queste montagne
è anche un confine editoriale. Capita spesso infatti che un libro tedesco
sulle Dolomiti sia tradotto in italiano, assai di rado l'inverso. È un
problema di mercato; da noi le Dolomiti sono uno dei pochi soggetti
rispetto ai quali ci si può spingere su strade anche un po' nuove, perché
hanno un bacino di vendite relativamente ampio e sicuro: continuano
infatti a essere per noi un «altrove» unico. All'estero, invece, le
Dolomiti sono comunque una montagna fra le altre e spesso la ripetitività
e la generalizzazione premiano più che l'approfondimento.
Nei dodici cataloghi della rassegna Montagnalibri del Festival di Trento
compaiono forse due-tremila titoli. Non so quanti riguardino le Dolomiti,
azzardo l'ipotesi che siano fra un sesto e un quinto. Fanno
tre-quattrocento titoli in una manciata d'anni. Mi sembrano davvero tanti.
Questi libri appartengono a tutti i generi letterari e a molte delle
lingue europee (prevalentemente italiano, tedesco e ladino). Le Dolomiti
sono dunque ancora un bel laboratorio per elaborare modelli di ricerca
storica, sociologica, linguistica; anche per tentare – come è stato fatto
sia in italiano sia in tedesco – una nuova divulgazione scientifica (basta
pensare a recenti bei contributi in campi difficili come la geologia o la
toponomastica). Ancora, per elaborare stili di scrittura: si vedono nuovi
modi di raccontare l'alpinismo, un rifiorire di studi biografici, una
narrativa che scava nelle esperienze e nelle tradizioni della gente di
montagna. Insomma, in un terreno già arato c'è ancora molto da fare, c'è
un possibile altrove da esplorare.
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