Un ponte in pietra sul
torrente, una carrozzella trainata da due cavalli che si avvicina, i versanti
scoscesi di due montagne a fare da quinte, uno squarcio al cui centro sfrecciano
i maestosi torrioni e le ardite guglie di un castello di roccia. Ancora pochi
metri e i passeggeri di quella carrozza si sporgeranno stupiti dalla cappotta di
protezione mentre il cocchiere tirerà le redini per una breve sosta di
contemplazione verso uno spettacolo mai visto, verso qualcosa di spaventoso e
sublime al tempo stesso: le Tre Cime di Lavaredo. Se non ci fosse la didascalia
a margine stenteremmo a riconoscerle, abituati come siamo a leggere la realtà
attraverso la precisa documentazione delle riproduzioni fotografiche, che ce le
restituiscono nella loro veritiera e non meno stupefacente struttura. Eppure era
così che il pittore francese Frédéric Martens le aveva “vissute” la prima volta
che gli si era aperto quel sipario percorrendo la Val di Landro, in un giorno
d'estate del 1840, sulla strada che collega la Pusteria a Cortina d'Ampezzo. Il
suo disegno, riprodotto con un'incisione all'acquatinta, mostra l'effetto
provocato sul suo occhio interiore, sulla sua anima: l'immagine risulta un po'
deformata, il famoso “trittico” appare più slanciato e aguzzo di quanto non sia,
ma comunica quale forte impatto emotivo ne sortì e ce ne rende partecipi. In
un'altra incisione, molto più tarda (del 1895) e di autore anonimo, il momento
della sorpresa di fronte ad una visione di montagne è protagonista della scena e
i turisti sul cocchio sono già pronti con i binocoli mentre il vetturino fa da
Cicerone indicando con il suo frustino: è una veduta di Cima Tosa dalla strada
per Madonna di Campiglio, dove le cime vengono descritte nella loro realistica
consistenza e proporzione e i toni romantici risultano smorzati da una volontà
di maggiore fedeltà al vero.
Sono due delle anime del Romanticismo, quella più visionaria e quella figlia del
positivismo, che a momenti convivono e a momenti si acca-vallano al di là dei
confini imposti dalle schematizzazioni cronologiche.
Sono soltanto due dei settantuno preziosi “quadri” che si possono gustare a
Bolzano, dove è allestita una mostra che fa da appendice alla chiusura dell'Anno
internazionale della montagna e che, come recita il titolo, è interamente
dedicata a scorci e vedute delle cime cui Dieudonné de Dolomieu diede il nome.
Non mancano disegni e acquerelli, ma si tratta prevalentemente di stampe,
incisioni all'acquaforte e all'acquatinta, anche se la parte del leone la fanno
le litografie, quasi tutte a colori. E' ben noto che questa tecnica di
riproduzione a stampa ebbe un breve momento di fulgore agli inizi
dell'Ottocento, ben presto soppiantata dalla fotografia. La litografia consentì,
con una riduzione dei costi, l'introduzione sul mercato di grandi quantità di
riproduzioni e di conseguenza una diffusione più capillare, alla portata di
tutti, di illustrazioni di vario genere. La pittura di paesaggio ne ricevette un
forte impulso e molti benefici: pensiamo alla moda dei Voyage pittoresques,
preludio e/o corollario necessari al Grand Tour del viaggiatore straniero. E il
nascente turismo alpino dell'area in questione, cui faceva da snodo proprio
Bolzano, veniva in buona parte foraggiato anche dalla circolazione delle vedute
dei suoi dintorni. Era forte il desiderio di portare con sé un ricordo o un
petit cadeau per gli amici - questo spiega il formato cartolina di alcune delle
litografie esposte, quelle più tarde - dopo aver percorso le vallate alpine o
dopo aver raggiunto una cima. Diversi pittori o semplici illustratori dedicarono
la loro opera a questa attività, facendo fiorire un discreto mercato. Oggi
quelle vedute costituiscono un bene culturale di notevole pregio perché nel
corso del tempo la dispersione, la facile deperibilità e il perfezionamento
della tecnica fotografica le hanno trasformate in rarità. Non dimentichiamo che
certe riprese topografiche, specie quelle panoramiche - e in mostra ci sono gli
straordinari esempi del bolzanino Gustav Seelos - richiedevano innumerevoli
appostamenti, come ricorda uno dei disegnatori: “E quando le nuvole, alte su nel
cielo, gettano la loro ombra sui singoli versanti, sembra quasi si facciano
beffa dell'artista; egli può trascorrere otto o quindici giorni su di una cima,
con un tempo splendido e limpido, ed essere convinto di aver visto e disegnato
tutto. Quando tornerà sulla vetta con il vento che spira da una direzione
diversa, si accorgerà ad un tratto di un'altra cresta, che si staglia nitida
verso di lui, ma che lui prima non aveva mai notato”.
E' il secolo XIX , per ovvi motivi, il più rappresentato, anche se non manca
qualche ricercato esempio precedente, come l'incisione seicentesca dell'idillico
paesaggio con sullo sfondo la prima raffigurazione (ma è solo un'ipotesi) del
Monte Pelmo, ispirata da un disegno originale di Tiziano. Il nome di quest'ultimo
viene sempre menzionato nelle vedute dei dintorni di Pieve di Cadore, suo luogo
natale, quale motivo di attrazione ulteriore.
Ma l'attrazione per le Dolomiti era di per sé sufficiente a mettere in moto gli
appassionati dell'area germanica, che superavano le strette della Val d'Isarco
per vedersi schiudere un mondo tutto da esplorare avendo come base Bolzano, cui
si era conferita l'investitura di città del Sud (!). Anzi per gli esponenti
clericali più conservatori la moda del turismo alpino era diventata una fonte di
preoccupazione, un'attività da contrastare, ché la Domenica nessuno andava più a
messa, per andare in montagna: si temeva la penetrazione di idee liberali e del
protestantesimo tra i valligiani.
Questa mostra è una ghiotta occasione per gli amanti di storia dell'alpinismo e
per i cultori dell'arte.
Gli agili saggi del raffinato catalogo forniranno al lettore attento tutta una
serie di elementi e di chiavi di lettura e di riflessione sulla storia dello
sviluppo turistico di Bolzano e del Tirolo (con la costruzione delle
infrastrutture stradali e ferroviarie) e quella dei club alpini tedesco e
austriaco che operavano sul territorio.