JEDAN, DVA, TRI UNO, DUE, TRE
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di Mauro Mazzetti | |
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Uno, due, tre: scalino, maniglia, sedile. Sono
finalmente seduto sul Transit, automezzo promiscuo per il trasporto di
persone e merci, come recita la carta di circolazione. Il più è fatto,
abbiamo caricato il caricabile e possiamo partire per i 500 chilometri che
ci separano da Ancona. Il viaggio sembra ogni volta più corto, forse per
l'assuefazione ‘on the road’, forse perché si parte sempre più tardi ed il
traghetto ha orari rigidi. Jedan, dva, tri: carta verde, documento, carta di sbarco. Il poliziotto croato sospira tra i denti un'imprecazione rivolta ai soliti italiani pasticcioni, poi malevolmente concede il passaggio. Fuori dalla città, fuori dal traffico caotico di viali e controviali, lo sguardo corre verso bastionate rocciose a picco sul mare. Di fianco al guidatore, alzo oziosamente gli occhi e immagino vie di salita: là una fessura da proteggere, che sale diritta per almeno duecento metri, che si trasforma in un diedro lavorato, che sfocia su una placca liscia liscia, che muore sotto un tetto dalle linee aguzze, che immette su un aereo ed arcuato sperone. Già mi vedo salire, facendo tintinnare la ferraglia, su queste pareti ai cui piedi passa la guerra jugoslava. Mi piacerebbe tornare in tempo di pace, con nut, friend, chiodi e martello, per toccare questa roccia, muovermi tra creste, canali e placconate, per confrontare questi profumi con quelli della macchia ligure, questo odore di calcare con quello della pietra del Finale, questo cielo nuvoloso con quello azzurro della mia terra. Jedan, dva, tri: porta, sciacquone, lavandino. Il fetore nel retro del piccolo bar prima della frontiera avvolge le narici ed induce a trangugiare in fretta il caffè lungo e caldo che aspetta in agguato sul bancone stile ‘anni sessanta’. La Bosnia è dietro l'angolo, più concretamente dopo quella garitta e quell'autoblindo, dopo le divise di finanzieri e poliziotti, dopo i fucili veterani della guerra di Corea, con le tacche sul calcio per ogni nemico ucciso. Jedan, dva, tri: appoggio, appiglio, appoggio. La voglia è più forte dello
sconcerto e dello smarrimento; la parete è lì, appena dietro la strada, e
non sembra particolarmente difficile. Un po' di ginnastica arrampicatoria
servirà a riempire i tempi morti nell'attesa dell'autorizzazione a passare
la frontiera. La roccia articolata si lascia salire docilmente, senza
opporre resistenza al mio procedere costante; salendo, mi guardo in giro,
e vedo campi brulli, distese di melograni maturi, due cani che si
rincorrono, la strada fangosa divisa in due dalla sbarra del confine. Mi
sporgo appena verso la Bosnia, mentre il vento freddo di metà ottobre mi
fa chiudere gli occhi: le cime intorno sono spruzzate della prima neve
autunnale. Sembra proprio di stare sull'Appennino ligure, con la faccia al
mare e la schiena ai monti bianchi; un brivido di freddo mi scuote e mi
riporta alla realtà: sono arrivato in cima alla cresta, e da sotto fanno
gesti esasperati per richiamarmi. Solo dopo capirò che sono stato tutto il
tempo della salita sotto tiro, controllato e sorvegliato dai soldati in
ogni mio movimento. Jedan, dva, tri: destra, sinistra, sinistra. I bambini a Mostar non camminano diritti; i genitori – quasi sempre la mamma, perché spesso il papà non c'è più – hanno insegnato a cambiare direzione repentinamente ed improvvisamente, per non offrire un bersaglio facile ai cecchini che stazionano sulla prima linea del fronte, davanti alla “zona blu” della terra di nessuno. Li vedi camminare così, senza meta apparente se non quella di attraversare incolumi la strada, e pensi ad uno strano gioco di movimenti disarticolati; intanto, lungo il disordinato ammasso di rovine che una volta era la via principale, arrivo al check-point. Jedan, dva, tri: Mostar, Mostar Ovest, Mostar Est. La città, prima unita e
dopo strappata in due, offre solo minareti spezzati, case senza tetti,
cimiteri cresciuti disordinatamente nei giardini pubblici per mancanza di
spazio; dal Monte Velez scende una fuga di balze rocciose per più di mille
metri di dislivello, che uniscono la pianura di Mostar alle vette
circostanti. Ci sarebbero centinaia di vie nuove da salire, un parco
giochi infinito da esplorare in verticale, su e giù da un pinnacolo ad un
contrafforte, da una cresta ad uno zoccolo, passando per cenge e fessure,
per diedri e strapiombi, per placche e spigoli. Jedan, dva, tri: in un attimo si sono raccolti una decina di bambini dagli
occhi brillanti, ciuffo spiovente e cranio rasato. Tutti mi guardano
curiosi, ammiccando e dandosi di gomito; poi uno, più intraprendente,
spicca un salto e si appende al muro. Come se lo starter avesse dato il
via, gli altri si aggrappano alle pietre e cominciano ad andare anche loro
avanti ed indietro sul muro, saltando e cadendo, sottolineando con sonore
risate i capitomboli altrui e con grida di compiacimento i propri
progressi. Non sarà bouldering o sassismo, ma il divertimento è garantito
con poca fatica e con tanta immaginazione.
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Dicembre 2001 | |
Mauro Mazzetti
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