Gli adoratori del Monolito

 

di Gabriele Villa

 

 

Forse è normale, dopo vent'anni che vai in giro per le montagne a fare l'istruttore di alpinismo, di trovarti, in una giornata di tempo schifoso e malumore, in testa ad una fila di allievi e chiederti: “ma chi me lo fa fare?”. Di solito è un pensiero fugace perché le motivazioni che ti spingono le conosci bene, fanno parte del tuo intimo sentire la montagna e del saper apprezzare i rapporti umani positivi che si instaurano fra individui che stanno condividendo un'esperienza e i sacrifici per raggiungere un obiettivo. Così ti dai automaticamente le risposte e continui ad agire. 
Capita anche, qualche altra volta, di chiederti se quello che stai facendo sia la cosa migliore o se non si possa fare meglio o, altrimenti, soltanto in maniera diversa. Succede nei corsi di alpinismo e roccia, quando, con gli altri istruttori, si concordano gli obiettivi didattici, si fissano i temi delle lezioni teoriche, scegliendo un luogo di esercitazione piuttosto che un altro, consigliando una calzatura anziché un'altra o i materiali tecnici della dotazione personale. Soprattutto oggi, dopo l'avvento dell'arrampicata sportiva che tanto ha cambiato nei materiali, nei sistemi di allenamento, nelle abitudini degli arrampicatori, nella mentalità stessa di chi arrampica e frequenta la montagna, ti chiedi se lo schema proposto è ancora ‘al passo coi tempi’. 

Forse è giusto avere questi dubbi, mettersi in discussione; serve per riflettere e cercare di migliorare. Ti capita di pensarci anche adesso che stai camminando davanti al gruppo degli allievi, talmente rapito dai pensieri che nemmeno ti sei accorto che è cambiato il tempo, si è fatto freddo ed è calata la nebbia. Ma non ci sono problemi. “Sono venuto troppe volte fra queste montagne – pensi - per potermi perdere”. Intanto il terreno è diventato scosceso e il sentiero comincia ad inerpicarsi. Ora i pensieri devono lasciare il campo all'azione.
“Ragazzi, fra un po' raggiungeremo la forcella degli Animi Indomiti; è meglio che ci mettiamo l'imbragatura perché dovremo sistemare una corda fissa ed assicurarci”.

Il vento soffia con raffiche violente, trasportando brandelli di nebbia, accumulandoli al fondo della gola e limitando ancora di più la visibilità. Quando il terreno si fa ripido, sistemo la corda a tracolla per averla pronta ed inizio a salire il camino che conduce alla forcella: arrivato sopra la calerò dopo averla fissata ed i ragazzi saliranno col prusik, in sicurezza. Il camino è diventato viscido: non è difficile, ma è meglio stare attenti. Trovo un masso incastrato che mai mi ricordo di avere visto prima. Probabilmente è il risultato di una frana recente: bisogna trovare il modo di passare oltre. Di superarlo all'esterno neanche se ne parla perché strapiomba fortemente. Guardo all'interno e vedo un pertugio da cui filtra luce: dovrei riuscire a passare strisciando sul fondo del camino; sembra la soluzione più semplice. Svolgo la corda da tracolla e la lascio cadere in basso, iniziando ad infilarmi nel foro tra masso e camino. Sembrava più largo visto da sotto, ma oramai ci sono dentro e cerco di procedere per guadagnare la forcella che deve essere subito sopra. Lo zaino si incastra e comincio ad imprecare: “Maledetta frana, proprio qui dovevi venire a rompere”. 

C'è una corrente fredda che, dal basso, si infila nella fessura e mi sta congelando. Forse devo tentare di tornare indietro e togliermi lo zaino. Mentre comincio a disincastrarmi, sento un improvviso soffio caldo arrivare da sopra e vedo una luce forte illuminare il camino. Sento quattro braccia che mi afferrano e cominciano a tirarmi verso l'alto. Appena sono fuori, qualcuno recide la corda che ho all'imbrago e una botola viene subito collocata a chiudere il pertugio da cui sono stato estratto. Tutto è illuminato a giorno e fa un caldo incredibile. E' pazzesco. Non mi trovo certo alla forcella degli Animi Indomiti e non so più nulla dei miei allievi, né degli altri istruttori. 

Improvvisamente una voce si leva imperiosa: “Conducetelo al cospetto dell'Imperatore del Grande Appiglio perché sia giudicato”. I due nerboruti che mi hanno estratto dal cunicolo mi trascinano, praticamente di peso, verso una fonte di luce molto viva. Devo socchiudere gli occhi per il fastidio. Dentro la luce si distingue una sagoma nera, esile e allungata: quello che colpisce è la magrezza quasi ‘spigolosa’ della figura. Capisco che deve essere quello che chiamano “l'Imperatore”. 

“E' da molto che ti aspettavo, obsoleto. Sono anni che continui ad ingannare allievi innocenti mistificando l'esistenza dell'alpinismo. Eppure tu ben sai che l'alpinismo non esiste più, ma continui pervicacemente a condurli fra i pericoli della montagna, al freddo e all'inclemenza degli elementi, insegnando loro cose che hanno perso oramai ogni significato”.
“Non è vero! – ribatto con foga - L'alpinismo esiste ancora, basta crederci. La montagna insegna tante cose importanti, forgia il carattere, è maestra...” “Taci, obsoleto! Non ti è concesso confutare. Non è più il tuo tempo. La sentenza è già stata scolpita sulle tavole di granito”.

Il caldo intanto è diventato insopportabile: indosso ancora la giacca a vento, il passamontagna e i guanti di lana: le gocce di sudore mi scendono dalla fronte e mi entrano negli occhi. Vorrei detergermi, ma non ci riesco perché i nerboruti continuano ad immobilizzarmi le braccia, stringendole fino a farle dolere. La voce continua imperiosa: “Conducetelo al Monolito”. 
Vengo portato in un grande capannone, i cui muri bianchi riflettono la luce emessa da proiettori collocati a soffitto. Al centro campeggia una struttura gigantesca: è un monolito enorme, a base quadrata che si allarga verso l'alto generando strapiombi immani. Fa venire alla mente un Totem. Sulle pareti, su tutti i quattro lati è un fiorire di escrescenze di diverse forme, colori e dimensioni. Con intenso fervore e slancio inesauribile numerosi climber con pantaloni a colori vivaci e canottiere sgargianti sono intenti a salire issandosi fin oltre gli strapiombi, cospargendo meticolosamente le escrescenze di una leggera polvere bianca che cadendo al suolo imbianca il pavimento. 

“Ecco, obsoleto. Questa è la realtà che ti sei ostinato a non vedere, che hai volutamente ignorato. Salendo le pareti del grande Monolito, adorandone le forme possenti, cospargendone gli appigli di polvere bianca noi ne plachiamo le ire. Salendo, sudando e soffrendo tempriamo il corpo ed espiamo, con le nostre fatiche, le colpe accumulate da quelli come te in tanti anni di pratica alpinistica dissennata. Attraverso la disciplina fisica e il sistematico allenamento trasformiamo catarticamente la colpa tua e di quelli come te, in arte arrampicatoria e creatività dinamica”. 
“Ma la vostra è solo ginnastica fine a sé stessa, allenamento esasperato, abilità motoria. – urlo con impeto – Avete dimenticato che l'alpinismo è capacità di...” 
“Basta. Taci! Sapevamo che non avresti capito. Per questo tu non sei degno di salire sul Monolito. Piuttosto, ogni sera rimuoverai la polvere che ne cade al suolo dalle escrescenze e riempirai i sacchetti in modo che siano sempre pronti per le salite dei climber”.
Apro la bocca per ribattere, ma la presa sulle braccia diventa ancora più forte e desisto. Sono sollevato di peso e quasi gettato in un angolo, nei pressi di un cumulo gigantesco di quelle escrescenze colorate che si trovano sulle pareti del Monolito. 

“Lì c'è la brusca metallica, là c'è il secchio con l'acqua e il detergente – mi dicono – comincia a spazzolarle, dopo di che le laverai una ad una. Fra tre giorni devono essere tutte pronte per la sostituzione periodica”.
Vorrei che mi lasciassero togliere la giacca a vento o almeno il passamontagna. Possibile che non capiscano che sto sudando come una bestia? Comincio a spazzolare le escrescenze, ma i guanti di lana mi rendono difficoltosa l'operazione. Ma come sono finito in questo incubo? Ero in montagna con i miei allievi e gli altri istruttori ed ora sono qui. Al caldo. Vestito come se fossi al polo. Con il sudore che mi cola negli occhi. Con la testa che mi gira. Credo di essere sul punto di svenire. Poi, all'improvviso, tutto diventa buio. 

“...Tieni, bevi. Ti farà bene”. Apro gli occhi e vedo un volto femminile che mi guarda con dolcezza e comprensione. I nerboruti sono spariti. Mi sembra che faccia anche meno caldo. 
“Chi sei – chiedo sottovoce – la sacerdotessa del Monolito?”
“Ma cosa dici? – mi risponde – La febbre ti fa straparlare. Ti ho portato la tachipirina. Prendila subito. Ti avevo detto di non andare in montagna con il cattivo tempo!”
“Ma lo sai... il corso”, abbozzo timidamente.
“Prima dovrebbe venire la salute, poi il corso”. 
La dichiarazione è perentoria. Non è il caso di ribattere. Ingollo la tachipirina e mi rintano ancora di più sotto le coperte.
“Non era vero niente! – mi dico gongolando - Era solo uno stupido sogno”. 
Mi giro su di un fianco. Mi godo il calore delle coperte e chiudendo gli occhi, ripenso agli agili climber, ai profili strapiombanti del Monolito, con le sue escrescenze variopinte. Quante volte ho visto figure simili nelle falesie di arrampicata e strutture somiglianti nelle palestre indoor che ho frequentato? Quante volte ho visto usare la magnesite con quei gesti ripetuti che sembrano rispondere a un rituale prestabilito? Perfino la sagoma dell'Imperatore del Grande Appiglio mi ricorda lineamenti conosciuti di qualcuno dei tanti con i quali ho sostenuto interminabili discussioni su dove sta andando l'alpinismo, sull'arrampicata sportiva, sulla ‘lotta con l'Alpe’ in antitesi al ‘gioco-arrampicata’. Naturalmente senza arrivare mai a nulla di concreto. Sogno e realtà sembrano confondersi l'uno con l'altra. Ma, in fondo, che c'è di tanto strano? In fin dei conti l'alpinismo è o non è il ‘magnifico inutile’?

 

Marzo 2001

Gabriele Villa

 

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