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Rivista di Letteratura, Alpinismo e Arti Visive  

Oltre la linea
MOHOLE - III racconto

di Natalino Russo
 

 

 

 

Impossibile che una linea sia infinita, che la regolare successione di punti che le danno vita continui in modo indeterminato, da una parte e dall'altra, senza incontrare mai una qualche interruzione, o una perturbazione, una devianza. In questi pensieri era immerso, Mohole, nel suo appartamento, un sabato pomeriggio caliginoso di luglio, mentre fuori la città si avviluppava intorno alle urgenze di sempre.

Certi enunciati della matematica e della geometria (e a dire il vero non aveva neppure chiara la differenza tra le due) gli erano sempre risultati incomprensibili. Una linea infinita, figurarsi. Oltre una pianura c'è la fine della pianura, e poi le montagne. Così agli estremi di una linea: deve esserci altro, una curva, ecco, lo spazio non può andare dritto, e se è curvo può tornare su se stesso, e così essere infinito; un cerchio, quindi, altro che linea.

In un palazzo, il quinto piano è a una quota strana, non troppo bassa da sprofondare perennemente nell'ombra degli altri edifici, ma neppure sufficientemente alta per farne capolino e guardare oltre. Le periferie delle città: tiri su un edificio e subito dopo, nel giro di mesi, te ne piazzano uno più alto proprio accanto. Mohole si poteva dire però ancora un privilegiato: l'edificio di fronte alla finestra del suo salotto, progettato a sei piani, era rimasto in costruzione, e di quell'ultimo piano esistevano, chissà per quanti altri giorni, soltanto ciuffi di ferri piantati nel cemento come mazzi di fiori. Un palazzo in costruzione significa cantiere, che vuol dire rumore, polvere, fastidi. Ma poco male, del resto il signor Mohole trascorreva la sua giornata al lavoro, fuori casa, usciva al mattino presto, quando i compressori e i martelli cominciavano a girare e a percuotere, e rincasava a sera, a cantiere ormai chiuso. Il sabato mattina si affacciava a guardare i progressi della costruzione, che veniva su a scatti, così gli sembrava, di settimana in settimana, e a ripercorrerne mentalmente tutte le fasi sembrava un oggetto vegetale filmato con una di quelle tecniche di ripresa usate per certi documentari naturalistici, che srotolano una fioritura in pochi secondi.

Il mostro veniva su, quindi, metro dopo metro, rapprendendosi di calcestruzzo intorno all'impalcatura dei ferri, e man mano che diventava più alto, si avvicinava alla linea dell'orizzonte. Era arrivato quasi a lambirla, ma ancora la si poteva vedere, per un'altra settimana o forse due. Che strano, un pilastrone di cemento che si erge dalla pianura e va incontro alla pianura. Da qualche parte, forse su una di quelle riviste che ogni tanto capitano per sbaglio sui tavoli delle sale d'attesa dei dentisti, Mohole aveva letto di una teoria secondo la quale i continenti si scontrano gli uni con gli altri, e che nelle cerniere di queste immense collisioni nascono corrugamenti che somigliano a quelle dei tappeti quando vi si scivola. E se una di queste cerniere si fosse stabilita là in fondo all'orizzonte, proprio dietro il palazzone che stava venendo su? Dalla pianura sarebbe spuntata una montagna, e più si alzava il palazzo, più sarebbe salita la montagna, come se l'uno spingesse l'altra, e così l'orizzonte sarebbe rimasto visibile. Mohole pensò che forse questa era la gran fortuna di chi non vive in pianura, che può vedere l'orizzonte anche se gli costruiscono un muro proprio davanti alla finestra del salotto. E si domandò quanto tempo ci volesse per far nascere una catena di montagne; chissà se con le tecniche moderne sarebbe possibile costruirne una in mezzo alla pianura...

In quell'istante, mentre era appeso a tali divagazioni, lo squillo del telefono gli scrollò di dosso i pensieri e lo restituì alla luce rossastra del tardo pomeriggio.

_________

Domenica. Aveva accettato l'invito ad andare in montagna. Si erano messi in macchina, questa volta più presto, poco dopo l'alba, uscendo dalla città per l'autostrada che tira dritto a nord verso lo spazio aperto della pianura, supera gli ultimi palazzoni e, attraverso la zona dei capanni e delle grosse baracche industriali, riversa automobili sulla campagna. Mohole sedeva accanto al suo amico, che tamburellava allegramente sul volante al ritmo di una qualche musica che doveva avere in testa. Avanti non c'era nulla, non una macchina, a quell'ora di domenica le strade sono deserti, la foschia inghiottiva l'asfalto. Oltre: dove finiva la linea della pianura? Stavano andando proprio là, verso quel confine ancora in-visibile, per la distanza e per la nebbiolina del primo mattino.

La campagna che circonda la città ha qualcosa di diverso dall'altra campagna. Qui non ci sono contadini, ma facoltosi che hanno deciso di vivere appena fuori dal centro; vi si recano ogni giorno per andare al lavoro, ma poi alla sera tornano alle loro villette. Non ci sono masserie dall'intonaco rosso scrostato, né fienili o grossi campi coltivati, qua e là un albero da frutta, piantato per i fiori o per sfizio, più che per necessità di raccolto. Questa non è la campagna, è piuttosto un nuovo quartiere della città. Mohole usava molto la fantasia, sviluppata per occorrenza in anni di vita tra muri di cemento. Immaginò di alzarsi in volo e di osservare quei luoghi dall'alto, di scattare foto da un aereo. Un distesa a perdita d'occhio, villette con giardino, e vialetti e piscine, e davanti ad ogni casa una grossa macchina o due, o tre. Lo colpì l'azzurro turchese delle piscine, che maculava il paesaggio. Tutto intorno arido da far paura, ma accanto ad ogni villetta uno di quei quadrati, o rettangoli, o cerchi o amebe di colore tropicale, pezzi di altri mondi trapiantati lì a chissà quale costo. E, giusto al centro di tutto, la linea dritta, mastodontica, dell'asfalto autostradale, a dividere le ville di destra da quelle di sinistra. Poi un grosso svincolo, un'altra autostrada, perpendicolare alla prima. Così c'era anche un sud e un nord, anche questi diversi tra loro, da un lato piscine più piccole dall'altro vere e proprie cavità olimpioniche, da una parte tetti malandati e automobili normali, dall'altra il lusso, lo sfarzo, le ville faraoniche, macchinoni che passavano a malapena nei vialetti alberati. E tra una e l'altra l'autostrada, che in un senso unisce, nell'altro divide.

Già che si trovava a volare, Mohole pensò di dare un'occhiata a nord, verso il margine della pianura; chissà, magari ne avrebbe scorto il limite. Volse lo sguardo e altroché, caspita, la montagna era là, di fronte a lui, spuntata improvvisamente dal nulla insipido della pianura.

Proprio in quel momento il suo amico gli disse qualcosa che lo riportò coi piedi per terra. Si guardò intorno, oltre il parabrezza la linea bianca al centro dell'asfalto non era cambiata per niente. Autostrada. Ma sullo sfondo c'era qualcosa di inequivocabile. Le montagne, le montagne. Allora era vero, la pianura non è infinita, una mezzora di motore era bastata ad arrivare ai confini della linea. Pensò allo spazio lasciato alle spalle, alla sequenza di edifici, villette, piscine. Qui era tutto diverso. La piattezza era animata dall'ondeggiare di qualche morbida collina, ai lati della strada viottoli si appoggiavano ai rilievi, li montavano con poche curve, sinuosi ma senza zigzagare, e c'erano case finalmente modeste, vere, le siepi curate solo nel tempo libero. Non tutti i campi dei dintorni erano coltivati, forse neppure qui vivevano veri e propri contadini, la campagna sta cambiando anche lontano dalle città.

Poi improvvisamente l'autostrada deviava parallelamente alla catena di montagne, oppure ci passava sotto con qualche lunga galleria. Mohole questo neanche lo sapeva e, impegnato com'era ad osservare il paesaggio, a dire il vero poco gli interessava. La macchina si affidò all'intermittente destro e alla virata decisa che la portò verso la rampa di uscita, al casello, poi subito in una stradina di campagna. Ben presto si diradò anche l'asfalto. Era trascorsa soltanto mezzora dalla partenza cittadina, ma qui il giorno era ormai fatto, la macchina avanzava evitando buche e saltellando, l'amico aveva allargato uno sbadiglio che sembrava uno sbuffo ma era un'esclamazione di allegria, e adesso gli stava illustrando il piano per la giornata. La sera prima, al telefono, Mohole non si era neppure preoccupato di domandargli dove avesse intenzione di portarlo. Sicché adesso ascoltava incuriosito più che attento, come se di cose che non lo riguardavano si trat-tasse

Sarebbero andati su verso l'altipiano e poi, per una strada bianca, avrebbero raggiunto le pareti che sovrastano la pianura. L'idea era di salire in vetta per la normale, una via alpinistica piuttosto facile, alla portata persino di Mohole, che di arrampicata non aveva idea. Procedendo con calma sarebbero stati in cima per il primo pomeriggio, con tutto il tempo per riposare e tornare giù.

Il suo amico era un discreto alpinista, aveva viaggiato molto, salendo montagne nei modi più diversi, per pareti verticali o comodi sentieri. Si erano conosciuti da ragazzini, poi l'altro era partito e stava sempre in giro e faceva un'altra vita. Incontrati di nuovo dopo anni di separazione, avevano riscoperto il piacere di raccontarsi storie. Storie che era quasi esclusivamente l'altro a raccontare; Mohole si limitava il più delle volte ad ascoltare. Erano le storie dei suoi viaggi, infiniti e spensierati, percorsi segnati senza scappare da nulla, col rischio solo davanti, e senza programmare pericoli per nessuno se non per se stesso. Così aveva girato il mondo, questo suo amico, anche egli quasi cinquantenne, ma affatto stanco; proiettato in avanti dalla spinta di tutta la sperimentazione che aveva alle spalle. Incredibile come ciò che ci si lascia dietro possa ancorare o proiettare. Mohole lo ascoltava con grande interesse, ma senza comprenderne l'intensità. Viveva quei racconti come uno svago occasionale, non lo sfiorava neppure l'idea che a quelle cose si potesse dedicare una vita.

A dire il vero aveva anche lui molte cose da dire, ma si era abituato a dirsele dentro. Ogni tanto faceva lo sforzo di raccontare pezzi di sé, e il suo amico subito si zittiva, approfittava di quei momenti imperdibili, della goccia che zampilla da sorgente prosciugata. Zittiva e tratteneva il fiato, poi diceva affascinato che quelle cose meritavano di essere scritte. Mohole sorrideva, con un gesto delle braccia invitava l'amico a non prenderlo in giro, e così andavano avanti.

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Stavano attraversando la campagna autentica adesso, quella dei fienili e delle stalle, dei campi coltivati e dei pascoli. Le case occupavano uno spazio marginale, la strada, serpeggiando decisa tra gli alberi, saliva su una collina e con una mezza curva aggirava una masseria, un cane roteava la coda e abbaiava, inseguiva la macchina per centinaia di metri, lingua lunga, poi restava a zampettare nello specchietto retrovisore, prima di sparire. Il tracciato scendeva nella carnosità tra una collina e l'altra, e c'era quasi sem-pre un torrente alberato di acqua tanto limpida da sembrare pulita. Da quelle parti i ponticelli delle strade di campagna erano in cemento, ma ogni tanto se ne incontrava uno in pietra, del tipo medievale con la gobba, lastricato e sconnesso, da cui nei pomeriggi più caldi i ragazzi fanno i tuffi, a vedere chi impressiona quella biondina laggiù. Poi un'altra masseria, e il viottolo che si staccava dalla strada e correva verso un cancello, e ancora un cane o due, abbaiavano, inseguivano, sparivano alle spalle. Era mattino presto di domenica, ma la campagna brulicava di vita. Gruppetti di paesani stavano ai lati della via, indossavano vestiti lindi e ben stirati, e i cani scodinzolavano intorno in cerca di condivisione di qualcosa. La macchina avanzava piano adesso, qualcuno faceva un cenno con la mano, e quello che stava al volante ricambiava il gesto.

Un paio di gatti avevano attraversato la strada all'ultimo momento, finendo quasi sotto i battistrada, e pure una gallina, che si era spaventata, piuttosto che starsene mogia mogia al bordo della siepe, si era lanciata sotto il motore. Gettarsi in bocca al nemico, che strano modo di scappare.

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Le montagne erano là di fronte, ad ogni curva più vicine. La macchina rotolava piano sull'asfalto sbrecciato, facendo crepitare i sassolini sotto i battistrada e lambendo le siepi, piano, per godersi il tragitto e per rispetto ai luoghi. I due turisti della domenica, il cittadino e l'altro, l'alpinista, se ne stavano con un braccio penzoloni dal finestrino, ad afferrare con la mano la corda inconsistente dell'aria che scorreva in filetti fluidi, ci chiudevano intorno le dita, la palpavano appena, senza stringerla, solo ne seguivano la direzione, e da quella parte andavano, verso i monti. Avrebbero arrampicato lentamente, stava dicendo adesso quello che teneva il volante, partendo da un'anonima paretina al margine di un campo carsico. In circa un'ora sarebbero spuntati sulla Cengia Grande, un terrazzone quasi orizzontale, ampio due metri e lungo diverse decine; da lì un canalino inclinato, la pietraia – cui riferì, narrandoli, due episodi di vita vissuta –, poi la grande parete dritta della Torre Sud. E' un mastodonte di roccia, un mondo di pietra verticale, disse l'alpinista senza risparmiare la retorica compiaciuta e un po' autodivertita che contraddistingue la sua categoria di persone, è un luogo che ti fa sentire il tuo respiro, ti fa apprezzare il silenzio che all'improvviso ti sembra un bassorilievo scolpito sul fondo del vento, vedrai, disse sterzando bruscamente per scansare un'altra gallina che attraversava la strada, vedrai che resterai senza parole. Sorrise e strizzò gli occhi arrossati di entusiasmo infantile.

Mohole era preoccupato per la difficoltà tecnica che quella descrizione lasciava intravedere. Ma l'amico lo tranquillizzò: che l'incanto della scalata stia nella sua difficoltà tecnica è una triste mistificazione, mio caro, il risultato di propagande sbagliate e di troppi finanziatori commerciali. Vedrai, vedrai, non aggiungo altro.

Tamburellava come poco prima, adesso, sul volante, saltellando sulle note della canzone che aveva in testa. Faceva scivolare la macchina sul margine delle colline come avrebbe fatto rotolare una palla di gomma sul tappeto di casa sua, senza fare alcun rumore se non quelli indispensabili ad apprezzare il silenzio. Questo spostamento timido e progressivo faceva sentire a Mohole un brivido mai provato prima. L'arte di scalare è una movenza, più che un salire montagne. A quell'ora del mattino Mohole non ne era ancora cosciente, ma il modo di guidare, di parlare, di tamburellare le dita del suo amico, quell'arte della discrezione, era la stessa che aveva conosciuto anni addietro, quando bambini andavano nel parco in punta di piedi e, respirando piano per non muovere l'aria, con un filo d'erba acciuffavano lucertole.

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Intanto la strada aveva preso a salire sempre più ripida, la montagna incombeva definitivamente sulla loro prospettiva, occupava ormai tutto il parabrezza, era necessario sforzare il collo in avanti per vederne le creste.
Questo c'è, oltre la linea dritta dell'orizzonte, al margine della pianura. Un altro mondo, la fine della piattezza, l'inizio della curva, della sinuosità. E oltre le colline cominciano i monti, eccoli là sullo sfondo, i segmenti a zigzag, le seghettature, le creste e gli spigoli.

In anni trascorsi in città, Mohole aveva dimenticato del tutto l'esistenza di quei posti. Oppure non la aveva mai conosciuta, adesso che ci pensava, forse non aveva mai visto un gallo se non in fotografia. E che le uova spuntassero dalle galline e non dai supermercati era per lui soltanto una reminiscenza delle scuole elementari. Tutto accade qui, oltre il confine, pensò. Quello stare sulla linea di frontiera, il superarle con tanta facilità, come se nulla fosse, una domenica mattina presto, era una sensazione nuova. Pensò che forse per stare al centro occorre stare sul confine, non piuttosto vivere nel mezzo di una grande città. Per stare al centro delle cose, addosso alla vita, è qui che bisogna venirsene a vivere, disse tra sé e sé, nella campagna che cavalca il limite della pianura. E' qui che accade ogni cosa, che la vita nasce e muore, senza filtri e senza differite. In città non accade proprio nulla. Mohole aveva questa percezione per la prima volta, si sentì improvvisamente vivo, disse grazie al suo amico, che continuava a guidare, e che si voltò e sorrise, e rispose non c'è di che, come se avesse capito tutto
 

Napoli, 10 maggio - 1 luglio 2003
© gennaio 2004 intraisass
© 2003, Natalino Russo
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Natalino Russo

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