Il buio e la luce

 

di Natalino Russo

 

 

La galleria procedeva dritta, ampia come un tunnel autostradale, così scura verso il fondo, marcata dai punti d'illuminazione che si accendevano man mano che il gruppo, capeggiato dalla guida e perfettamente ordinato sulla passerella, si addentrava verso la profondità della grotta. Qui un ponte, lì dei gradini, la progressione in quel mondo sotterraneo non era affatto scomoda, e nonostante l'atmosfera di turistica curiosità permeata di banale, con qualche trucco Mohole riusciva a godersi sprazzi di esplorazione soggettiva. Del resto, proprio lui, in questo era specialista. Come facesse, in quel posto così visitato e conosciuto, non è ben chiaro, sta di fatto che rallentando la camminata restava indietro, sempre più, i passi del gruppo avanti poteva ancora sentirli, ma così il silenzio sembrava ancora più vicino, in una sorta di meticolosa intenzionale ricostruzione di un paesaggio inesplorato e selvaggio. Era un'operazione premeditata, un gioco un po' forzato, tuttavia riusciva, per lo meno secondo i suoi stereotipi, che gli suggerivano gli elementi minimi per definire vergine un luogo.

Che strana sensazione vedere la galleria davanti illuminata, nel tratto dov'era lui le luci andavano spegnendosi man mano che il gruppo passava oltre, e Mohole, turista, il più lento di tutti, si muoveva nello spazio vuoto a passi discreti, non fermandosi come per non cedere a un incantesimo, per non rimanere intrappolato, camminando assecondava lo svolgimento dei pensieri, garantendone in qualche modo la fluidità. La roccia lo sovrastava, o meglio era l'intera montagna a incombere su di lui, sopra, per centinaia di metri, chi poteva dire quanti, e di lato, sotto, tutto intorno. Montagna senza soluzione di continuità.

Di che colore è la montagna? Quella lì, calcarea, era sicuramente chiara, giallognola per l'esattezza, arrossata in qualche punto, venata di minerali colati attraverso le microfessure. Ma no, Mohole si guardava intorno e non vedeva nessun colore, dall'oscurità, che si era fatta totale adesso, non emergeva alcun colore, né un riflesso, un luccichio che lasciasse intuire la natura e composizione della roccia. Era senz'altro calcare, ma adesso che il gruppo si era allontanato portandosi via l'illuminazione, chi poteva dire con certezza di che colore fosse quel mare di roccia?

Intanto senza luce era diventato impossibile muovere un passo, seppur minimo, Mohole si mise a sedere per terra, sentì subito il freddo del pavimento di pietra, quella pietra che adesso s'immaginava scura, scura nel senso più profondo, anzi ci pensò un po' su, forse scura non andava bene, la montagna era fredda, ecco, incredibilmente fredda e buia.

Alzò la testa, non poteva vedere il soffitto, non poteva vedere nulla, eppure sapeva che la roccia era lì, sembrava di sentirla, piena di se stessa, uno strato sull'altro, inclinati a sfidare la gravità, tenendosi per l'attrito che ogni strato esercita su quello inferiore. E che peso spaventoso doveva essere la somma di tutti gli strati, freddi e scuri, inframmezzati da sottili lamine di interstrato, i passaggi da uno strato all'altro, limiti non roccia, che strani pensieri faceva Mohole al buio, limiti di non roccia, guarda un po', orizzonti chiari in un mare di tenebra. Che da quegli spifferi penetrasse la luce? Guardò meglio, ormai doveva essersi abituato al buio, avrebbe catturato anche il minimo luccichio, ma niente, buio pesto.

Il freddo non era più sotto il sedere, non soltanto lì, aveva attraversato la stoffa dei pantaloni, pervadeva ormai le ossa, Mohole si alzò, continuando tuttavia a seguire il filo del suo filosofare spicciolo di turista incuriosito, la montagna strato su strato, e la luce che filtrava tra un pacco di roccia e quello soprastante, e quello che stava sotto, attraversava il bosco esterno, il sottobosco, passava facilmente tra i fili d'erba, poi cominciava ad addentrarsi sempre più in profondità, nella roccia che prendeva colore al suo passaggio, e giù giù, fino alle profondità e alle gallerie sotterranee.

Ma no, che stupidaggini andava a pensare, alla sua età poi, fantasticherie di un bambino. Eppure qualcosa, ecco, gli era sembrato di scorgere un riflesso nel buio, un'ombra di luce aveva attraversato il suo campo visivo, forse solo ora si stava davvero abituando al buio. Spalancò gli occhi e sì, era proprio una luce, flebile ma c'era, in alto, più che una luce una macchia morbida in un mondo indistinguibile, come un minimo movimento nel mezzo della calma più piatta. Gli batté forte il cuore, altro che stupidi pensieri di bambino, poteva distinguerla chiaramente adesso, era proprio luce, impossibile stabilirne la direzione di provenienza, dall'alto o dal basso, ma rendeva nuovamente percepibile la galleria in tutta la sua prospettiva.

Poi udì dei passi, improvvisamente si fecero forti e non ci fu il tempo di analizzare ulteriori dubbi, né di farseli venire. La guida era venuta a cercarlo.

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Fu di nuovo nel gruppo, dove tutti lo guardarono con sospetto, bisbigliando frasi incomprensibili, trasmettendo inequivocabili pensieri, è pericoloso, non ci si allontana così dal gruppo, la grotta è delicata, avrà certamente rubato una stalattite, andrebbe perquisito, gente così non merita queste meraviglie della natura.

Ma il signor Mohole con la testa fra le nuvole ci era nato e ci rimaneva, perché certe eredità non si lasciano mai, figuriamoci poi parcheggiarle al sole nel piazzale di una grotta turistica. Non ci fece proprio caso, neppure ai decaloghi di regole comportamentali della guida, e tornò alle sue fantasticherie.

Non era facile, però, adesso non più come prima, la galleria era più stretta, o meno ampia, si biforcava, un grosso ponte traballante superava un canyon chissà quanto profondo, le luci non bastavano a illuminarlo, e verso il fondo era proprio scuro.

Ecco cos'era, ecco la differenza, la luce. Adesso la grotta aveva dei colori, e ombre fuggivano in ogni direzione, e teste e mani giganti si stagliavano proiettate contro il soffitto e le pareti. Mohole era disorientato, che cambiamento, il mondo è come lo illuminiamo, pensò, e pensò pure di trovarsi adesso in un posto artificiale, o per lo meno invertito. Guardò la roccia al suo fianco, la galleria si era fatta davvero molto stretta, in alcuni punti la guida suggeriva di fare attenzione alla testa, di non toccare le concrezioni, erano vicinissime e lo stillicidio produceva spruzzi che bagnavano i turisti, alcuni dei quali emettevano gridolini misteriosi.

Mohole guardò la roccia, dunque, strati spessi e sottili stavano lì, come poggiati su un fianco, non era una grossa inclinazione la loro, sufficiente però a generare suggestive vie di fuga verso l'alto, e tutta la galleria sembrava obliqua, o coricata forse, come un mazzo di carte, o un domino abbattuto. Pacchi di quella roccia chiara erano divisi da interstrati scuri, che differenza, che inversione, veniva da chiedersi se il mondo esistesse in due configurazioni possibili, negativo e positivo, e se il chiaro e lo scuro, luce e buio, fossero solo concetti assolutamente relativi.

Dopo il rimprovero collettivo Mohole non era più rimasto indietro, del resto sarebbe stato impossibile, tallonato com'era, nel bel mezzo della comitiva. Non ebbe il tempo, almeno non quello che gli sarebbe stato necessario per concludere che la montagna è relativa: tutti i giri in grotta sono andata e ritorno, o trafori che entri per una valle esci dall'altra, o percorsi ad anello, era arrivata l'uscita, e non dovette annunciarlo la guida, si capiva dal chiarore deciso che invase di colpo la galleria, dai sospiri di sollievo di alcuni turisti, dall'aria più calda, ma soprattutto dall'odore del mondo, quell'inconfondibile odore di sbocciare e di fiorire, scorrere, respirare, quell'odore di vita e di materia in decomposizione, che si spinge fin dove può, come la luce, nel profondo delle montagne.

 

Caiazzo, febbraio 2000
© luglio 2003 intraisass
© 2003, Natalino Russo
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Natalino Russo

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