Mohole a lezione di arrampicata

 

di Natalino Russo

 

 

Da qualche tempo la vita era piuttosto noiosa, il tran-tran cittadino aveva fatto dimenticare al signor Mohole l'esistenza di spazi aperti, lo stava alienando lentamente, al punto da inchiodarlo in casa e non lasciarlo uscire se non per fare la spesa, piombato nella lettura e niente più, arroccato in quella fortezza del pensiero, ultimo baluardo di se stesso. Così quella domenica aveva accettato l'invito di un amico, andare ad arrampicare, che cosa balorda alla sua età, scricchiolante di apatia, ma la noia era troppa, ed era andato.

Arrivati alla parete in macchina dopo una partenza stracomoda, tarda mattinata, un bel sole caldo scioglieva il sangue ed era strano sentirlo scorrere per il corpo, Mohole alzò la testa, mamma mia, la verticale non era certo alta, così lo aveva rassicurato l'amico, ma da quella posizione lo sembrava proprio, così sfuggente verso il cielo, a chiudersi in prospettiva con le cime degli alberi, le poche nuvole bianche lontane si muovevano a velocità indefinita, spostando lo strapiombo, che scivolava lento come in una caduta laterale senza fine.

Al termine dei preparativi e delle spiegazioni minime per un'arrampicata sicura, Mohole si ritrovò con una cintura che gli avvolgeva le cosce e la vita, fra le dita la corda morbida colorata, l'amico già partito verso l'alto, era attaccato alla parete come un ragno, ciondolante ferraglia, sembrava una capra, o un gatto, uno strano animale delle rocce, le gambe sottili, quei peluzzi increspati sui polpacci, aveva anche lui una certa età, non erano mica più tanto giovani. Ma saliva inesorabile, non era più così vicino da poterne sentirne il respiro, adattava un braccio e poi l'altro al calcare giallognolo, disegnava ad ogni movimento figure diverse, articolate, stagliate contro la roccia, sulle strie scure e su quelle più chiare, macchie di ossidi, concrezioni appena abbozzate, memoria di interminabili minimi scorrimenti d'acqua.

L'amico era alto adesso, stava per sparire nel silenzio, i rumori minimi e i soffi e gli sbuffi si intuivano ormai solo dalle vibrazioni e contrazioni dei muscoli, dai piccoli scatti, dai passaggi laterali che sottolineavano con evidenza lo sforzo. Mohole dava corda, la tratteneva appena al segnale pattuito, mollava poco dopo, il silenzio era reso possibile dal frusciare dell'erba, dall'ansimare immaginato di quello che arrampicava, sembrava avvolto in una serenità infrangibile, ogni tanto guardava in basso, sbuffava di fatica, poi di nuovo calma piatta. Le nuvole là in alto scivolavano via.

Mohole immaginò la pressione delle dita sul calcare, quella sensazione tattile cominciava a incuriosirlo, teneva la corda con cura, la dava lentamente, senza strattoni, ma intanto aveva preso a pensare agli abitanti della parete, lucertole al sole, scattavano al minimo disturbo ritenuto pericoloso, all'avvicinarsi eccessivo delle mani o delle scarpette dell'arrampicatore, sfrecciando sulla superficie verticale come in una pianura, impavide sullo strapiombo; pensava ai ragni che dalle loro tane vedevano passare questo immenso corpo ansimante e coperto di sudore, accarezzato dalla brezza, faceva ombra sulla loro mattinata di sole. Si ritraevano con tutte le loro zampe nel buchetto pieno di ragnatela. Sulle infinite minute cenge, nascosti dietro spigoli piccolissimi che facevano da appiglio, dovevano esserci fili d'erba e pagliuzze, e i primi pallidi fiori di una primavera alle porte. E fiori e fili d'erba, e peli e pelle, erano accarezzati dalla stessa brezza impercettibile che spirava da poppa.

Già, da poppa, disse tra sé e sé Mohole, ci pensò un po' su, le nuvole continuavano il loro spostamento laterale, o proprio tutta la parete stava andando alla deriva, nave rocciosa in un mare azzurro di isole bianche lontane. Era uno scivolare senza sosta, impercettibile quasi, ma inesorabile, Mohole non aveva staccato un attimo lo sguardo dalla sagoma dell'amico che continuava la sua ascensione tranquilla, il cielo era diventato nel frattempo una sorta di sfondo di riferimento immobile. E se era piuttosto la montagna a navigare, salpata per un viaggio nell'universo? Se, lui e l'amico, si trovavano su una titanica imbarcazione diretta chissà dove? Forse era così, partiti per un viaggio per sempre, lui illuso coi piedi per terra mentre l'altro stava arrampicandosi sulla torre di vedetta, marconista silenzioso, sudato, sereno, per cercare con lo sguardo terre lontane. Solo in cima alla parete, col vento in faccia, avrebbe potuto fermarsi a scrutare l'orizzonte col suo cannocchiale vibrante di emozioni, e lì cercato nel silenzio per qualche interminabile minuto, ansimante, i muscoli tesi per lo sforzo, Mohole laggiù sul ponte in preda all'apprensione, poi avrebbe scoperto tra le brume un profilo inconfondibile, allungato sull'orizzonte.

Stavano senz'altro andando là, verso quelle terre azzurrine stagliate contro il cielo e la foschia che le rendeva confuse, visibili appena. L'amico lo avrebbe gridato entusiasta, gli avrebbe fatto segno di salire anche lui, sbrigati, è uno spettacolo incredibile, e Mohole avrebbe preso a infilare per la prima volta le dita in appigli così minuscoli, il respiro soffocato dall'emozione più che dalla fatica, chi l'avrebbe mai detto, alla sua età, sforzare quei muscoli intorpiditi per raggiungere la sommità della torre di vedetta, e osservare insieme, lontano, le sagome delle montagne all'orizzonte.

 

Caiazzo, febbraio 2000
© aprile 2003 intraisass
© 2003, Natalino Russo
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Natalino Russo

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