Un libro di montagna

 

di Alberto Pezzini

 

 

Ho desiderato fortemente la realizzazione del mio libro sulla montagna.
Ho trascorso notti su notti a leggere i fogli che la stampante del portatile vomitava sul tavolino. Ogni tanto uscivo fuori, sul terrazzo, e guardavo la luna. Il cielo, visto da casa mia, è una volta limpida che nelle notti d'inverno diventa quasi argenteo. Il freddo mi costringeva sempre a rientrare quasi immediatamente. Ho faticato moltissimo a trovare la forza di sedermi al tavolo e scrivere quelle pagine maledette. Le notti trascorse appesi ad un ghiacciaio non si scordano facilmente. Perfino le pagine che scrivevo mi sembravano sapere del ghiaccio che mi aveva strizzato le carni e congelato ciò che rimaneva della mia anima. Uscito dalla nostra nicchia di fortuna dopo la valanga, ero rimasto come assonnato per alcuni giorni. Il tempo sembrava scavato nella neve ed aveva il peso cadente delle mani annerite dal gelo. Subito dopo erano incominciate le cure, la riabilitazione, le conversazioni più o meno faticose con le persone più vicine. Quello che mi costava maggiore fatica era il ricordo di come era andata. Riuscivo a mettere a fuoco alcuni particolari inutili: un chiodo che riluceva quando il primo sole si affacciava sul bivacco scaldandolo con il suo tepore, la sensazione di felicità violenta che mi saettava nel sangue quando mangiavo un pezzo di salame appeso su di una cresta conquistata senza sforzo cosciente, il rosso accecante della giacca di Guido che mi saltava agli occhi non appena mi svegliavo dall'intorpidimento nervoso che si prende in parete rinchiusi in un sacco di materiale sintetico appeso sul vuoto. Poi il suono del rombo che mi aveva schiantato i timpani. Dopo, il nulla. Non ricordavo più nulla se non un freddo terribile fatto di mille scaglie affilate che mi penetravano nella carne mentre sentivo lo schiocco deciso della corda che si spezzava di netto. Guido doveva aver fatto un volo da aquila perché mi era letteralmente rovinato addosso. Avevo subito uno strattone improvviso seguito da una cascata di neve finissima. Alla fine di questa colata di neve c'era Guido, sotto choc, con la sua giacca di gore-tex lacerata, ma debolmente vivo. Lo avevo issato a forza, praticamente con un braccio soltanto, ed ero riuscito a raggiungere una cengia rocciosa posta a qualche metro da noi. Qui avevo impastato neve per un po' fino a modellare una minuscola tenda di ghiaccio e neve capace di riscaldarci fino all'arrivo dei soccorsi. Guido rantolava, si lamentava debolmente. Cercavo di riscaldarlo con il mio corpo. Speravo che i soccorsi partissero al più presto. La slavina era stata massiccia e l'urlo del soffio doveva essere stato udito a notevole distanza. Non so come ma, all'interno della nostra culla di ghiaccio, c'era un tepore palpabile. Cercavo di pensare alla vallata sotto di noi. Immaginavo le case avvolte dal calore che le riscaldava all'interno e pensavo all'avventura che mi stava consumando l'anima, appeso lassù, sopra una cengia sottile, con il mio migliore amico avvolto da un lenzuolo di ghiaccio. Così ci avevano trovati i soccorsi.
Eravamo tutti e due semi-assiderati ma vivi, impietriti dalla montagna che ci aveva letteralmente urlato “via!” a quattromila metri di altitudine. Quando Guido mi chiese di raccontare quelle ore in cui eravamo rimasti sospesi sopra un orizzonte di ghiaccio, feci resistenza. Avevo un grumo di ghiaccio e dolore conficcato nello stomaco. Si sciolse alle prime pagine. Gettare sulla carta quella notte di cristallo mi servii da tonico e come ricordo preciso dei sogni confusi che continuavo a fare. I pinnacoli di ghiaccio cominciarono a popolare soltanto le mie giornate e non più le mie notti.
Quando ho posto la parola fine al mio libro ho chiamato Guido: si è impadronito di quelle pagine cariche di neve, non mi ha telefonato per due giorni trascorsi nella sua casupola immersa negli abeti. Alla sera del terzo giorno mi è arrivata un'e-mail sulla mia posta elettronica: “All'uomo che mi ha strappato allo strazio del ghiaccio. Ogni tua pagina è un fuoco per il cuore di tutti gli uomini che sono morti sulle nostre montagne. Grazie amico mio”. Il libro ha venduto mille copie soltanto in una settimana. In copertina ho voluto venisse ritratto un ghiacciaio immenso con una fiammella lontana. 
E' piaciuta anche quella.

 

Gennaio 2001

Alberto Pezzini

 

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