Sempre pensava a quella maledetta corda doppia che gli
aveva portato via suo figlio Legend: una fettuccia, una stupida fettuccia
cotta dal sole e sfibrata dal gelo non aveva retto al peso di Legend.
Di notte lo prendevano gli incubi e si svegliava di soprassalto con le
immagini del suo Legend che rotolava senza fretta e cadeva di roccia in
roccia come fosse stato un burattino inanimato.
La morte di Legend lo aveva fatto molto invecchiare... e persino le sue
piccole manie si erano accentuate: era il primo inverno che trascorreva,
in baita, senza Legend. Già, la loro mitica baita, sempre riscaldata con
legna di bosco... sembrava, pure essa, un po' accartocciata su se stessa.
Il vecchio passava le sere accanto al bottiglione di vino e con un paio di
sigari. Con le unghie era solito inseguire le venature del tavolaccio di
legno, punto focale della baita. Il tavolaccio l'aveva costruito anni
prima, facendosi aiutare da Legend, che ancora era un ragazzo, alle prime
esperienze con la vita. Quante mani si erano posate su quel tavolo: mani
di boscaiolo, mani di contadino, mani di alpinista, mani lavorate dal
tempo e dagli eventi, mani che avevano permesso di mangiare e bere e
vivere onestamente.
Poche volte, quell'inverno, lui era sceso giù in paese:
sapeva che i compaesani gli erano vicini e che gli avrebbero fornito una
stanza, un appartamento più comodo se lui avesse voluto. Ma invece il
vecchio non poteva allontanarsi dalla baita, dai boschi dove era vissuto
con il figlio. La baita gli parlava di Legend, del loro rapporto, dei loro
lunghi discorsi e dei lunghi silenzi.
Seduto al tavolo spesso alzava gli occhi sulla parete in fronte a lui: una
mensola, l'angolo dei liquori, una bella mostra di libri di montagna di
Legend, qualche sasso. Eh sì, perché lui viveva vendendo minerali ai
turisti della valle. In primavera partiva alla volta della vecchia frana,
un'enorme frana che si era mangiata un pezzo di bosco, una ferita che
aveva lasciato in superficie fossili e minerali. Soprattutto i fossili
erano belli, poiché rari e difficili da trovarsi nel resto della valle.
Dopo queste spedizioni riempiva la vecchia Ford di sassi e si spingeva in
vicinanza dei rifugi e dei Passi per realizzare qualche soldo. Non
aggrediva né importunava le persone, semplicemente aspettava che venissero
a lui. Dovevate vederlo questo vecchio, alto, barbuto, con un cappellaccio
in testa, camicia scozzese, jeans, bretelle di cuoio, scarponi da
montagna... mentre aspettava i turisti.
Il vecchio è impazzito dal dolore - diceva chi lo
conosceva bene - un tipo stravagante - affermava chi non lo conosceva
affatto.
Passo Fedaia, Gardeccia, Sella, Costalunga, Valle San Nicolò erano i posti
dove stazionava: era un'attrazione per i turisti ma lui era attratto dagli
scalatori. Quando vedeva gli arrampicatori partire, con tutta
l'attrezzatura, riviveva sempre i momenti di tensione che Legend gli aveva
fatto provare. Forse ritornava con i pensieri a quel terribile giorno in
cui avevano trovato Legend alla base del Gran Vernel per colpa di una
stupida fettuccia spezzata. E pensare che Legend aveva, in baita, due
enormi sacche di cordame recuperato in parete in tanti, tanti anni di
attività: tutto materiale che probabilmente gli sarebbe potuto servire per
aprire nuovi itinerari.
Ogni cordino ritrovato, una storia, un ricordo, un aneddoto.
Ogni cordino lasciato, un segno del suo passaggio, una sensazione di
paura, un errore di percorso.
Il materiale degli scalatori in genere assomiglia al bilancio di una
piccola famiglia - tanto entra e tanto esce: è la differenza fra ciò che
si trova in montagna o si scambia con i compagni e ciò che si lascia alla
montagna: un equilibrio dinamico da controllare con cura, eventualmente
integrando con nuovi acquisti le improvvise perdite.
Il vecchio quando vedeva i ragazzi partire verso le pareti ricordava loro
di controllare bene gli ancoraggi, specie durante la discesa. Ma loro, nel
tipico entusiasmo, non stavano lì tanto a pensare o a parlare con lo
strano vecchio. Chissà perché diceva tutto ciò... Forse era un po'
fissato? ...ma via, andiamo, che il tempo è bello e non possiamo perdere
un istante.
Lui li guardava e sapeva che non potevano capire i suoi patemi e forse era
meglio così, non gli andava di intristirli, sia pure per pochi istanti,
con la sua storia di Legend.
In fondo anche Legend era fatto come loro, istintivamente sempre pronto a
partire quando il tempo volgeva al bello e la stagione ed i compagni lo
spingevano ad arrampicare.
Ovviamente Legend non pensava alla morte!
Chi mai parte per una scalata pensando alla propria morte? Se tale è la
debolezza in cui ci si imbatte meglio starsene a valle, sui prati...
Il vecchio viveva vendendo sassi. Questo povero commercio fruttava quanto
bastava, si pagava le sue spese frugali, si concedeva i suoi sigari, il
tabacco ed un po' di alcool. Ma soprattutto poteva vagare sui Passi
dolomitici: spesso gli chiedevano di posare per una fotografia, una
ripresa e chissà quante volte il suo viso, rugoso, barbuto, vissuto, era
stato proiettato nei signorili appartamenti di città nel corso di
simpatiche serate fra amici...
Dopo la vendita dei sassi, prima di tornare in baita, passava sempre dal
negozio di
ferramenta, posto simpatico e a lui assai familiare, dove acquistava
qualche oggetto per abbellire, migliorare o aggiustare la baita.
Sì, perché la baita essendo di legno, vivo, era in continuo movimento, era
un qualcosa che il vecchio lavorava con le sue stesse mani e che adattava
al clima alpino spesso ostile. Una baita di legno lasciata senza
manutenzione in brevissimo tempo va in rovina e se ne vedono tantissime di
baite, disabitate, rovinate dal freddo, dalla pioggia e dal gelo...
Lui invece ci teneva alla sua modesta abitazione e gli sembrava più
accogliente di un hotel e più resistente di una fortezza. Era un qualcosa
nato nella sua testa e realizzato con l'aiuto di Legend: pochi gli
attrezzi, tanta buona volontà, tenacia, forza e determinazione.
Legend gli diceva che avrebbe preferito andare a “fare una stagione” in
Germania assieme ai compaesani, un lavoro duro, ben pagato in marchi
sonanti, così poi avrebbero potuto commissionarne la costruzione ad
un'impresa.
Ma papà, testardo, no, voleva farla con le sue mani la casa, facendosi
aiutare da Legend, mettendo in pratica i tradizionali insegnamenti che
aveva ricevuto dagli avi. Legend, spirito pratico e razionale, non poteva
capire e docilmente si ribellava, ma sapeva che papà non avrebbe ceduto.
Ed ora papà era contento: ogni angolo della baita gli parlava del figlio,
del loro rapporto, e al tempo stesso gli ricordava il suo vecchio padre:
tante storie, tanti aneddoti, tanti elementi fatti per riempire giornate
apparentemente ripetitive, scandite dal percorso del sole e variate solo
dal tempo atmosferico. Eppure il vecchio percepiva queste giornate ricche
e sempre diverse fra loro.
Perché sedersi fuori, al sole, sulla panchinetta, osservare il profilo
delle montagne era uno spettacolo che proprio non riusciva stancarlo. E
poi sentire il tepore del sole sulle braccia e sul viso lo stupiva come un
bambino.
Il vecchio si ricordava che lui era sempre stato così, forse diverso dagli
altri: fin da bambino adorava stare sotto la tettoia ed osservare la
pioggia cadere, adorava stringersi contro il muro finché la pioggia
guadagnava terreno: cercava di resistere al freddo che piano a piano lo
prendeva, all'umidità che avanzava...
Questo forse sembrava uno strano gioco, ma giudicato in profondità altro
non era che una manifestazione d'amore verso il grandioso ambiente
naturale che si celava dietro la porta di casa. E così anche la pioggia
poteva costituire un evento da gustarsi fino in fondo.
Nel corso della sua vita la montagna gli aveva dato tanto, tante
sensazioni, tante soddisfazioni e poi, tutto di un tratto, la montagna si
era ripresa tutto, si era presa Legend e l'aveva lasciato povero, nudo, pazzo,
incapace di coltivare altri rapporti umani... La montagna mi ha dato
tanto, la montagna si è presa tutto - ripeteva in maniera ossessiva al
prete che lo invitava a porre in Dio la sua fiducia per ritrovare
tranquillità.
Ma Dio è lontano, è difficile da pensare, da crederci e la Montagna era il
suo Dio, la sua convinzione estrema. Anche se questa stessa Montagna,
arcigna, si era portata via Legend sfruttando un suo momento di debolezza.
Legend aveva ereditato da lui l'amore per la montagna, solo che, in breve
tempo, il suo amore era diventato passione estrema. Di punto in bianco non
bastarono più la caccia, i funghi, i boschi, le cime, le camminate con le
racchette. Arrivarono violentemente le pareti, la roccia, le difficoltà, i
diversi estremismi. Ai soliti amici compaesani con cui dividere queste
passioni subentrarono i compagni di cordata, conosciuti nei rifugi,
appartenenti anche a vallate diverse, addirittura stranieri.
Sono stati loro ad affibbiargli il soprannome di Legend: in breve tempo
l'Ermanno di sempre diventò Legend. Gli bastò superare, a mille metri da
terra, in maniera spericolata, una terribile placca senza chiodi, con una
manciata di micro-nut e una dose infinita di coraggio e spregiudicatezza
che, ‘nel giro’, tutti cominciarono a chiamarlo Legend. D'altronde non era
l'unico conosciuto più con un soprannome rispetto al vero nome: Ghigno,
Whisky, Rampikino, Lotta, Kuk... Al vecchio era piaciuto così tanto il
soprannome Legend che lo aveva ricordato anche sulla lapide.
Quando la
sera, al tramonto, scrutava all'orizzonte il cielo variare da rosso fuoco
a blu notte, spettacolo a cui non era mai riuscito ad abituarsi, un
brivido ultraterreno lo scuoteva e allora pensava a Legend che non era
veramente morto, era semplicemente passato di là, in un altro
‘meccanismo’: ma la rivelazione estatica della natura durava semplicemente
il momento di un tramonto e poi il freddo della notte gli smorzava ogni
speranza...
Le Dolomiti, la neve, il ghiaccio, la roccia, i compagni di cordata,
l'esibizionismo giovanile, uno spirito anarchico, la voglia di imporsi con
un modello ‘genuino’, la volontà di spingere i propri limiti, fisici e
psichici... questi erano gli elementi, gli obiettivi per cui Legend aveva
vissuto, riso, pianto, amato ed infine lasciata quest'esistenza.
Il vecchio lo intuiva, tanti anni assieme a Legend gli avevano fatto
capire cosa ci stava dietro uno sguardo orgoglioso e fiero, un
atteggiamento spesso ostile, scontroso, comunque determinato, raramente
spensierato. Ma ora era morto ed era rimasto solo lui a portare avanti le
sue idee e le sue convinzioni.
Sono stati loro, i compagni di cordata di Legend, gli estremi, a
traviarlo, a drogarlo di difficoltà sempre crescenti.
E così cominciò, giorno dopo giorno, a scalare le pareti sempre più
velocemente, con scioltezza. Strapiombi ed agilità. Sole e velocità. Neve
e calcare. Chiodi e corde. Birre e scarpette. Allenamenti e corse sugli
sci. Ghiaccio e freddo. Nervi d'acciaio e muscoli abbronzati. Gioco e
rischio... In pochi anni Legend era diventato quello che aveva sempre
desiderato essere: un climber, un montanaro, uno scalatore estremo. E
inanellava decine di veloci corde doppie per arrivare, in giornata, a casa
dal suo vecchio.
Sembrava che Legend non pensasse mai al rischio e neppure il vecchio ci
pensava più. Eppure una maledetta corda doppia, l'ennesima, in un giorno
infausto, lo aveva colpito, sicuramente alle spalle.
Tutto il paese si strinse al vecchio il giorno del funerale, tanti
alpinisti giunsero dalle valli vicine e da paesi lontani: era una giornata
bella, tersissima e tristissima. Le cime della valle, amate e scalate
tante volte, assistevano impassibili alla rievocazione della scomparsa di
Legend. Nel clima di generale commozione il prete faticava ad infondere la
luce della speranza: lo smarrimento umano sopravanzava la fiducia nel
soprannaturale.
Come in una famosa canzone tante volte ascoltata, a cosa era servito
vivere, amare, sperare, se così presto Legend era dovuto partire? Le
stesse montagne ora sembravano freddamente cosmiche e lontane, non
colpevoli ma certamente indifferenti. In quei momenti il vecchio rivisse i
funerali di mamma, papà e con dignità decise di andare avanti e di
sopravvivere a Legend. Come si può intuire fu un lungo inverno ed egli
estrasse dalla cassapanca parecchie bottiglie di buon vino... per
resistere alle lunghe serate invernali... aspettando che le giornate si
allungassero e la temperatura si facesse più mite.
Quando l'inverno si allontanò, la primavera cominciava a lasciare i suoi
segni nelle valli alpine: una gemma, un cinguettio, un rivolo d'acqua, si
respirava un'aria nuova... ed il vecchio improvvisamente prese il fucile
per andare a caccia.
Legend avrebbe disapprovato, ma lui era convinto che il ripercorrere le
abitudini dei suoi avi gli avrebbe dato fiducia, e comunque un camoscio
era sempre una preda ambita in paese. In fondo erano anni che non andava a
caccia e forse l'ultima volta era stato quando Legend, bambino, si era
messo a piangere scorgendo nel carniere una giovane lepre che aveva appena
cacciato. Commosso dalle lacrime del bimbo aveva desistito dalla caccia,
abbandonando così la tradizione familiare.
Quella tragica mattina primaverile, ignaro del guaio in cui stava
cacciandosi, egli partì che ancora doveva albeggiare. Svangò nella neve,
seguì le tracce di un camoscio che da settimane gironzolava attorno
alla baita, risalì un profondo canalone. Il camoscio lo aspettava su un
dirupo e lui, come un vigliacco, avvicinatosi sottovento, gli sparò.
Lo sparo riecheggiò per la valle, qualche slavinetta si levò nella stretta
vallata e ritornò il silenzio della morte. Ebbe come la percezione che
tutti gli esseri viventi della zona fossero contro lui e lo avrebbero
lasciato solo.
Avanzando faticosamente verso la preda sentì il cuore martellargli in
gola, una strana sensazione di inquietudine lo pervase e capì di aver
rotto l'equilibrio naturale che gli aveva permesso di vivere nel bosco,
nella baita, di vivere dei sassi.
Dieci passi nella neve fino all'inguine e poi un po' di riposo, dieci passi
ed una breve sosta... il camoscio lo aveva costretto ad ingaggiare una
lotta disumana e quando lo raggiunse oramai non era più lucidissimo.
Pensava che il ritorno, con il camoscio sulle spalle, sarebbe stato un
rientro, lento, a casa, invece lì iniziò il suo calvario. La preda pesava
tantissimo, ma l'angoscia ed il rimorso per ciò che aveva fatto gli pesava
ancora di più. Il suo ritmo, già lento, rallentò ancora e divenne un
faticoso trascinarsi d'albero in albero.
Giunse alla baita sul far della sera, stremato, affamato, assetato ed in
condizioni disperate; si sedette sulla panca appoggiando le braccia,
conserte, sul tavolo e sopra vi appoggiò la testa.
Il supplizio del calvario gli aveva consentito di espiare il suo peccato
e in tale posizione lo scorse il prete quando andò a trovarlo. Era in
uno stato di “abbraccio mortale”. Non c'era più niente da fare: stava già abbracciando Legend.
Tutti, in paese, dissero che il vecchio aveva ritrovato Legend.