Legend
Storia di un padre

 

di Massimo Bursi

 

Dedicato a tutti i padri a cui la montagna ha preso un figlio

 

Sempre pensava a quella maledetta corda doppia che gli aveva portato via suo figlio Legend: una fettuccia, una stupida fettuccia cotta dal sole e sfibrata dal gelo non aveva retto al peso di Legend.
Di notte lo prendevano gli incubi e si svegliava di soprassalto con le immagini del suo Legend che rotolava senza fretta e cadeva di roccia in roccia come fosse stato un burattino inanimato.
La morte di Legend lo aveva fatto molto invecchiare... e persino le sue piccole manie si erano accentuate: era il primo inverno che trascorreva, in baita, senza Legend. Già, la loro mitica baita, sempre riscaldata con legna di bosco... sembrava, pure essa, un po' accartocciata su se stessa.
Il vecchio passava le sere accanto al bottiglione di vino e con un paio di sigari. Con le unghie era solito inseguire le venature del tavolaccio di legno, punto focale della baita. Il tavolaccio l'aveva costruito anni prima, facendosi aiutare da Legend, che ancora era un ragazzo, alle prime esperienze con la vita. Quante mani si erano posate su quel tavolo: mani di boscaiolo, mani di contadino, mani di alpinista, mani lavorate dal tempo e dagli eventi, mani che avevano permesso di mangiare e bere e vivere onestamente.

Poche volte, quell'inverno, lui era sceso giù in paese: sapeva che i compaesani gli erano vicini e che gli avrebbero fornito una stanza, un appartamento più comodo se lui avesse voluto. Ma invece il vecchio non poteva allontanarsi dalla baita, dai boschi dove era vissuto con il figlio. La baita gli parlava di Legend, del loro rapporto, dei loro lunghi discorsi e dei lunghi silenzi.
Seduto al tavolo spesso alzava gli occhi sulla parete in fronte a lui: una mensola, l'angolo dei liquori, una bella mostra di libri di montagna di Legend, qualche sasso. Eh sì, perché lui viveva vendendo minerali ai turisti della valle. In primavera partiva alla volta della vecchia frana, un'enorme frana che si era mangiata un pezzo di bosco, una ferita che aveva lasciato in superficie fossili e minerali. Soprattutto i fossili erano belli, poiché rari e difficili da trovarsi nel resto della valle. Dopo queste spedizioni riempiva la vecchia Ford di sassi e si spingeva in vicinanza dei rifugi e dei Passi per realizzare qualche soldo. Non aggrediva né importunava le persone, semplicemente aspettava che venissero a lui. Dovevate vederlo questo vecchio, alto, barbuto, con un cappellaccio in testa, camicia scozzese, jeans, bretelle di cuoio, scarponi da montagna... mentre aspettava i turisti.

Il vecchio è impazzito dal dolore - diceva chi lo conosceva bene - un tipo stravagante - affermava chi non lo conosceva affatto.
Passo Fedaia, Gardeccia, Sella, Costalunga, Valle San Nicolò erano i posti dove stazionava: era un'attrazione per i turisti ma lui era attratto dagli scalatori. Quando vedeva gli arrampicatori partire, con tutta l'attrezzatura, riviveva sempre i momenti di tensione che Legend gli aveva fatto provare. Forse ritornava con i pensieri a quel terribile giorno in cui avevano trovato Legend alla base del Gran Vernel per colpa di una stupida fettuccia spezzata. E pensare che Legend aveva, in baita, due enormi sacche di cordame recuperato in parete in tanti, tanti anni di attività: tutto materiale che probabilmente gli sarebbe potuto servire per aprire nuovi itinerari.
Ogni cordino ritrovato, una storia, un ricordo, un aneddoto.
Ogni cordino lasciato, un segno del suo passaggio, una sensazione di paura, un errore di percorso.
Il materiale degli scalatori in genere assomiglia al bilancio di una piccola famiglia - tanto entra e tanto esce: è la differenza fra ciò che si trova in montagna o si scambia con i compagni e ciò che si lascia alla montagna: un equilibrio dinamico da controllare con cura, eventualmente integrando con nuovi acquisti le improvvise perdite.

Il vecchio quando vedeva i ragazzi partire verso le pareti ricordava loro di controllare bene gli ancoraggi, specie durante la discesa. Ma loro, nel tipico entusiasmo, non stavano lì tanto a pensare o a parlare con lo strano vecchio. Chissà perché diceva tutto ciò... Forse era un po' fissato? ...ma via, andiamo, che il tempo è bello e non possiamo perdere un istante.
Lui li guardava e sapeva che non potevano capire i suoi patemi e forse era meglio così, non gli andava di intristirli, sia pure per pochi istanti, con la sua storia di Legend.
In fondo anche Legend era fatto come loro, istintivamente sempre pronto a partire quando il tempo volgeva al bello e la stagione ed i compagni lo spingevano ad arrampicare.
Ovviamente Legend non pensava alla morte!
Chi mai parte per una scalata pensando alla propria morte? Se tale è la debolezza in cui ci si imbatte meglio starsene a valle, sui prati...

Il vecchio viveva vendendo sassi. Questo povero commercio fruttava quanto bastava, si pagava le sue spese frugali, si concedeva i suoi sigari, il tabacco ed un po' di alcool. Ma soprattutto poteva vagare sui Passi dolomitici: spesso gli chiedevano di posare per una fotografia, una ripresa e chissà quante volte il suo viso, rugoso, barbuto, vissuto, era stato proiettato nei signorili appartamenti di città nel corso di simpatiche serate fra amici...
Dopo la vendita dei sassi, prima di tornare in baita, passava sempre dal negozio di ferramenta, posto simpatico e a lui assai familiare, dove acquistava qualche oggetto per abbellire, migliorare o aggiustare la baita.
Sì, perché la baita essendo di legno, vivo, era in continuo movimento, era un qualcosa che il vecchio lavorava con le sue stesse mani e che adattava al clima alpino spesso ostile. Una baita di legno lasciata senza manutenzione in brevissimo tempo va in rovina e se ne vedono tantissime di baite, disabitate, rovinate dal freddo, dalla pioggia e dal gelo...
Lui invece ci teneva alla sua modesta abitazione e gli sembrava più accogliente di un hotel e più resistente di una fortezza. Era un qualcosa nato nella sua testa e realizzato con l'aiuto di Legend: pochi gli attrezzi, tanta buona volontà, tenacia, forza e determinazione.

Legend gli diceva che avrebbe preferito andare a “fare una stagione” in Germania assieme ai compaesani, un lavoro duro, ben pagato in marchi sonanti, così poi avrebbero potuto commissionarne la costruzione ad un'impresa. Ma papà, testardo, no, voleva farla con le sue mani la casa, facendosi aiutare da Legend, mettendo in pratica i tradizionali insegnamenti che aveva ricevuto dagli avi. Legend, spirito pratico e razionale, non poteva capire e docilmente si ribellava, ma sapeva che papà non avrebbe ceduto. Ed ora papà era contento: ogni angolo della baita gli parlava del figlio, del loro rapporto, e al tempo stesso gli ricordava il suo vecchio padre: tante storie, tanti aneddoti, tanti elementi fatti per riempire giornate apparentemente ripetitive, scandite dal percorso del sole e variate solo dal tempo atmosferico. Eppure il vecchio percepiva queste giornate ricche e sempre diverse fra loro. Perché sedersi fuori, al sole, sulla panchinetta, osservare il profilo delle montagne era uno spettacolo che proprio non riusciva stancarlo. E poi sentire il tepore del sole sulle braccia e sul viso lo stupiva come un bambino.

Il vecchio si ricordava che lui era sempre stato così, forse diverso dagli altri: fin da bambino adorava stare sotto la tettoia ed osservare la pioggia cadere, adorava stringersi contro il muro finché la pioggia guadagnava terreno: cercava di resistere al freddo che piano a piano lo prendeva, all'umidità che avanzava... Questo forse sembrava uno strano gioco, ma giudicato in profondità altro non era che una manifestazione d'amore verso il grandioso ambiente naturale che si celava dietro la porta di casa. E così anche la pioggia poteva costituire un evento da gustarsi fino in fondo.
Nel corso della sua vita la montagna gli aveva dato tanto, tante sensazioni, tante soddisfazioni e poi, tutto di un tratto, la montagna si era ripresa tutto, si era presa Legend e l'aveva lasciato povero, nudo, pazzo, incapace di coltivare altri rapporti umani... La montagna mi ha dato tanto, la montagna si è presa tutto - ripeteva in maniera ossessiva al prete che lo invitava a porre in Dio la sua fiducia per ritrovare tranquillità.
Ma Dio è lontano, è difficile da pensare, da crederci e la Montagna era il suo Dio, la sua convinzione estrema. Anche se questa stessa Montagna, arcigna, si era portata via Legend sfruttando un suo momento di debolezza.

Legend aveva ereditato da lui l'amore per la montagna, solo che, in breve tempo, il suo amore era diventato passione estrema. Di punto in bianco non bastarono più la caccia, i funghi, i boschi, le cime, le camminate con le racchette. Arrivarono violentemente le pareti, la roccia, le difficoltà, i diversi estremismi. Ai soliti amici compaesani con cui dividere queste passioni subentrarono i compagni di cordata, conosciuti nei rifugi, appartenenti anche a vallate diverse, addirittura stranieri.
Sono stati loro ad affibbiargli il soprannome di Legend: in breve tempo l'Ermanno di sempre diventò Legend. Gli bastò superare, a mille metri da terra, in maniera spericolata, una terribile placca senza chiodi, con una manciata di micro-nut e una dose infinita di coraggio e spregiudicatezza che, ‘nel giro’, tutti cominciarono a chiamarlo Legend. D'altronde non era l'unico conosciuto più con un soprannome rispetto al vero nome: Ghigno, Whisky, Rampikino, Lotta, Kuk... Al vecchio era piaciuto così tanto il soprannome Legend che lo aveva ricordato anche sulla lapide.

Quando la sera, al tramonto, scrutava all'orizzonte il cielo variare da rosso fuoco a blu notte, spettacolo a cui non era mai riuscito ad abituarsi, un brivido ultraterreno lo scuoteva e allora pensava a Legend che non era veramente morto, era semplicemente passato di là, in un altro ‘meccanismo’: ma la rivelazione estatica della natura durava semplicemente il momento di un tramonto e poi il freddo della notte gli smorzava ogni speranza...

Le Dolomiti, la neve, il ghiaccio, la roccia, i compagni di cordata, l'esibizionismo giovanile, uno spirito anarchico, la voglia di imporsi con un modello ‘genuino’, la volontà di spingere i propri limiti, fisici e psichici... questi erano gli elementi, gli obiettivi per cui Legend aveva vissuto, riso, pianto, amato ed infine lasciata quest'esistenza.
Il vecchio lo intuiva, tanti anni assieme a Legend gli avevano fatto capire cosa ci stava dietro uno sguardo orgoglioso e fiero, un atteggiamento spesso ostile, scontroso, comunque determinato, raramente spensierato. Ma ora era morto ed era rimasto solo lui a portare avanti le sue idee e le sue convinzioni.
Sono stati loro, i compagni di cordata di Legend, gli estremi, a traviarlo, a drogarlo di difficoltà sempre crescenti.
E così cominciò, giorno dopo giorno, a scalare le pareti sempre più velocemente, con scioltezza. Strapiombi ed agilità. Sole e velocità. Neve e calcare. Chiodi e corde. Birre e scarpette. Allenamenti e corse sugli sci. Ghiaccio e freddo. Nervi d'acciaio e muscoli abbronzati. Gioco e rischio... In pochi anni Legend era diventato quello che aveva sempre desiderato essere: un climber, un montanaro, uno scalatore estremo. E inanellava decine di veloci corde doppie per arrivare, in giornata, a casa dal suo vecchio.
Sembrava che Legend non pensasse mai al rischio e neppure il vecchio ci pensava più. Eppure una maledetta corda doppia, l'ennesima, in un giorno infausto, lo aveva colpito, sicuramente alle spalle.

Tutto il paese si strinse al vecchio il giorno del funerale, tanti alpinisti giunsero dalle valli vicine e da paesi lontani: era una giornata bella, tersissima e tristissima. Le cime della valle, amate e scalate tante volte, assistevano impassibili alla rievocazione della scomparsa di Legend. Nel clima di generale commozione il prete faticava ad infondere la luce della speranza: lo smarrimento umano sopravanzava la fiducia nel soprannaturale.
Come in una famosa canzone tante volte ascoltata, a cosa era servito vivere, amare, sperare, se così presto Legend era dovuto partire? Le stesse montagne ora sembravano freddamente cosmiche e lontane, non colpevoli ma certamente indifferenti. In quei momenti il vecchio rivisse i funerali di mamma, papà e con dignità decise di andare avanti e di sopravvivere a Legend. Come si può intuire fu un lungo inverno ed egli estrasse dalla cassapanca parecchie bottiglie di buon vino... per resistere alle lunghe serate invernali... aspettando che le giornate si allungassero e la temperatura si facesse più mite.

Quando l'inverno si allontanò, la primavera cominciava a lasciare i suoi segni nelle valli alpine: una gemma, un cinguettio, un rivolo d'acqua, si respirava un'aria nuova... ed il vecchio improvvisamente prese il fucile per andare a caccia. Legend avrebbe disapprovato, ma lui era convinto che il ripercorrere le abitudini dei suoi avi gli avrebbe dato fiducia, e comunque un camoscio era sempre una preda ambita in paese. In fondo erano anni che non andava a caccia e forse l'ultima volta era stato quando Legend, bambino, si era messo a piangere scorgendo nel carniere una giovane lepre che aveva appena cacciato. Commosso dalle lacrime del bimbo aveva desistito dalla caccia, abbandonando così la tradizione familiare.
Quella tragica mattina primaverile, ignaro del guaio in cui stava cacciandosi, egli partì che ancora doveva albeggiare. Svangò nella neve, seguì le tracce di un camoscio che da settimane gironzolava attorno alla baita, risalì un profondo canalone. Il camoscio lo aspettava su un dirupo e lui, come un vigliacco, avvicinatosi sottovento, gli sparò.
Lo sparo riecheggiò per la valle, qualche slavinetta si levò nella stretta vallata e ritornò il silenzio della morte. Ebbe come la percezione che tutti gli esseri viventi della zona fossero contro lui e lo avrebbero lasciato solo.  Avanzando faticosamente verso la preda sentì il cuore martellargli in gola, una strana sensazione di inquietudine lo pervase e capì di aver rotto l'equilibrio naturale che gli aveva permesso di vivere nel bosco, nella baita, di vivere dei sassi.

Dieci passi nella neve fino all'inguine e poi un po' di riposo, dieci passi ed una breve sosta... il camoscio lo aveva costretto ad ingaggiare una lotta disumana e quando lo raggiunse oramai non era più lucidissimo. Pensava che il ritorno, con il camoscio sulle spalle, sarebbe stato un rientro, lento, a casa, invece lì iniziò il suo calvario. La preda pesava tantissimo, ma l'angoscia ed il rimorso per ciò che aveva fatto gli pesava ancora di più. Il suo ritmo, già lento, rallentò ancora e divenne un faticoso trascinarsi d'albero in albero. Giunse alla baita sul far della sera, stremato, affamato, assetato ed in condizioni disperate; si sedette sulla panca appoggiando le braccia, conserte, sul tavolo e sopra vi appoggiò la testa.

Il supplizio del calvario gli aveva consentito di espiare il suo peccato e in tale posizione lo scorse il prete quando andò a trovarlo. Era in uno stato di “abbraccio mortale”. Non c'era più niente da fare: stava già abbracciando Legend.

Tutti, in paese, dissero che il vecchio aveva ritrovato Legend.

 

<1998>

Massimo Bursi

 

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