In alto dove sovrastano le nubi

 

testo di Stefano Fregonese
immagini di
Alessandro Visentin

 

 


Alessandro Visentin, Spigolo Giallo, 2000
(collezione privata)
 

...e in alto dove sovrastavano le rupi
incominciava il regno degli spiriti.
Là stavano i demoni, con le nubi e le
tempeste; la via d'un cristiano non
conduceva lassù...

R. Musil

La via è il racconto.
Non intendo ciò di cui la letteratura di montagna, gli innumerevoli resoconti delle imprese compiute sulle crode, le relazioni e i romanzi o le ricostruzioni storiche di salite e arrampicate che hanno spinto oltre i limiti umani, ma piuttosto l'idea che la via, arrampicata o percorsa, si svela come un racconto interpretato o letto da chi la percorre. Voglio dire che il narrare e l'arrampicare attengono entrambi allo stesso ambito: come le parole si inseguono costruendo un testo così i movimenti si succedono sulla parete descri-vendo una via.

I percorsi segnano i territori e le montagne, e ci vuole armonia e poesia per saperli individuare. Le vicende segnano la vita e ci vuole armonia e poesia per saperle raccontare.

Triglav
Sladko, tedesco figlio di emigranti sloveni, a 67 anni è sulla cima del Triglav per la 25a volta. Celebra questo personale giubileo trascinando con se un malmostoso ragazzino figlio di amici suoi, sloveni. Com'è immaginabile per la 25a volta apre la porta dello “Sputnik”, quel curioso ricovero a forma di missile che sembra uscito dalla matita di Walt Disney piuttosto che dalla testa di Faraday. Chiunque per quanto nella scienza possa confidare si guarderebbe dall'entrare in quella scatola di latta durante un temporale, ma oggi le nuvole sono qualche decina di metri sotto. Sladko siede sulla soglia e si lascia fotografare. Un anno in più, qualche dente in meno.

La prima volta arriva al Triglav in bicicletta da Francoforte. A trent'anni dalla cima lo sguardo spazia senza fine, oltre l'orizzonte dove il cielo avvolge il mare. A quarant'anni sale di notte per essere all'alba sulla cima e illudersi ancora di avere il giorno e la vita avanti a sé. A sessantacinque anni porta con sé l'amico di molte fatiche che pago dell'ultimo sogno muore al rifugio la sera dopo.

I ricordi di Sladko affiorano come le cime dal mare di nuvole che poche decine di metri più sotto lambisce la punta del Triglav: più che uno scoglio siamo una zattera in movimento: il Mangart a dritta? Lo Jalovec? Il Rasor dovremmo accostarlo di prua. In fondo, la cima innevata del Grossklockner, ma forse è solo uno sbuffo di vapore come le parole di Sladko sono sbuffi di umanità destinati a confondersi nell'oblio e nell'indifferenza.

Dalle quattro della mattina il temporale percorre le creste del Triglav. Abbiamo fatto bene a scendere la sera. Com'è giusto gli scrosci cancellano le tracce del nostro passaggio, dalla cresta sud ovest su fino alla cima e poi giù per il piccolo Triglav e la ... ... ... ...
Alle sette il temporale ci raggiunge al Vodikova Koča. Fulmini cadono vicini. Il calcare dell'altopiano raccoglie ogni goccia, le foibe come imbuti bevono lacrime e desiderio. L'anima del Triglav è avida d'acqua come la mia è avida di vita.
Ma entrambe si asciugano presto.
 


Alessandro Visentin, Vajolet, 2000
(collezione privata)
 

Cima Grande di Lavaredo
“Abbiamo trovato il primo ai piedi del ghiaione. Era collassato. Mancavano poche centinaia di metri al rifugio ma lui aveva ormai mollato. Il fratello era poco più in su, nelle stesse condizioni. Francesco no, era molto più in alto. Forse l'ha colpito una pietra ma più probabilmente è inciampato. Era riverso, il volto sfondato. Forse tutte due le cose insieme. Poco distante abbiamo trovato la corda ‘fatta su’ bene. Quando abbiamo interrogato i due gemelli farfugliavano, non si rendevano conto di dove fossero, né sapevano cos'era successo agli altri compagni di cordata. Francesco è rimasto ultimo. Erano tutti in maglietta, tumefatti dalla grandine. In cima, in mezzora, un'escursione termica di 40 gradi.
Tu lo conoscevi bene, no, sapevi che tipo era? 

Perché non sono rimasti insieme? Le disgrazie succedono in montagna, ne ho viste tante. Ma qui c'era qualcosa di sbagliato.

No, non l'errore di valutazione, l'imperizia, la mancanza di esperienza. Erano in quattro e tutti con le palle, hanno fatto la Dimai Comici Dimai in poche ore, tutta in libera. Gente che corre. Troppo. Guarda, sono passati alcuni anni, ma io ho ancora dentro questa sensazione strana. Ne ho raccolta di gente, in condizioni che non puoi immaginare, gli individui più strani. Qualcuno aveva perso l'appiglio, quello con la realtà. Ma, quel giorno, prima di trovare Francesco riverso, i suoi vent'anni che colavano sulla pietra annacquati dalla pioggia, prima, nell'aria, c'era qualcosa, non so, un pensiero malato forse. Era negli occhi dei gemelli. Erano morti. Ma non la morte sasso che colpisce Francesco alle spalle mentre arrotola la vita in anelli misurati, né la morte vento che soffia via la vita di Francesco, che la trasfigura in un mistero. Né la morte pietra che cancella sofferenza e terrore e il volto stesso di Francesco. No, quella è una morte pietosa. Tu lo conoscevi bene no?”
Taccio e dentro di me vedo gli occhi neri di Francesco ridere, sardonici.
“Vedi – continua la vecchia guida – la morte ti strappa il cuore ma ti lascia un sorriso, lo porti dentro tutta la vita un sorriso. Io parlo dell'aria ferma, fatta di pietra, che non scandisce i suoni, che non sferza le guance né scompiglia il tempo; parlo dell'acqua che scorre senza scroscio né vita, parlo della vita che si rapprende come mercurio, dell'iride introflessa, della parola fredda che cade inerte come un sasso sul ghiaione, del pensiero che ristagna, guano di gracchio che non ha mai preso il volo.
Camminavo veloce quel giorno per superare la forcella, sgusciarmi di dosso la morte viscosa che mi si era appiccicata mentre aiutavo i gemelli ad alzarsi. Andavo incontro alla morte calda di Francesco, il corpo disarticolato nel gran balzo della vita, la sua vita spruzzata intorno a fecondare la dolomite. Raccogliendo la viva morte di Francesco mi scrollai di dosso la vita morta dei sopravvissuti.
Gli altri della squadra di soccorso mi raggiunsero poco dopo. Qualcuno recitò l'eterno riposo. Poi caricammo il corpo sulla toboga”.
La vecchia guida rimane in silenzio mentre la brezza notturna ci accarezza ruvida e ci invita a rientrare al rifugio Auronzo.
“E tu, li hai mai incontrati i gemelli?”
Li conoscevo già da prima; dopo l'incidente li ho rivisti solo da poco. Il primo sta per sposare una bella ragazza; l'altro ha trovato un lavoro ben retribuito e compra casa.
Non abbiamo parlato dell'incidente né di Francesco. Non è stato necessario.
Francesco mi ha sorriso da dietro i loro occhi neri.
 


Alessandro Visentin, Spigolo Giallo 2, 2000
(collezione privata)
 

Sass d'la Crusc, Spigolo Giallo, Torre Trieste, Tofana
Francesca chiama. Allora viene. Cosa la spinga da Villamarina alla Val Badia, il 2 gennaio, non cerco di sapere. Valeria cercava il calore del sole di giorno e quello di un uomo la notte. Cristina voleva marito e famiglia, conferma e approvazione, ordine e sicurezza. Elena non è mai venuta; sarebbe rotolata sui prati o sulla neve come un pensiero risentito e malmostoso. Il punto non è la donna, è la montagna. A tentare la Messner al gran muro c'era anche Lucia. Non eravamo molto convinti quel giorno. Il desiderio mi accompagnava come un'ombra nella veloce salita all'Ospizio della Croce; ma a mezzogiorno, giunto al termine delle balze iniziali, alla cengia dove attacca la via vera e propria, s'era assottigliato, e come l'ombra si nascondeva sotto i piedi.
Il desiderio della montagna si fa strada a fatica nelle ultime ore della notte. Uno spera sempre che piova, al mattino. La montagna chiama, come il campanaccio della vacca il vitello stolto.

E l'alpinista risponde, imprecando il caffè amaro e il freddo insipido. Poi le corde pochi friend qualche nut quanti rinvii. Sandro aveva fretta, Mario indugiava, Cesco andava di corsa, troppo.

La roccia è senza vita quando la tocchi la mattina prima dell'alba. E' fredda e tagliente, uno spigolo giallo. Si anima con il sole e con il tuo desiderio. La tocchi e risponde con un gelido schiaffo. Tu ti sfreghi le mani, stringi il pugno, dolori le dita, ma non rinunci e tocchi ancora. Allora la roccia si scalda e prende vita, si lascia toccare, graffia magari, il calcare.
 


Alessandro Visentin, Cima della Busazza, 2000
(collezione privata)

Appoggi, aggrappi, appigli; la roccia lascia scorrere i suoi umori, la senti ansimare mentre la prendi con entrambe le mani, le braccia grandi, come un padre. Man mano che sali si fa piccola come una bimba che chiede di essere presa in grembo. Solo in cima ti chini per carezzarla, pietra che chiama, figlio che vuole giocare ancora e ancora. E se tu devi andare non ti lascia, ti si aggrappa come durante la discesa dalla Torre Trieste. Ancora e ancora la roccia voleva giocare a vederci balzare, sulle interminabili doppie. Oppure, Tofana, si getta ai tuoi piedi e si lascia solcare, gatta che offre il suo ventre di ghiaia per i tuoi salti di gioia.
Durante la discesa provi grande il desiderio. Sete e calore.

Francesca sa di montagna quando i polpastrelli ruvidi disegnavano nuove vie sulla sua pelle. Nella penombra ascolta l'eterna storia di un uomo i cui movimenti si susseguono, descri-vendo la vita. 

 

<2003>
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