Il lupo

 

di Flavio Faoro

 

 

Quando si è piccoli le distanze, e il tempo, sono diversi. Forse allora, quand'ero piccolo io, c'erano anche meno motori e spostarsi a piedi era più normale. Andavo a piedi a sciare tutti i pomeriggi dopo la scuola, dopo il pranzo veloce e l'ostacolo superato del mettere e allacciare gli scarponi doppi, di cuoio, con le stringhe interne e esterne di colore diverso. Li avevamo comprati io e la mamma, a Feltre, in un negozio dove avevo provato numeri e modelli e ogni volta temevo – e credo che mi sia rimasta ancora, quest'idea – che il numero giusto per me non ci fosse e avrei dovuto rinunciare o aspettare chissà quanto. Allora, dopo mangiato mi cambiavo e allacciavo questi scarponi appoggiando il piede sullo scranno davanti alla specchiera in camera di mia madre, e ci impiegavo minuti lunghi quasi quanto l'intera mattinata a scuola. Poi andavo, con gli sci e tutto, e trovavo per strada altri ragazzi come me, che camminavano veloci e non volevano perdere quelle poche ore prima del buio e dei compiti che ci aspettavano. Non ricordo se ci sembrava distante. Oggi lo sarebbe e nessuno, né adulto né bambino, ci andrebbe a piedi.

Il posto non esiste più. Si chiamava Colombera, non so perché, non ho mai visto colombi, forse d'inverno non volavano in giro. C'era un gran prato pianeggiante, con un bosco da un lato e filari di vite dall'altro, e poi questo prato si alzava ripido, un bel pendio rettangolare delimitato da alberi e piccoli dossi di sassi. Non si vedevano case, solo un edificio grigio – forse proprio questo posto per i colombi – e in fondo il campanile del paese, con l'orologio proprio dalla nostra parte, ma non serviva perché a noi sarebbe stato il buio a spingerci a casa. Andavamo su e giù, e ci sembrava grande e ripido, quel pendio. Inventavamo percorsi di slalom con bastoni di nocciolo, e tagliarli, sistemarli, modificare il tracciato, rimettere in piedi quelli caduti richiedeva un gran tempo, che però era bello passare così, in un inutile perfezionismo rispetto al gioco, come se quei bastoni fossero davvero importanti e solo sciatori già bravi come noi potessero passare delle mezz'ore a sistemare un tracciato invece che ad esercitarci.

Il sole non c'era mai.  Forse la mattina, ma la mattina eravamo a scuola. E così non c'era uno stacco netto della luce, un segnale preciso, come un tramonto o un'ombra netta che avanza, ma come un affievolirsi delle cose e, mi pare, qualche luce nel paese, a dirci di tornare. Il freddo invece non c'era, o non c'era come tale, ma mettere le mani nell'inguine, ogni tanto, o sotto le ascelle, era la posizione normale di quando si stava fermi.

Una variante delle discese, oltre allo slalom e alle partenze sempre più in alto, nei cespugli o fra i grossi massi che facevano da primi ostacoli da schivare, era lanciarsi dritti e arrivare il più lontano possibile, attraversando velocissimi il prato pianeggiante, mentre le viti e gli amici già scesi passavano in un lampo e ci si fermava distanti, e voltandosi indietro si vedeva tutto il pendio, lunghissimo, che avevamo disceso.

Fu alla fine di un pomeriggio, io ero in cima e mi godevo la fine della fatica della risalita e guardavo dall'alto i compagni e tutta quella lunga discesa che mi aspettava. Non so chi lo vide per primo, ma tutti guardammo e gridammo, all'inizio, poi restammo in silenzio, fermi. Era una volpe, grande e con un magnifico pelo rosso, e una coda alta e fiera. Camminava in fondo al prato delle nostre discese, lo attraversava proprio, lentamente, con la testa chinata sulla neve. Procedeva dritta, verso la collina e il bosco, nella luce grigia della sera che arrivava, e fu un lungo momento che colpì tutti noi, una pace e una forza di cui eravamo testimoni, e restammo in silenzio a guardare puntati sui nostri bastoni da sci, qualcuno con le gambe aperte per non iniziare a scivolare, altri a metà della risalita, con gli sci di traverso. Solo uno o due in fondo, sul piano, i più vicini all'animale.

Poi sparì nei cespugli e tutto riprese movimento, le discese, i commenti, la gioia della scoperta e della visione che avevamo avuto. E anticipammo di un po', forse, il ritorno in paese, per raccontare o perché avevamo sciato abbastanza e aver visto quella grossa volpe era un bel modo per concludere il pomeriggio.

Tornavamo con i nostri sci sulle spalle, con i passi brevi e le chiacchiere fitte che non ti fanno sentire la fatica, quando sentimmo quei due colpi. La caccia era un'abitudine di molti, allora, andavo anch'io, qualche volta, con un mio zio che non c'è più da molti anni. Due colpi d'inverno erano normali, verso sera, sulle colline, non ci facemmo caso. Ci dividemmo, andai a casa, c'era sempre una spremuta di arance ad aspettarmi e i compiti al caldo, mentre gli scarponi asciugavano sotto la stufa della cucina e il buio spariva fuori dalle finestre chiuse.

Fu mio padre a chiamarmi, anzi, mi pare che mi fece chiamare da qualche altro parente, non ricordo bene. Però so che scesi e nella piazza, proprio davanti a casa, c'era fermo un grosso camion azzurro, di quelli che si usano per caricare i tronchi tagliati,  senza sponde dietro, solo la cabina e il pianale e quattro alti fittoni di ferro che servono a impedire che i fusti del legname cadano. Vicino c'era l'autista, uno alto e grosso, molto brutto e trasandato, che noi chiamavamo Dante Pecora. Non so perché lo chiamassimo così, se era il nome vero o se la sua grossa faccia sempre con la barba lunga, il suo aspetto sporco e sciatto, la sua casa, quasi fuori dal paese, verso la collina dietro la Colombera, vecchia e cadente, con il cortile pieno di rottami, gli avessero attirato quel nome. Dante Pecora gesticolava e parlava forte, con la sua voce greve, mentre dai bar e dalle case uscivano persone, uomini e donne. E c'era anche il veterinario del paese, gran personaggio, giocatore e sempre pieno di donne, avrei scoperto anni dopo, quando per un'estate intera l'avrei accompagnato sulla sua Renault 4 in giro per le stalle della zona, a castrare agnelli e a fare le prime fecondazioni artificiali alle mucche. Il veterinario era salito sul cassone e esaminava il cadavere dell'animale che avevamo visto prima, sul prato. La volpe sembrava molto più grande, adesso, da vicino e sotto la luce del lampione, dove il camion si era fermato. Il corpo era legato alla cabina, dietro, in modo da farlo sembrare ancora in piedi. Anche la testa era legata, un po' storta, la bocca aperta, un segno di sangue, da qualche parte. Il veterinario parlava, con esclamazioni forti, altra gente arrivava, Dante Pecora gesticolava e gridava. Anche le persone intorno, anche mio padre che mi teneva sollevato perché vedessi meglio, commentavano a voce alta, frasi con “qui da noi”, “io ho tanti anni ma non ho mai visto”, tutte espressioni che avrei imparato a riconoscere e a sentire spesso, con gli anni, tutti segni di ben poche conoscenze di realtà diverse da quelle del paese, come era per tutti, allora.

Insomma, era un lupo, un lupo vero e non una volpe, quello che avevamo visto. Anzi, affermava con sicurezza il veterinario, “un lupo siberiano, vedete come ha il pelo rosso, e non grigio o scuro, come quelli europei”. Siberiano. La Siberia, che sapevo che era lontana, anche se non sapevo certo dove, e già il nome evocava spazi e freddo, e boschi e lontananze verso il nord. E tornai a casa pensando alla infinita strada che quell'animale aveva fatto, e capii la lentezza con cui l'avevamo visto camminare, l'indifferenza con cui ci era passato vicino, la sua infinita stanchezza. Noi ragazzi eravamo stati gli ultimi a vederlo, vivo, noi fermi sui nostri sci, su quella neve che doveva ben conoscere, e in fondo eravamo stati un po' amici, sia noi che lui vivi, in quel pomeriggio sul prato, e ci eravamo anche guardati. E pensavo che era venuto a morire lì, nel mio paese, ucciso da uno come Dante Pecora, e che adesso erano tutti che lo guardavano, e qualcuno lo toccava, e già molti se ne andavano per entrare nelle osterie a bere un bicchiere prima di cena. Questo pensavo, mi ricordo, e capivo che non l'avrei dimenticato quel pomeriggio, e che era successo qualcosa di grande, non sapevo se giusto o no, forse il mondo degli adulti era così, ed essere dispiaciuti era stupido e se fossi stato più grande sarei anch'io andato a bere all'osteria. Ma quella sera, a mio padre, che il lupo io lo avevo visto vivo, non lo raccontai.

 

Primavera 2001

Flavio Faoro

 

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