Alpinismo eroico? Tre storiche cordate, in modi e momenti diversi,
| |
di Carlo Caccia | |
|
|
1907-1911: Young e Knubel “alpinisti ispirati” “Les sortilèges du double sphinx” ossia “I sortilegi della doppia sfinge”: una curiosa espressione che, pur con le carte in regola per indicare una via moderna di grande impegno - e non esiste già, opera di un trio famoso, “L'eco di Chefren”? - tuttavia non è, come direbbe l'autore di “Cento nuovi mattini”, un parto della fertile fantasia di qualche forte arrampicatore contemporaneo bensì, con un ampio balzo a ritroso nel tempo, trova la propria origine circa novant'anni fa, quando l'inglese Geoffrey Winthrop Young (1876-1958), una delle personalità più complete ed interessanti di tutta la storia dell'alpinismo, espresse le proprie impressioni a proposito di quella muraglia che neppure due decenni più tardi, fra gli anni Venti e Trenta del XX secolo, sarebbe diventata uno degli “ultimi” grandi problemi delle Alpi e avrebbe provocato un'autentica corsa per la sua conquista. Ma come mai Young ne parla? Per quale motivo ci presenta l'immagine di una “doppia sfinge”? Semplicemente perché furono proprio lui e la forte guida svizzera Joseph Knubel (1881-1961) i primi che, nel 1907, ai piedi della parete Nord delle Grandes Jorasses, si fermarono volgendo in alto gli sguardi non soltanto ad ammirare ma a cercare una possibilità di salita. E la “doppia sfinge” o, meglio, le “sfingi gemelle” (Young utilizza anche questa formula), non sono altro che lo sperone Walker e lo sperone Croz che si lanciano verso l'alto, poderosi, rispettivamente a sinistra e al centro dell'imponente versante. Young e Knubel, alpinisti il cui legame fu caratterizzato dal rispetto e dalla considerazione reciproca, secondo Doug Scott formavano la migliore cordata di quei tempi nella quale, un po' come era già accaduto fra Mummery e Burgener, erano infrante le regole del comune rapporto cliente-guida. Insieme realizzarono, con eleganza e purezza di stile esemplari, alcune fra le più audaci e impegnative ascensioni dell'epoca fra le quali spicca, con la celebre fessura terminale, la via al Grépon dalla Mer de Glace, aperta senza chiodi il 19 agosto 1911 e che rappresentò per un ventennio la più difficile salita di roccia nel gruppo del Bianco. Geoffrey Winthrop Young (al quale è stata giustamente dedicata una delle sei vette delle Grandes Jorasses), uomo di notevole e profonda cultura i cui scritti sono da annoverare fra i classici della letteratura alpinistica, con le proprie imprese sviluppò una concezione simpatica ed estroversa dell'arte di arrampicare: l'eroismo retorico, elitario ed antistoricistico che avrebbe raggiunto in “Jungborn” (“Fontana di giovinezza”) pubblicato nel 1922 da Eugen Guido Lammer il proprio vertice, non trova spazio nelle azioni e nelle idee dell'alpinista inglese che, ancora alla maniera di Mummery, smitizzando le privazioni fisiche di cui l'alpinismo sembrava non potesse fare a meno, sdrammatizza quegli aspetti eroici così evidenti in altre personalità e, con l'espertissimo Knubel, si accosta libero da esasperate tensioni, sollecitato da semplice curiosità e, malgrado tutto, da quell'innegabile attrattiva che una grande parete ancora inesplorata poteva esercitare sui migliori fra gli alpinisti del momento, all'allora appena percepibile problema presentato dalla Nord delle Grandes Jorasses che, come affermò chiaramente egli stesso in “Nouvelles escalades dans les Alpes” (“Nuove scalate nelle Alpi”), era considerata alla stregua di una possente e spavalda creatura mitologica. «L'idea di dualità - scrive Young - si è vista associata, fin dai tempi più antichi, con quella di forza soprannaturale. Le Grandes Jorasses devono una parte maggiore (della loro fama, ndr) ad una peculiarità morfologica: viste da nord, esse si presentano come due cime gemelle. Duplice è la loro severità di linea e doppiamente danno l'impressione di una sublime superiorità sull'ambiente che le circonda» tanto che, dal Tacul o dalle Périades, appaiono «quali sfingi gemelle e più grandi trasformate in roccia, con la loro criniera di neve gettata all'indietro verso le nubi sovrastanti l'Italia». Il grande alpinista spiega in seguito che le ascensioni, fino alla sua epoca, «furono tutte effettuate a rovescio, sul versante dove il sortilegio della doppia identità non poteva agire. Nessuno fu tanto ardito da sfidare le nere gemelle sul loro doppio volto rivolto a nord» e caratterizzato da rocce a picco alle quali, «più ci si avvicina, meno ci si sente portati ad amarle. La maggior parte delle montagne - continua Young intrecciando elementi fantastici e riflessioni più strettamente alpinistiche - sembra essere stata creata in vista dell'ascensione che l'uomo, un giorno, avrebbe compiuto. I loro punti deboli, le loro articolazioni, le loro fessure sono calcolate sulla scala di una persona di grandezza normale. Ma le torri delle Grandes Jorasses (“rocs jorassiques” nell'originale) sono state concepite per i figli di Anak» e così «la mente si sente presa da vertigine e da smarrimento nel proseguire la scalata. Io trascorsi, per parte mia, più di una notte e molte vane giornate alla base delle nervature centrali (come sostengono anche Gino Buscaini e Lucien Devies, Young probabilmente si riferisce allo sperone Croz, ndr) della parete Nord. Ma i sortilegi della doppia sfinge ci schiacciarono e così fuggimmo, cedendo alla tentazione che senza posa ci spingeva alla scalata di un nuovo campaniletto delle vicine Périades. Dopo alcuni anni infruttuosi, Joseph ed io perdemmo ogni speranza e, “con l'Occidente sotto gli occhi”, la nostra attenzione si portò sulla cresta Ovest, quella che sale dal Col des Grandes Jorasses», che Knubel, Young e H.O. Jones - il quale scese però direttamente al Reposoir una volta toccata la Punta Elena - affrontarono e superarono nel 1911, raggiungendo la Punta Whymper e compiendo la prima salita certa della Punta Croz. Non conosciamo fino a che punto i nostri protagonisti si siano spinti sulla montagna ma possiamo affermare con sicurezza che, nella migliore delle ipotesi, superarono di poco la crepaccia terminale anche se, molto probabilmente, ha ragione Gian Piero Motti quando sostiene che «Young e Knubel raggiunsero la base della parete, ma si accontentarono di guardare», totalmente soggiogati dal “sortilegio della doppia identità” che impedì loro di intraprendere, nel corso di cinque anni, qualsiasi azione decisa: la Nord delle Grandes Jorasses, anche se inesorabilmente li attirava, continuava, con le sue evidentissime estreme difficoltà, ad apparire loro inespugnabile e a non lasciare intravedere alcuna via che valesse la pena di cominciare a seguire. I due alpinisti ispirati, come li definì Gaston Rébuffat, che per primi percepirono il richiamo lanciato dalle “sfingi gemelle”, seppero in quel momento rinunciare serenamente, senza neppure immaginare il ruolo che la poderosa e non più soprannaturale parete avrebbe rivestito pochi decenni dopo quando - in un'epoca lacerata e convulsa caratterizzata dalla più accanita competizione e dalla strumentalizzazione dell'alpinismo che divenne strumento eroico di pretesa supremazia personale, di razza e di popolo - i forti rappresentanti dell'alpinismo germanico sarebbero comparsi prepotentemente sulla scena delle Jorasses, «fermamente decisi ad imporre sulla sconfitta parete il segno della croce uncinata» - sono parole di Renato Chabod - e riuscendo, tra il 28 e il 29 giugno 1935, nel loro intento (R. Peters e M. Meier, lungo lo sperone Croz) con un'impresa “purificatrice e sublimante” che, in quell'atmosfera, appariva in grado di riscattare quelli che Lammer definiva “molti anni di vita filistea”.
Chabod e Gervasutti: protagonisti particolari della “corsa alle Jorasses” Ma nelle Alpi occidentali tali idee erano giunte solamente
“per importazione” e, in un quadro sociale e culturale diverso da quello
in cui erano nate, non furono in grado di svilupparsi tanto che, se sui
colossali e strapiombanti versanti calcarei delle Dolomiti incontriamo
alpinisti che parlano di orgoglio maschio e di gioia della propria forza
che si sprigiona nell'azione arrampicatoria, nel massiccio del Monte
Bianco scorgiamo la figura simpatica e loquace di Renato Chabod
(1909-1990) che non esita ad affermare di essere in preda ad una “crisi di
fifa” e non si sente per nulla animato dall'eroico proposito di continuare
ad ogni costo: è il 30 luglio 1934 e l'alpinista valdostano, in cordata
con Giusto Gervasutti I due giovani scalatori si erano incontrati attorno al 1931 quando Gervasutti, stabilitosi a Torino e in ricerca di alpinisti della sua età, fu per così dire “preso in esame” da Chabod che lo condusse ai Tre Denti di Cumiana dove, come scrisse Massimo Mila, «sulla prima placca, poco ripida, il candidato s'era innalzato d'un paio di metri, convinto di trovare i buchi che nel calcare permettono di salire su inclinazioni ben più esposte, poi li aveva riscivolati fino in fondo. Aveva sbuffato un po' col naso, come faceva spesso, poi ci si era rimesso, e fu chiaro che (da esperto dolomitista che intraprende per la prima volta una scalata su granito, ndr) aveva capito subito la situazione». E la capì tanto bene che, come ancora avremo modo di vedere, in ogni successiva scalata compiuta con Chabod solo raramente avrebbe concesso al compagno di procedere da primo lungo i tratti rocciosi. Ma ora, riportando l'attenzione all'importante tentativo sulla temutissima Nord, occorre dire che di quello, come della seconda salita della parete (realizzata, per motivi fortuiti, in compagnia della guida svizzera Raymond Lambert e della signorina Loulou Boulaz nei primi due giorni di luglio del 1935), esistono tanto i racconti di Chabod (pubblicati, nell'anno appena menzionato, nella “Rivista mensile” del Club Alpino Italiano), quanto quelli di Gervasutti (editi nel 1945 nel libro autobiografico “Scalate nelle Alpi”). Le relazioni di Chabod sono degli autentici capolavori: lo stile è brillante, la narrazione avvincente e lontana da ogni retorica mentre lucidissime ed estremamente interessanti, in particolare agli occhi dello storico, appaiono le argomentazioni e le riflessioni che l'autore presenta sia a proposito dell'alpinismo in generale sia a proposito delle vicende specifiche legate alla grande parete. “La corsa alle Jorasses” descritta abilmente dal forte ghiacciatore prende il proprio avvio il 29 luglio del 1934 quando, mentre lui e Gervasutti si trovano al rifugio Leschaux in attesa di iniziare la salita, il Monte Bianco appare invaso dai tedeschi, mai così numerosi come in quell'anno: «Vi è (oltre alla cordata già impegnata in parete, ndr) una tenda misteriosa a poca distanza dal rifugio, dove albergano tre individui, pure assai sospetti per le loro aspirazioni jorassiane, e a Chamonix, a quanto si dice, vi sono poi altre numerose cordate di rincalzo, pronte ad entrare in linea al momento opportuno. Ad esser sinceri, però, debbo dire che a noi questi biondi piantatori di chiodi non fanno poi tanta paura». Chi è veramente temuto è invece Armand Charlet, “le grimpeur le plus rapide du monde”, che Chabod considera «una specie di padreterno, addirittura imbattibile sulla “sua” Nord Jorasses» e che, inaspettatamente, giunge il giorno stesso al rifugio per lanciarsi sulla nera muraglia assistito da Fernand Belin. Così il 30 luglio lo sperone Croz è letteralmente assediato e, prima dell'abbandono di Charlet che affermò: «Rien à faire, c'est tout en glace!», sulla leggendaria parete sono impegnati il grande Armand con Belin, i due tedeschi Haringer e Peters (che, prima di iniziare la serie di calate durante le quali Haringer precipitò, avrebbero toccato i 4000 m di quota), i nostri Chabod e Gervasutti (i quali, una volta raggiunti i tedeschi che all'allegro “Salve!” dell'impetuoso Renato «non ritengono di dover dare una risposta, sia pure con un semplice grugnito», decidono di scendere convinti dell'impossibilità di uscire in vetta con la parete in simili condizioni) e infine, come se non bastasse, tre austriaci dei quali si conoscono solamente i nomi - Willy, Walter e Sepp - e che non riescono a superare neppure il colletto della prima torre. Ma torniamo al racconto di Chabod. Durante la discesa dei due alpinisti italiani, ormai sotto la seconda torre, una corda doppia «s'incanta e non c'è più verso di smuoverla». Gervasutti allora, senza fare obiezioni alla proposta del compagno, rasenta «i limiti dell'umanamente possibile in fatto di altruismo» e, calzate le pedule, parte per il ricupero. La situazione è delicata, il Fortissimo appare in grande difficoltà e decisamente straordinario è, a questo punto, il quadro dipinto da Chabod che, temendo seriamente un volo del compagno, si lancia in una serie di folli elucubrazioni. Ritiene impossibile scendere senza corda, impossibile tentare di nuovo di recuperarla e, notando i tre austriaci fermi poco sotto, stabilisce che un aiuto potrebbe arrivare solo da parte loro: «Ma come faccio a farmi capire, io che so solo dire “Achtung” (“attenzione”, ndr)! Ecco cosa vuol dire sapere le lingue estere, e io che non ne ho mai voluta studiare nessuna e ora guarda un po' in che pasticci mi trovo!... Sono addirittura accasciato, distrutto dalla coscienza della mia ignoranza linguistica, quando una voce dall'alto mi scuote. “Chiodo, martello e moschettone, presto!”. Un chiodo? anche due gliene mando, e dei più belli... Passa un altro po' di tempo ed ecco il Fortissimo che scende, sbuffante e felice». I due amici giungono finalmente al colletto sottostante ed uno degli austriaci, in un francese abbastanza comprensibile, chiede loro dove stiano andando. Chabod esplode: «Ma guarda che cretino: come se fossero domande da farsi, queste! Al rifugio andiamo, e d'urgenza, perché non ci garba di dormire qui: “Hütte, Leschaux Hütte”!». Alla richiesta degli austriaci di poter scendere insieme il generoso Gervasutti risponde subito di sì, malgrado le obiezioni di Chabod («scendere il canalone in cinque, con quel po' po' di pietre che aspettano solo un soffio per partirsene in volata»), ed il gruppo giunge alla crepaccia terminale che è ormai notte. Al racconto dell'avventura Chabod fa seguire una nota tecnica nella quale afferma di essere d'accordo con Charlet sul fatto che Peters, nel suo drammatico tentativo, non può essere giunto a soli cento metri dalla cresta sommitale, ma un anno dopo, durante la “corsa alle Jorasses, edizione 1935”, egli si renderà conto, trovando in parete chiodi ormai consumati e quindi verosimilmente lasciati dai due tedeschi l'anno precedente, di aver sostenuto un'opinione sbagliata. E quando lui e Gervasutti, ai quali la prima della grande Nord stava particolarmente a cuore, giungono nuovamente a Leschaux in quell'ultima domenica di giugno, la notizia che Meier e Peters erano già in parete da due giorni (e in realtà, in quel momento, i due tedeschi avevano già terminato con successo l'ascensione) produce un effetto deleterio su di loro “poveri tapini” e, se il Fortissimo non si rassegna ed è desideroso di intraprendere comunque la scalata («Pazienza - commenta - vuol dire che faremo la seconda!»), Chabod è letteralmente a terra, abbrutito ed afferma di tentare la parete solo perché vittima dell'amicizia: se il caro Giusto vuole salire non lo si può certamente lasciar andare da solo... Ed il primo giorno di luglio, all'una, ecco i due amici - preceduti da Raymond Lambert e dalla signorina Loulou Boulaz, i quali però vengono presto raggiunti e superati - che si dirigono verso le “sfingi gemelle” ed alle otto sono già alti sullo sperone Croz, oltre la seconda torre. Chabod è ora in testa, ma solo per «gentile concessione del Fortissimo, poiché - ci spiega - in virtù delle nostre convenzioni jorassiane la roccia gli è riservata ed il mio compito di capocorda limitato ai pendii di ghiaccio: lui è un po' l'operaio specializzato, che esegue i lavori di alta scuola, io faccio più modestamente il manovale, attuando però una razionale distribuzione di lavoro che consente alla nostra cordata di essere particolarmente veloce». In questo momento, però, i nostri eroi sono seguiti a ruota dalla guida ginevrina e dalla fuoriclasse Loulou che, a sua volta in testa, supera brillantemente le difficoltà che la parete oppone e, dopo il nevaio medio, raggiunge Chabod “tutta felice e contenta”. La scalata prosegue ma, raggiunto un tratto di roccia liscia che crea non pochi problemi anche al Fortissimo, il robusto Lambert (che, da buon occidentalista, è privo di pedule...) chiede di formare un'unica cordata: «Se lei è salito come secondo - spiega a Renato - io salirò come terzo, mi butti giù una corda e non se ne parli più». Così «slegati tu, che poi mi slego io, manda giù la corda e fa' salire il terzo, poi arriva anche il quarto (cioè, la quarta), e siccome il Fortissimo ed io abbiamo bisogno delle nostre due corde perché sopra c'è un altro passo ardito e loro due scoprono che hanno una corda di riserva nel sacco e bisogna srotolarla e poi legarsi ancora», improvvisamente, dopo tanto trafficare, «le nuvole, che hanno felicemente concluso la loro adunata generale, si decidono a far qualcosa nel nostro interesse e scatenano una di quelle grandinate che, se queste placche fossero coltivate a grano, il raccolto sarebbe ormai irrimediabilmente perduto». La situazione dell'eterogeneo quartetto non è delle più brillanti e, con Lambert e la signorina bloccati in un canale a ricevere addosso «una tal quantità di grandine che - afferma Chabod - non so come facciano a star su, prescindendo da qualsivoglia considerazione altruistica ed umanitaria, sta il fatto che io sono legato a loro e, se partissero, non saprei come fare a tenerli tutti e due (la corda scivola sullo spuntone rotondo e bagnato...), per cui credo che me ne andrei via anch'io e rimarrebbero a tenerci su tutti e tre un chiodo solo ed il Fortissimo che, per quanto fortissimo, se parte il chiodo parte anche lui e buona notte...». Per fortuna la tempesta si placa ma la parete, ora, appare in condizioni decisamente proibitive, avvolta dalla nebbia, e gli abiti dei nostri alpinisti - che comunque riprendono la scalata - sono ormai una crosta di ghiaccio. In seguito, giunto alla nicchia del nevaio superiore, il Fortissimo crede opportuno «fare l'inventario del materiale chiodistico» e richiede i propri preziosi ferri alla Boulaz, che avrebbe dovuto toglierli: «Ne mancano parecchi, che la signorina dice di non aver potuto levare, e il nostro bilancio è piuttosto magro, dieci chiodi e nove moschettoni». Chabod si rivolge allora al compagno svizzero: «Spero che voi ne avrete, no?» e questi, con autentica soddisfazione, «esibisce tre chiodi di dimensioni spropositate, mostruosi, che avranno forse rappresentato l'ultimo grido della tecnica nel 1885, ma che oggi ci farebbero morir dal ridere, se non fosse che in questo momento non ne abbiamo molta voglia». L'alpinista valdostano chiede allora qualche moschettone e «Lambert stavolta estrae dal suo sacco, emozionante contrasto, tre affarini piccoli piccoli e sottili, che sollevano la mia giusta indignazione e gli dico che di quella roba lì, noi due, al massimo potremmo servircene per attaccarci la catena dell'orologio». Giunge la sera e, dopo un volo di una decina di metri, assolutamente imprevisto, del grande Gervasutti (che comunque «è proprio fortissimo in tutto, anche nei voli, ed è caduto così bene che non deve essersi fatto un gran male», andando «a finire proprio in una specie di cunetta, utilizzando accortamente quella parte del corpo umano che è la meno sensibile agli urti violenti»), la comitiva decide di bivaccare e, mentre Lambert e la propria cliente riescono a trovare una piccola ma confortevole nicchia nel camino che, trasformandosi in canale ghiacciato, sale fino alla forcella dello sperone, i poveri Renato e Giusto sono costretti a starsene appollaiati, uno in piedi e l'altro seduto, alternandosi ogni mezz'ora, su di un blocco incastrato. La notte purtroppo è gelida e Chabod non può fare a meno di esprimere al compagno la propria “indignazione”: «Senti Giusto - dice - io ti pagherò due bottiglie invece di una, perché mi hai deciso a venire, ma tu me ne pagherai almeno una per questa notte da cani, te l'avevo detto io che il sacco da bivacco era meglio lasciarlo a casa e prendere roba di lana, tanta lana, un sacco pieno di lana... che freddo, porca miseria!». Il giorno successivo - quando mancano ormai non più di novanta metri alla cresta e Lambert è impegnatissimo in un passaggio particolarmente ostico mentre gli altri sono fermi dietro di lui in malinconica contemplazione - l'incrollabile Gervasutti sta già pensando ad un eventuale secondo bivacco, ma Chabod reagisce prontamente secondo il proprio stile: «Senti, Fortissimo, io sento che usciremo, ti garantisco che usciremo, perché ne abbiamo proprio bisogno e qui sopra ci deve essere una specie di cengia... e se non si può torniamo indietro, ma io non resto qui a fare segnalazioni con la candela. Ma non parliamone più, caro Giusto, cerchiamo per ora di uscire, ma vorrei vederti con la tua candela a fare le segnalazioni, seduto su quello spuntone lì che è più aguzzo del campanile di Entrèves e se credi di poterci stare su una notte ti sbagli di grosso!». Intanto Lambert, che «sta arrancando disperatamente e ad un certo punto ricorre anche ad un lancio, gettando abilmente la corda su uno spuntoncino e poi issandosi di peso», ottiene la piena approvazione del buon Renato: «Quell'uomo non avrà portato pedule, chiodi e moschettoni, ma indubbiamente il mio cuore di vecchio occidentalista palpita commosso quando vedo una simile manovra di puro stile classico e soprattutto quando sento i chiodi degli scarponi (lo stesso Gervasutti avrebbe utilizzato per la prima volta scarpe con suole di gomma, da lui definite “una novità che in breve tempo avrebbe rivoluzionato completamente tutta la tecnica delle scalate nelle Alpi occidentali”, solo l'anno successivo, in occasione della prima ascensione della parete Nord-Ovest dell'Ailefroide, ndr) che grattano rabbiosamente il granito... bravo Lambert!». A trenta metri dalla vetta il Fortissimo torna in testa e dopo un ultimo, delicato tratto roccioso, il gruppo di intrepidi scalatori giunge sulla sommità della sconvolta parete. Ma tutto è diverso da come Chabod l'aveva immaginato: altro che «arrivo lirico, tramonto radioso, il Fortissimo ed io, soli, i vittoriosi... Non siamo i primi, e quindi addio gioia ed abbraccio, ecc., ecc., ma soprattutto è il pomeriggio di una giornata orribile, non vediamo nemmeno la punta Whymper, avvolti come siamo nella nebbia. C'è però una certa qual soddisfazione, ed è quella di esser riusciti ad uscir fuori, perché la pelle resta pur sempre una cosa importante e quando si ha la precisa sensazione di averla cavata da un brutto impiccio ci si sente piuttosto ringalluzziti...». Durante la discesa accade un piccolo imprevisto, con il povero Giusto che «fila come un diretto verso il “sottostante burrone”, schiena alla roccia e gambe per aria, in perfetta posizione aerodinamica» e con il fido amico che, per fortuna, riesce a trattenerlo, osservando che «rompersi il collo sui Rochers Whymper, dopo aver salito la Nord, sarebbe stato “poco dignitoso”, e che non bisogna mai fare lo spiritoso e saltellare sulle creste facili, perché talvolta succede di inciampare nella piccozza e di partire in volata». Inoltre «il metodo di assicurazione “aggrappati a quel blocco e tieni duro!” può dare ottimi risultati, anche nell'epoca dell'assicurazione a forbice e altre simili diavolerie». Al rifugio il morale è basso, ma non tanto da impedire ai nostri personaggi di brindare con una poderosa tazza di acqua calda e zucchero alla salute della valorosa signorina Loulou che, nel 1952, avrebbe salito in prima femminile anche lo sperone Walker. Soffermiamoci ora sulla seconda, estremamente significativa, nota tecnica compilata da Renato Chabod e notiamo subito come il dotto alpinista affermi serenamente che, a proposito dello sperone Croz, «le difficoltà di roccia non sono di ordine estremo e i passi più difficili si possono valutare di quinto grado». Egli osserva poi di aver parlato, «forse un po' imprudentemente, di gradi», facendo così gridare qualcuno (gli “occidentalisti doc”) al sacrilegio per aver «osato valutare la difficoltà tecnica dei passaggi di roccia di una salita mista delle Alpi occidentali, mentre altri (i fortissimi arrampicatori dolomitici, ndr) proveranno una gioia maledetta nel leggere quella cifra modesta, quinto grado». Ai primi egli risponde, con un pizzico di giustificata vena polemica, che non vi è nulla di male nel voler precisare entità precisabili, mentre i secondi «sono padronissimi di classificare la salita in quinto superiore o inferiore, o magari anche solo in quarto superiore (con passaggi di quinto...), con un sorrisetto di compatimento per il bluff della Nord Jorasses, tanto strombazzata e su cui poi, stringi, stringi, non vi è nulla di estremamente difficile». Lui non ha alcuna intenzione di arrabbiarsi e, anzi, pensa che (altra frecciata, esplicita, ad alcuni colleghi...) «ciò potrà essere molto utile per i compilatori di una guida della zona, i quali se no non saprebbero come regolarsi ed esagererebbero certamente, come è antica ed inveterata consuetudine degli occidentalisti, il valore della salita, mettendo magari in evidenza quelle cose sciocche e senza importanza atletico-sportiva che sono i pendii di ghiaccio, le cadute di pietre, il vetrato e la neve sulle placche, ecc.ecc., a tutto scapito della difficoltà pura...». Da quanto abbiamo analizzato finora emerge chiara la figura di un alpinista “insolito” che, pur nato e cresciuto in un particolare ambiente “montanaro” (come Armand Charlet), a differenza della grande guida francese, pur rimanendo l'uomo del misto e del ghiaccio e superando senza chiodi pareti come la Est del Mont Maudit, non rimane forzatamente vincolato (basti pensare alla sua reazione nei confronti del materiale alpinistico di Lambert) a quella concezione classica e tipicamente occidentale dell'alpinismo che rifiutava ogni sistema di assicurazione, le manovre di corda e quindi i chiodi e i moschettoni. E fu proprio la “corsa alle Jorasses” (pensiamo anche alla successiva impresa di Cassin e compagni), in occasione della quale il grande Charlet, maestro indiscusso nella tecnica del “cramponnage”, fu costretto a rinunciare e non certo per incapacità o mancanza di coraggio, ma solo perché la parete richiedeva l'uso di quei mezzi che egli aveva sempre rifiutato, a decretare la “supremazia” della scuola orientale. Ma torniamo a Chabod: egli - alpinista “per diletto”, avvocato di professione e inoltre pittore e scrittore che ne “La cima di Entrelor” spiega di essersi dedicato alle arti figurative proprio in seguito al riposo al quale fu costretto a causa dei congelamenti subiti sulla Nord delle Grandes Jorasses - è intelligentissimo, sottile, spiritoso, decisamente in grado di sdrammatizzare ogni situazione (l'ombra di Mummery aleggia...) e, di fronte alla “nera sfinge dai due volti”, qualche volta si trova ancora, come Young e Knubel, in una posizione di estrema soggezione: «Pur tentando la parete - spiega - e ritenendola perfettamente arrampicabile, io nutrivo per essa una specie di timore reverenziale, la consideravo come qualcosa di diabolico, quasi vi fosse sotto qualche stregoneria». Ed egli era talmente convinto di ciò che riuscì a far sentire la maligna influenza di tali idee (a causa delle quali si lasciò forse sfuggire l'agognata prima salita) all'amico Gervasutti che, quando nel 1938 decide di intraprendere un energico tentativo allo sperone Walker e subisce un secondo smacco, analogo a quello del 1935, non può fare a meno di commentare: «Anche stavolta la partita è perduta. Ma la colpa è mia o perlomeno dell'influenza dell'ambiente in cui ho conosciuto le Grandes Jorasses. Troppi tentennamenti, troppe pretese di tempo ultrastabile e di condizioni perfette mi hanno fatto rimandare di anno in anno un attacco deciso. Logico quindi che una cordata senza pregiudizi ambientali come quella di Cassin, e naturalmente della sua forza, dovesse essersi decisa al primo incontro. D'altronde gli stessi risultati avevo ottenuto io in Delfinato, su montagne a me prima ignote». Così il grande Giusto Gervasutti - che pure aveva portato
nuova linfa negli statici ambienti occidentali e con il quale la
distinzione fra “orientalisti” e “occidentalisti” cessa parzialmente di
esistere - subisce a sua volta il peso di una cultura particolare che
personaggi come Peters o Cassin non percepiscono neppure. Egli, “il
Michelangelo dell'alpinismo”, è sensibilissimo alle più piccole vibrazioni
della realtà che lo circonda, ai più sottili moti del proprio animo e si
lascia, in questo modo, travolgere dall'“Io” e nell'“Io”, dal desiderio
apparentemente paradossale di chiudersi in se stesso per giungere alla
contemplazione dell'infinito. Con lui - “sconfitto” due volte sulla Nord
Jorasses sempre affrontata, comunque, senza l'oppressione di
sovrastrutture ideologiche di stampo nazionalista ma solo scorgendovi una
meta provvisoriamente agognata e poi raggiunta (e quindi superata) con un
senso di amarezza per il sogno diventato realtà - l'alpinismo si manifesta
quale meravigliosa serie di creazioni soggettive dettate dalla fantasia e,
quindi, nel tramutare in azione superbe idee quali l'ascensione al Pic
Gugliermina lungo la parete Sud-Ovest (con Gabriele Boccalatte, 1938), al
Monte Bianco per il Pilone di destra del Frêney (con il giovane Paolo
Bollini, 1940) e, infine, alla punta Walker delle Grandes Jorasses
superando la straordinaria, monolitica parete Est: un'impresa, questa, che
tanto per grandiosità di concezione quanto per abilità intuitiva e
tecnica, è da considerare un autentico capolavoro (compiuta con l'amico
Giuseppe Gagliardone, 1942). Leggiamo: «Questa in breve la storia di quest'uomo (Gervasutti ovviamente, ndr), uno dei più grandi di tutto l'alpinismo. Ma vi sono forse grandi e meno grandi? O forse chiunque di noi non è Gervasutti, Cristo, Buddha? Non abbiamo forse paura di riconoscere il tutto in noi, e per questo proiettiamo all'esterno in immagini illusorie ciò che è in noi?». E ancora (dall'introduzione), ecco un autentico sfogo che lega impercettibilmente vita ed alpinismo: «Vi è come una sorta di illusione, un omerico canto delle sirene che attrae ed incanta, invitando a provare. Il canto sembra dire: vieni dunque, accetta di nascere e vivere in Terra. Forse l'inizio non è male (ma non per tutti), poi si corre senza sosta verso quella meta promessa, verso una vetta intravista da lontano e sognata per sempre. Ma purtroppo la vetta che si crede di raggiungere non è mai tale e a poco a poco subentra l'amara delusione e la rassegnazione allo stanco ritorno verso la porta di entrata. E' vero, vi è anche chi capisce per tempo l'inganno, e stanco e disgustato di propria volontà cerca tragicamente di ritornare da dove è venuto». E tali crude parole, lucidissime e rassegnate, appaiono ancora più significative e terribili pensando all'ultimo drammatico gesto di colui che le concepì. Le riflessioni di Gervasutti giunto in vetta alle Grandes Jorasses vincendo la finalmente “sua” parete Est sono riprese in sintesi da Motti nella stessa introduzione, poche pagine dopo il passo appena citato. Ma l'apparente eroismo di colui che, appena portato a termine il suo capolavoro, sostiene che «ogni meta raggiunta scompare per lasciare il posto ad un'altra più ardua e più lontana» (e lo studioso-alpinista pare voler sottolineare questa affermazione), si offusca davanti alla mirabile, pacata ed ampia riflessione con la quale lo stesso Gervasutti chiude “Scalate nelle Alpi”; viene dimenticato davanti all'immagine di amico sincero che il buon Chabod ci presenta del “nostro caro e grande Fortissimo” e si scioglie definitivamente di fronte alla «passione ardente per gli orizzonti senza fine, per i ghiacciai immensi, stretti tra le possenti braccia di montagne misteriose e maliarde» sulle quali vivere esperienze particolari che, talvolta, possono essere simili ad una “favola per piccini”. E tra le montagne, più di tutte, è un sogno rimasto tale, il Fitz Roy, ad essere «simbolo di questa mia passione: un simbolo d'amore, poiché il desiderio che non si esaurisce nella conquista - insegna Giusto Gervasutti, “Il Fortissimo” - ha nome “amore”».
Razionalità ed impeto: Jean Couzy e René Desmaison Prima di approfondire la conoscenza dell'ultima delle nostre “tre storiche cordate alle prese con la parete Nord delle Grandes Jorasses” è opportuno, se non addirittura necessario, premettere una breve considerazione riguardo lo sviluppo dell'alpinismo francese dal primo dopoguerra agli anni Cinquanta, durante i quali Jean Couzy (1923-1958) e René Desmaison (1930, vivente) realizzarono, inseparabili, le loro imprese, alcune delle quali sono da annoverarsi - sia per il valore intrinseco sia per il particolare ruolo che assumono nel contesto storico - fra le maggiormente rilevanti che l'alpinismo ricordi. Fu ancora una volta “Il Principe”, ossia Gian Piero Motti, ad affermare che durante il primo dopoguerra, mentre l'Italia e la Germania «scivolarono a poco a poco in regimi dittatoriali e quindi si espressero in alpinismo con manifestazioni spinte all'individualismo eroico ed ascetico, i francesi, forti della loro struttura democratica, invece dettero corpo ad un alpinismo di gruppo e di équipe, in cui più che l'individuo isolato, si poteva distinguere “la cordata”», composta da elementi i quali, tanto per forza d'azione quanto per capacità creativa, si equivalevano. E se fra gli anni Venti e Trenta sono protagonisti di imprese assolutamente rilevanti, quando non addirittura eccezionali, personaggi quali Henry de Ségogne con Pierre Dalloz e Jacques Lagarde, e poi Pierre Allain con l'inseparabile Raymond Leininger, anche nei decenni successivi (durante i quali, per contrasto, negli ambienti austro-tedesco e italiano si sviluppa prepotentemente l'alpinismo solitario) molte delle grandi realizzazioni dell'alpinismo francese appaiono come il risultato della cooperazione attiva e continua di personalità del calibro di Lionel Terray e Louis Lachenal (le celebri “Locomotive”). In questo contesto si inseriscono con grinta, pochi anni dopo, Jean Couzy e René Desmaison i quali, come vedremo, pur caratterialmente diversissimi, riuscirono a stabilire un legame che si potrebbe definire, come in pochi altri casi, “fraterno”. Couzy, che soprattutto con Marcel Schatz (conosciuto a Fontainebleau) già prima del 1950 aveva compiuto salite alpine di grandissimo impegno spaziando dalle Dolomiti al Monte Bianco e al Delfinato (via Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo, via Soldà alla Marmolada, via Cassin sullo sperone Walker, via Gervasutti all'Ailefroide), proprio in quell'anno partecipa alla spedizione francese all'Annapurna ma solo nel 1955, con la prima ascensione di un altro Ottomila, il Makalu, trova la sua più brillante affermazione himalayana. Suo compagno in quell'occasione fu Lionel Terray che, nella sua autobiografia il titolo della quale è diventato una sorta di slogan per generazioni di alpinisti: “Les conquérants de l'inutile” (“I conquistatori dell'inutile”, 1961), ci presenta un efficace ritratto di colui che fu probabilmente la mente più acuta che l'alpinismo abbia mai avuto. Scrive Terray: «Couzy ha conosciuto una vita eccezionale, ma, al contrario di quanto avrebbero potuto far presagire le sue straordinarie capacità intellettuali, non sarebbe arrivato sugli apici per l'oscura e misteriosa via di studio e lavoro che porta alle vette del pensiero matematico, ma per la rude e soleggiata strada che passa per le più grandi montagne del mondo. Quando, nel novembre 1958, la caduta di una pietra (nel suo caso incredibile ed inverosimile fatalità!, ndr) mise fine alla sua vita, Couzy aveva dietro di sé una delle più grandiose carriere d'alpinista di tutti i tempi. Uomo ponderato, tranquillo e preciso, era un intellettuale dalla vasta cultura, appassionato tanto della metafisica e delle arti quanto della cultura scientifica». Virtuoso dell'arrampicata su roccia, «entra nel numero dei migliori in senso assoluto per la sua attività di creatore di vie e di nuovi problemi. In questo modo, insieme al suo inseparabile compagno René Desmaison, è divenuto l'ultimo dei grandi conquistatori delle Alpi». Anche Maurice Herzog, in “Annapurna premier 8000” (“Annapurna primo Ottomila”, tradotto in italiano con il titolo “Uomini sull'Annapurna”), elogia «il beniamino della spedizione, brillante ingegnere aeronautico, silenzioso e dallo sguardo lontano, perduto nelle sue equazioni» e riporta, poche righe dopo, un divertente e tuttavia importante aneddoto in cui, durante una complessa discussione «sull'arte e il modo di calcolare la difficoltà della scalata», il giovane Jean mostra allo stesso Herzog un grafico cartesiano. Ed anche se lo scettico Maurice, di fronte alla trionfante affermazione: «E' la parete Nord dei Drus, tutto è spiegato!», appare poco convinto e chiede cosa succeda «se la tempesta arriva nel bel mezzo della scalata», egli non si perde d'animo e si affretta a chiarire: «Evidentemente, ma... Ebbene, cambia il grafico!». Ed ha ragione Marcel Schatz a sostenere che «Jean era un puro, era là il segreto del suo comportamento. In montagna, davanti al pericolo, nessuna paura psichica lo ha mai scosso: si muoveva sempre come aveva deciso di muoversi, dopo aver calcolato ogni conseguenza e, senza dubbio, questo è anche il segreto di tutta la sua vita» durante la quale, come nessun altro, riuscì a coniugare un'attività alpinistica di eccezionale livello con la vita sociale e la famiglia. Freddo, lucido, padrone assoluto di se stesso e di mentalità apertissima, fu il primo francese a ripetere - studiando in maniera analitica e matematica, come abbiamo visto, ogni possibile rischio - vie dolomitiche di sesto grado superiore. E se per lui l'alpinismo non fu mai esclusivamente azione, è difficilmente quantificabile il contributo che egli seppe fornire alla disciplina - oltre che con una minuziosa attività di ricerca e soluzione di itinerari che agli occhi degli alpinisti delle generazioni precedenti erano rimasti “nascosti” - anche con i suoi innumerevoli e brillanti studi. Poliglotta, esperto di storia dell'alpinismo, fu per anni redattore della rivista “Alpinisme”, organo del Ghm (Groupe de Haute Montagne, ndr), e seppe dare alla pubblicazione un tono ed un respiro che non ha più raggiunto in seguito. Nel 1955, poco prima di partire per il Makalu, sui dirupi del Saussois incontra René Desmaison e immediatamente gli propone di tentare insieme, al suo ritorno, la parete Ovest dei Drus: così, il 23 luglio dello stesso anno, la cordata attacca e supera - per utilizzare la definizione di Giusto Gervasutti - il “disperato urlo pietrificato”. Ma durante la stagione estiva la Via dei francesi era già stata ripetuta più volte ed allora, nel 1957, ecco i due amici percorrere lo stesso itinerario durante l'inverno ed avviare così, dopo le imprese di Hermann Buhl e Kuno Rainer sulla Marmolada (via Soldà, 1950) e di Bonatti e Mauri sulla Cima Ovest di Lavaredo (via Cassin, 1953), la serie di ascensioni invernali lungo le vie più difficili delle Alpi occidentali. Ancora, nel luglio 1956, Jean e René vincono lo spigolo nord dell'Aiguille Noire de Peutérey e, solamente pochi giorni dopo, risolvono un problema che, già intuito da Giusto Gervasutti e da Lucien Devies nel 1934, era rimasto tuttavia insoluto: la diretta sulla parete Nord-Ovest dell'Olan (la via di Gervasutti e Devies, comunque logica ed elegante, supera la parete nel suo settore destro) in seguito giudicata come una delle scalate più ardue - “d'une envergure exceptionnelle”, direbbero i francesi - delle Alpi. Dopo la tragica scomparsa di Couzy, che lo segnò profondamente, Desmaison si lanciò in una serie di imprese assolutamente stupefacenti, dimostrando di essere alpinista completo su ogni terreno - calcare, granito, misto, ghiaccio - e, pur poco convinti del fatto che un elenco di ascensioni sia in grado di illustrare compiutamente la personalità di uno scalatore, non possiamo evitare di menzionare, oltre a quelle già presentate, alcune sue importanti realizzazioni per le quali, analogamente a Bonatti (e come lui spesso toccato da polemiche assurde), egli si è imposto all'attenzione dell'opinione pubblica, divenendo un autentico - e riportiamo il titolo del terzo dei suoi libri - “Professionista del vuoto”. E sia perché, come ha affermato Gian Piero Motti a metà degli anni Settanta, “dal punto di vista dell'attività alpinistica pura, Desmaison forse non ha rivali in tutta Europa”, sia per delineare i caratteri di una fase della storia dell'alpinismo (caratterizzata dalle grandi prime invernali e dal trionfo dell'artificialismo) attraverso le imprese di uno dei suoi protagonisti, ricordiamo la direttissima aperta sulla Nord della Cima Ovest di Lavaredo (con Pierre Mazeaud, 1959), la prima invernale della via Gervasutti all'Olan (con Audibert, Payot e Puiseux, 1960), la vittoria sul Pilone centrale del Frêney (con Julien, Piussi, Pollet-Villard, Bonington, Clough, Duglosz e Whillans, 1961), la prima ascensione dello Jannu (montagna himalayana di 7710 m, spedizione guidata da Lionel Terray, 1962), la seconda invernale dello sperone Walker, pochi giorni dopo la prima di Bonatti e Zappelli (con Jacques Batkin “Farine”, 1963), la prima solitaria della via Magnone sulla Ovest dei Drus (1965), la prima invernale al Pilone centrale del Frêney (con Robert Flematty, 1967), il “Linceul” sulla Nord delle Grandes Jorasses (prima ascensione, ancora con Flematty, 17-25 gennaio 1968), la prima solitaria della cresta di Peutérey integrale (1972) e, infine, l'allucinante nuova via sul versante Nord-Est dello sperone Walker (con Giorgio Bertone e Michel Claret, 10-17 gennaio 1973) dopo il tragico tentativo (11-25 febbraio 1971) che costò la vita al giovane Serge Gousseault e che Desmaison ricostruì in “342 heures dans les Grandes Jorasses” (“342 ore sulle Grandes Jorasses”, 1973): un racconto autobiografico dal quale la personalità del tenace René, “ultimo impetuoso gladiatore e re di Francia delle montagne”, scaturisce sincera e prepotente. Le “342 ore”, mentre costituiscono un ineguagliabile record di sopravvivenza, rappresentano anche il vero limite estremo a cui si è spinto l'alpinismo classico sul Monte Bianco, prima dell'intervento dell'elicottero. Ma il lottatore Desmaison - “bleausard” e capriccioso, indomabile e polemico, uomo dalle qualità fisiche assolutamente fuori dal comune - non si è mai limitato alle grandi salite d'alta quota: sempre all'avanguardia nel campo tecnico (basti pensare alla via sulla Ovest di Lavaredo) ed amante della scalata pura, sulle Prealpi francesi ha aperto un numero impressionante di vie estremamente difficili e complesse, compiendo un'opera di autentica e sistematica esplorazione. Egli, a differenza di alcuni (Bonatti), non ha mai rifiutato l'uso dei chiodi ad espansione ma, a differenza di altri (Maestri), ricercava sempre i passaggi “più logici e normali” e le acrobazie più raffinate per riuscire a passare senza ricorrere alla foratura della roccia. Guida alpina ed istruttore, non accettò mai i rigidi e vuoti canoni che caratterizzavano gran parte dell'ambiente alpinistico francese di quegli anni e, in perenne attrito con i colleghi di Chamonix fra i quali dobbiamo ricordare il venerando ed austero Armand Charlet, il nostro protagonista giunse alla clamorosa ed irreparabile rottura («Desmaison è un estraneo. Vada a cercarsi altrove compagni di cordata», affermarono alcune guide) in seguito alla sua partecipazione “non autorizzata” ed “esibizionista” al salvataggio, nell'agosto 1966, di due tedeschi bloccati sulla Ovest dei Drus quando, fra l'altro, egli collaborò con l'eccezionale arrampicatore americano Gary Hemming. E proprio a questo contraddittorio, scapigliato e comunque affascinante personaggio, scomparso in circostanze tristi e un po' misteriose, egli ha dedicato un commosso capitolo del suo libro “La montagne à mains nues” (“La montagna a mani nude”, 1971). Emanuele Cassarà sostiene che «a uomini come René Desmaison dobbiamo davvero essere grati. Per l'impagabile messaggio di ottimismo, di volontà, di gioia di vivere che ci trasmettono». Il giornalista non riesce «a immaginare un'altra attività umana intensa, entusiasmante, pericolosa, straripante di emozioni come l'antico alpinismo estremo di Desmaison»: quest'uomo «così fiducioso, energico e generoso da essere capace di trasmettere a chi lo ascolta questa sua carica» ancora oggi, a quasi settant'anni di età, come allora, all'epoca delle grandi prime. Egli, oggi come ieri, è sempre stato sincero, terribilmente sincero e, pur lontano dalle analisi e dalle sottili disquisizioni filosofiche legate all'alpinismo, ha sempre espresso con chiarezza le proprie opinioni, conservando una mentalità estremamente aperta che lo ha portato ad eccellere, come abbiamo visto, su ogni genere di montagna. Desmaison amava molto le Dolomiti - tanto che non esitò a canzonare (e riaffiora un'antica polemica...) quegli «scalatori decisi a tutto, venuti dalle lontane Alpi occidentali» che, giunti alla base di quelle strapiombanti muraglie, rimanevano lì, «piegati in due da atroci mal di ventre, certo dovuti a qualche salame o a quelle sardine che avevano mangiato al rifugio, strombazzando le loro prodezze sulle Grandes Jorasses, sui Drus e altrove» - e questa passione per i Monti pallidi gli era stata trasmessa dall'indimenticabile Couzy il quale, per «il rispetto che nutriva per quelle rocce calcaree - spiega René - mi aveva incoraggiato a dedicare una parte delle mie vacanze alle Alpi orientali». Così, e facciamo un balzo indietro nel tempo, nell'agosto del 1957 i due amici sono ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo e, brillantemente, attaccano e superano la via Cassin alla Piccolissima, lo Spigolo Giallo e, infine, la Cassin alla Cima Ovest. Raggiunto il gruppo di Brenta compiono la quarta ascensione del diedro Oggioni sulla Brenta Alta e, ormai allenatissimi, si dirigono di nuovo verso il Monte Bianco dove, se i lecchesi Vittorio Ratti e Gigi Vitali, nel 1939, temprati dalle esperienze su roccia calcarea riuscirono a tracciare la prima via sulla parete Ovest dell'Aiguille Noire, loro ne aprono, sulla stessa parete, una nuova, diretta ed estremamente problematica. Ed è proprio in occasione di questa salita che un'idea, un pensiero non più vago, si presenta alla nostra cordata ormai chiaramente. In quell'attesa silenziosa e serena alla base della temutissima Ovest, di fronte all'aspetto ostile e minaccioso che la possente guglia assume al calare del sole, è un inviolato e sinuoso spigolo granitico, che emerge tormentato da un'informe e sconvolta massa di ghiaccio come da gelida e grezza materia primordiale, ad affacciarsi alla mente e a presentarsi, tentatore, nella sua autentica identità: lo sperone Margherita delle Grandes Jorasses, terza misteriosa creatura dai poteri soprannaturali e “trasformata in roccia”, quasi muta ed invisibile agli occhi degli uomini fino a quella notte, ha lanciato a Jean Couzy e al suo compagno, attenti e metodici ricercatori in perenne ascolto delle più impercettibili voci, il suo irresistibile richiamo e - anche se il personaggio Desmaison richiama oggi, più che la prima ascensione di questa “piccola sfinge”, la tragedia vissuta lottando con la più possente delle due “gemelle” - la salita dello sperone Margherita, compiuta tra il 5 e il 6 agosto 1958, esattamente vent'anni dopo il successo di Cassin e compagni sulla Walker, ci porta in un clima di contemplazione poetica assolutamente particolare e difficilmente riscontrabile in altre imprese alpinistiche di analoga portata. Il “nucleo” della scalata (comunque proibitiva, tanto che fu ripetuta per la prima volta solamente nel 1975 da Giorgio Bertone e Lorenzino Cosson) non risiede tanto nell'elemento tecnico-alpinistico, quanto nei pensieri che il bivacco notturno, a soli cinquanta metri dalla vetta, genera negli animi dei due amici e compagni che - se durante il giorno, esposti alla caduta delle pietre, sospesi sul vuoto in delicato e precario equilibrio sulle punte dei ramponi, ricercavano disperatamente un ancoraggio, un appoggio sulla parete ghiacciata - solamente nel silenzio della notte, quali creature dai caratteri diversi e forse opposti, eppure ugualmente mosse dallo stesso desiderio, tese verso la medesima meta ora immersa nell'aria pungente e rarefatta delle alte quote nella quale la luce lunare si diffonde pura ed incorruttibile, riflettono pacatamente. Il rapporto dialettico fra pensiero e azione, il dinamismo continuo fra “razionalità ed impeto” che costituisce uno dei caratteri profondi e peculiari dell'alpinismo - e, forse, proprio per questa ragione Jean e René formavano una cordata irresistibile ed affiatatissima - si scioglie in uno spazio temporale indefinito, si trasforma mirabilmente in un trionfo di forme e moti, di colori e luci, di sensazioni che mantengono la propria misteriosa ineffabilità. Il destino del misero uomo, che nasce agonizzante in un clima di fissità tragicamente solenne, quale vittima innocente predestinata al sacrificio, è travolto e sgominato dalla consapevolezza di essere “docile fibra dell'Universo” perennemente sospesa (in senso materiale ed escatologico) fra il “già” e il “non ancora”, mentre il caos frenetico e banale che rende insensibile l'animo è cancellato, pur non definitivamente, da quel trovarsi calati in una dimensione particolare ed unica che scaturisce dimessa, serena e granitica tanto dall'infinito spazio cosmico quanto dalle incommensurabili profondità dello spirito. Allora la “conoscenza”, solamente intuita per qualche brevissimo istante, si manifesta in parole commosse e colme di gratitudine, poetiche e sincere, mentre l'esclamazione imperiosa di chi appare stupefatto di fronte a tanta grandezza si diffonde in ogni angolo del Creato. E se l'alpinismo, come «ogni grande passione, quando viene ripensata», prende «l'aspetto di un sogno, perché la realtà è fatta di cose più grandi ed importanti» (Giorgio Anghileri), è proprio la sua dimensione onirica a porre questo aspetto “totalizzante” dell'arte di “vagare in ricerca” entro un quadro di superiore intangibilità. In un'illusione di raggiunta pienezza, René Desmaison non può fare a meno di sciogliere il suo canto, perché «il fresco della notte e il chiaro di luna fanno aprire gli occhi. Lo spettacolo è magnifico: il plenilunio illumina di luce fredda le montagne che ci circondano. I ghiacciai sembrano specchi immensi che rinviano mille sprazzi argentati. “Dormi, Jean?”. “No, mi ha svegliato la luna”. “Siamo fortunati a trovarci qui in una notte così...”. “Credi che la notte sarebbe altrettanto bella se ci trovassimo al rifugio giù a valle?”. No, per noi non sarebbe la stessa cosa. Legati alla parete, finiamo con l'integrarci nel paesaggio, diventiamo anche noi una particella di natura. Non la stiamo subendo, questa notte, la viviamo minuto per minuto. Partecipiamo al suo lento trascorrere» fino a quando, il giorno dopo, «dobbiamo pur muoverci di lì». E poi, ad un tratto, ecco uno squarcio fra le nubi e, «lontana lontana, sotto i nostri piedi, la val Ferret, l'Italia. Abbiamo vinto. Ci stringiamo la mano. E' un gesto banale, ma per noi ha un significato: sottolinea una nuova vittoria e ci ricorda tutte quelle passate. Più tardi, sul ghiacciaio, oltre gli ultimi crepacci, ci sleghiamo. E' là, ai piedi della grande parete, che la nostra cordata doveva sciogliersi per sempre». Pochi mesi dopo, il 3 novembre 1958, René apprende «l'atroce notizia: Jean è morto ieri, sulla Crête des Bergers»: lui, proprio lui che si era rifiutato di affrontare la Nord dell'Eiger perché riteneva quella scalata un autentico azzardo, un gioco inutile con la vita, è stato ucciso da una scarica di sassi.
Epilogo In questa trattazione abbiamo incontrato figure non comuni, personaggi i quali sono stati in grado di tracciare percorsi che, pur meravigliosamente individuali, tuttavia si riuniscono e si intersecano in un unico ordine di idee che rifiuta la retorica, ossia “l'esprimersi vuoto di senso” (A.Gogna). I nostri protagonisti - Young e Knubel, Chabod e Gervasutti, Couzy e Desmaison - animati dalla capacità di stupirsi, da una fantasia talvolta burlona e più spesso inquieta, da uno spirito appassionato e sincero, dall'intelligenza e dalla determinazione, ci hanno introdotti in un mistero che, se con loro si esprime nel rapporto particolare Uomo-Montagna, investe improvvisamente la totalità, ogni aspetto del reale, e la parete Nord delle Grandes Jorasses, questo mito nella storia dell'alpinismo, diventa sublime teatro naturale nel quale le tre cordate trovano la possibilità di ricercare e di scorgere, ogni volta, qualcosa di nuovo, di ignoto. L'imbalsamata ed ammuffita “lotta con l'Alpe”, o ancora la degenerazione di quelle forme “alternative” che, anche se negli ultimi anni hanno sicuramente rinnovato il mondo alpinistico non sono mai state in grado tuttavia di significare, attraverso l'esperienza artistica o letteraria, la grandezza di un mito, ed hanno ridotto la montagna e l'arrampicata a semplice prodotto commerciale, vengono disgregate dalla percezione dell'immensità che ci atterrisce e che, ha chiarito Kant, solo sul piano individuale-morale acquista il suo vero significato perché, come spiega ancora Franco Brevini, docente universitario di letteratura moderna e contemporanea, «il nuovo e l'ignoto non sono nelle cose: sono nello sguardo. Ogni alpinista sa che sulla cima sarà atteso dalla scoperta descritta in un racconto di Novalis: il protagonista, che, alla ricerca di un senso, ha lungamente esplorato la natura e i suoi bizzarri geroglifici, quando giunge finalmente a sollevare il fatidico velo che cela l'ultimo segreto, scopre l'immagine di se stesso» e, scoprendo se stesso, vede l'umanità intera in una prospettiva nuova “ritrovando” - ed è qui l'autentico senso della “cordata” - i compagni di tante avventure. E inoltre, se colui che si “ritrova” non è semplicemente un compagno ma una sorta di “fratello maggiore” «a cui - per usare le parole di Gaston Rébuffat - si guarda con amore e rispetto, che sorveglia il modo in cui ci si lega e che ha per noi premure quasi materne», la scoperta sarà ancora più straordinaria e sconvolgente perché, mai potremo dimenticarlo, «l'amicizia di una persona così ricca non si compera».
| |
<1999> | |
Carlo Caccia
| |
----------------------------------------------------------------------------------------------------
| |
| |
copyright© 2002 intra i sass
all rights reserved - http://www.intraisass.it