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special
REPORTage MeXicano
Novembre 2004
Testo e foto di Carlos Solito
Alma de Mexico
L'ANIMA DEL MESSICO

Dalle finestre aperte
sull’ombra della selva rimbalzano tra i muri strepiti di bimbi e
cantilene di madri appena tornate dai campi di caffè o di mais.
Coltivazioni abbarbicate su angoli lontani di una quinta di montagne
dalle giogaie vertiginose che, a volte, precipitano in canyon mai avari
di fiumi, cascate e rapide, e altre volte, lambiscono dolci vallate
mascherate dal fitto impenetrabile della foresta vergine, custode delle
rovine di incantevoli palazzi e templi della nobile cultura Maya. Una
cultura che qui, sugli altos, gli altipiani del Chiapas, vanta ancora
gli “ultimi fedeli” tra le piccole comunità di Tzeltales, Tojolabales,
Choles e Tzotziles. Una cultura che anche se trincerata in piccole oasi
etniche tiene vivo l’orgoglio delle proprie radici, scandendo la
quotidianità attraverso un complesso sistema di valori religiosi e
sociali che si stemperano tra cerimonie e tradizioni vivacizzate dagli
huipiles, gli splendidi vestiti femminili colorati da ricami segreti.
Strofe di blu, rossi, bianchi, neri, gialli che si intrecciano su abiti
dalle geometrie di croci, animali e losanghe cariche di significato per
chi li crea e chi li indossa. Un significato che oltre a identificare
l’appartenenza alla comunità di un villaggio esprime nel suo apparente
astrattismo, una sorta di codice segreto che ha permesso il perpetuare
dell’antica religione in maniera muta, nonostante l’inquisizione
spagnola. E’ affascinante il Chiapas degli ultimi Maya, l’ho scoperto
passeggiando nel pittoresco mercato di San Juan Chamula: qui campeggia
la policroma chiesa di San Giovanni Battista. E ancora più suggestivo è
scoprire la magia di questo angolo più meridionale del Messico, verde,
tutto verde di quella selva che nasconde il subcomandante Marcos e i
guerriglieri zapatisti, eroi di una “rivoluzione impossibile” o
interlocutori politici nella difesa della cultura, dei diritti e
dell’autonomia degli Indios. Mi sono inebriato di copal – l’incenso dei
Maya - in questa alcova di rituali Maya e cerimonie cattoliche officiate
dal curandero: Il guaritore. Ho riempito il mio sguardo con i colori di
gigli, crisantemi, rose e gladioli che ingentiliscono ogni angolo del
villaggio Zinacantan, un paradiso in cui la primavera dura un anno e i
bambini hanno occhi scuri e profondi e il sorriso timido. Nella piazza
antistante la chiesa di San Lorenzo e tra le vie polverose ho acquistato
ghirlande di fiori e ho chiacchierato a lungo con Maria, una ragazza
poco più che ventenne, le cui mani conoscono da tempo l’arte, ereditata
dalla nonna, dell’antico telar de cinta – telaio a cintura precolombiano
– con cui realizza gli huipiles dai ricami fiorati. E nonostante i miei
pensieri fossero ancora concentrati sull’antico strumento, il profumo
delle tortillas cominciava a stuzzicare il mio olfatto. Di quelle con
crema ai fagioli ne ho mangiate a bizzeffe. E di altrettante ne ho fatto
bottino da sgranocchiare durante le tappe alle antiche città maya di
Palenque e Yaxchilan, nel cuore della selva Lacandona. Poco distante da
qui, lungo il fiume Usumacinta che segna il confine col Guatemala, si
può trovare dell’ottimo caffè biologico coltivato dalla piccola tribù di
Indios Lacandon. Lasciati i siti archeologici è arrivato il momento di
San Cristobal de las Casas, l’antica capitale del Chiapas la cui
ricchezza cromatica si misura dall’ocra della facciata barocca della
cattedrale alle tonalità esuberanti del mercato degli Indios, che
quotidianamente si anima davanti alla chiesa di Santo Domingo in un
brulicare di donne e bambini intenti nel vendere abiti, tessuti, frutta,
erbe medicinali, vasi e animalitos in terracotta.
Sinfonia di riti e colori l’ho vissuta anche a Oaxaca con le sue chiese
e i monasteri dell’ordine domenicano, autentici tesori architettonici
del barocco spagnolo e testimonianze dei secoli cari ai conquistadores.
E’ lo Zocalo il barattolo pieno zeppo di colori: oltre agli spettacoli
liberi di balli e musica tradizionale, la piazza ospita un esercito di
artesanias in grado di dare forma a qualsiasi materiale. Maschere di
antichi rituali magici in uso durante le danze folcloristiche, ceramiche
nere, giocattoli e sculture in legno di animali fantastici noti come le
alebrijes, fogli in latta variopinti, e i famosi tappeti di Teotitlan
del Valle che ricordano la civiltà Zapoteca con le vicine rovine di
Monte Alban, l’antica capitale. Vengono qui da ogni angolo dello stato,
addirittura dalla costa, dalla famosa Puerto Escondido incorniciata da
una teoria di playas su cui si avventa un Pacifico che ruggisce
continuamente con onde a prova di surfisti pronti a cavalcarle a ogni
tramonto.
Il Messico è un luogo che raduna in sé tutte le bellezze del mondo,
tutte le cromie che esso contiene con un odore, tutto suo, “che finché
porteremo addosso sapremo sempre chi siamo” mi ha ripetuto più volte Don
Domingo Jauregui Fernandez durante il mio soggiorno nel nord dello stato
del Veracruz. Mi sono spinto fino a qui attratto dal vociferare
dell’esistenza di una colonia di origine italiana fondata alla fine del
1800. Manuel Gonzales sono poche case dalle tinte vivaci attorniate da
campi di caffè e canna da zucchero. Quella di Don Domingo è poco fuori
l’abitato, quasi sulla sommità di una collina: tutta in legno. Una
grande stanza presenta una sequela di foto ingiallite interrotte, in
prossimità dei letti, da sacre immagini di Gesù o della Madonna, alle
quali ogni componente della famiglia si rivolge prima di andare a
dormire. Seguono un'altra stanza che ospita dei letti e poi una cucina
buia illuminata in un angolo da una fiamma che avvolge una pentola
fumante. A preparare il pasto c’è la signora Angela Fernandez Demuner,
la madre di Don Domingo: “Te gusta una tortilla con queso senor?”. “Con
mucho gusto!” le rispondo mentre me la porge tra le mani ripiena di
formaggio e pomodoro fresco. Nella famiglia di Don Domingo tutti si
danno un gran da fare per ottimizzare la produzione dell’azienda che
vanta estesi campi di caffè e canna da zucchero. Qui nella Colonia
Manuel Gonzales sono tanti i discendenti degli italiani. Fortino Della
Vecchia Pitoll è un dipendente di Don Domingo, ma soprattutto è un
grande amico con cui incontrarsi dopo il lavoro allo storico bar La
Central per chiacchierare spassionatamente, bere cerveza, tequila e
ridere col proprietario Abel Mejia. “Messico… fiorito e spinoso, secco e
solcato dagli uragani, violento di eruzioni e di colori…, l’ultimo Paese
magico; magico di antichità e di storia, magico di musica e di
geografia”. Sono parole scritte dal poeta cileno Pablo Neruda, parole
che esprimono tutto il paradosso paesaggistico e sociale del paese.
Contraddizioni in grado di partorire sincretismi religiosi, politici,
artistici e culturali che fanno del Messico un paese “così lontano da
Dio e così vicino agli Stati Uniti”, come diceva il dittatore Porfirio
Diaz. Differenze che trovano l’espressione più tipica ne El Monstruo, il
Mostro: Città del Messico. Dominata dalla piramide del vulcano del
Popocatépetl, familiarmente detto El Popo, oggi è una megalopoli con
oltre 20 milioni di abitanti e osservandola dal finestrino dell’aereo mi
sono tornate in mente le parole dell’astuto conquistador Hernan Corstés
– scritte ne La conquista del Messico - quando lanciò per la prima volta
lo sguardo sulla fiabesca capitale azteca Tenochtitlan, “la Venezia
delle Indie Occidentali”, il regno del dio-sovrano Montezuma: “La città
è grandissima e così straordinaria che, nonostante le molte cose che
potrei dire, le poche che racconterò risulteranno incredibili”. Le
chilometriche avenidas di questa città sconfinata, immensa, infinita,
confluiscono verso il centro, verso il cuore, nello Zocalo, nella plaza
de la Constitucion una delle più grandi al mondo su cui svetta il
profilo barocco della Catedral Metropolitana. Qui, dall’alba a tarda
sera, ci sono proprio tutti: dai venditori ambulanti agli artigiani, dai
ballerini di break dance ai più scenografici danzatori in abiti aztechi
che vicino al templo Mayor ballano ininterrottamente facendo echeggiare
las conchas – le conchiglie – legate alle caviglie; e ancora, suonatori,
burocrati e politici diretti al Palacio Nacional, luogo in cui è
conservata una delle testimonianze più importanti del muralismo politico
messicano, firmata da Diego Rivera. Non mancano manifestanti con
striscioni e bandiere, mimi e mariachis. Questi ultimi, però, quando si
avvicina la sera si dirigono verso piazza Garibaldi per dedicare a
coppie di innamorati languide canzoni d’amore. Tutto questo è il Messico
che ho visto, contemplato e vissuto, ma sopratutto il Messico che ho
voluto raccontare: un immenso “corno dell’abbondanza” in continua
mutazione sullo sfondo di credenze, suoni, colori, e uomini ancora
suscettibili di salvataggio.
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