Alcuni anni fa Andrea di
Bari, in un bell'articolo sulla Rivista della montagna, lamentava
l'assenza di una vera cultura dell'alpinismo e dell'arrampicata. Le cose
non sono certo migliorate: i cosiddetti “esperti” del settore,
giornalisti, direttori editoriali, enti organizzatori di festival e
convegni, sembrano essere colti da una paralisi creativa preoccupante,
osando sempre meno, uniformandosi al gusto corrente che antepone la
facile spettacolarità alla fantasia e alla vera esplorazione (delle
montagne e non solo). Oltre le vette, rassegna bellunese giunta
ormai all'ottava edizione, sembra essere una delle poche isole felici.
Per due settimane alpinisti e scrittori, ma anche attori, musicisti,
pittori… ci ricordano che le montagne, oltre ad essere il nostro amato
terreno di gioco, sono parte profonda della nostra cultura. E che sono
mille i modi per viverle e raccontarle.
Agli antipodi dei viaggi
organizzati “usa e getta” Giuseppe Cederna nello spettacolo
teatrale Il Grande viaggio tratto dall'omonimo libro, ci conduce,
in un viaggio “portato nelle gambe”, in uno dei pellegrinaggi più sacri
dell'India. Ed è importante che le tappe più significative siano state
percorse a piedi, ricalcando le orme stampate sul sentiero dai
pellegrini precedenti. “Passo dopo passo, la mente si accorda con il
respiro e distende i pensieri”. I passi si intrecciano con mille storie,
dagli dei indù ai contadini che lottano contro le grandi dighe,
accompagnati dai colori e dagli odori dell'India. Giuseppe Cederna è
anche un alpinista: «E' giusto contrapporre l'alpinismo, spesso vista
come attività no-limit, al cammino come fonte di conoscenza ed
autocoscienza?» - domando. «No, dipende da come lo fai. Se sei un
“fissato”, se vedi solo l'appiglio, il gesto muscolare, allora sì, è
sterile. Ma può essere anche il contrario. Tempo fa sono andato ad
arrampicare dopo una notte insonne. Ero nervoso, non mi sentivo bene.
Arrampicare, concentrarsi sul movimento, sulla respirazione mi ha
calmato. Respira, sali, concentrati. Sono rientrato in equilibrio».
Alcuni riferimenti troppo personali presenti nel libro, come la morte
della carissima amica Paola, sono stati tolti. «Eppure la morte è molto
presente nello spettacolo. Però si ride. La gente ride, forse perché
anch'io mi diverto a recitare». Mauro Manzoni al sax, Roberto Cappelli
al sitar e alla chitarra, Nicola Negrini al contrabbasso hanno
accompagnato lo spettacolo. A chi non era presente a Belluno, l'invito a
leggere il libro è scontato.
Sabato 2 ottobre, presso
l'Auditorium Comunale si è tenuto il Seminario di studi Donne e
montagna. Quale legame fra le staffette partigiane, che dopo il 1943
hanno scelto di combattere accettando il rischio della morte o del campo
di sterminio, e le streghe e le eretiche che nel passato sono state
bruciate sulle piazze delle città delle Alpi? Michela Zucca, del
centro di ecologia alpina del Monte Bondone, ha tracciato la storia del
lungo e sotterraneo legame che lega le donne della montagna di ieri e
oggi: una storia di resistenza (resistir è il graffito trovato
nella prigione dove le ugonotte, accusate di eresia, hanno trascorso
fino a 60 anni di carcere senza mai pentirsi). La storia delle donne
nell'arco alpino è una storia di resistenza alla cristianizzazione e
alla civiltà urbana e romana. Le donne, custodi della antica religione
delle Dee-madri, officiavano i riti di fertilità, che la Chiesa ha
cercato di soffocare imponendo il culto della Madonna, madre per
eccellenza. La lotta delle donne si è espressa per secoli attraverso la
stregoneria e gli atti di “resistenza civile” per mantenere il controllo
del potere decisionale sulla procreazione. La resistenza delle
partigiane, o di quelle donne che, con rischi altrettanto gravi, hanno
dato rifugio ai “ribelli” in fuga dai tedeschi, non è nata quindi per
caso, ma è una pratica sotterranea che va avanti da secoli e che
continua ancora oggi.
E' una donna forte e determinata quella che le relatrici del convegno
Donne e Montagna, organizzato dall'Associazione Tina Merlin,
hanno presentato ad una sala gremita di ascoltatori : “eravamo in
guerra, e bisognava combattere”, racconta con grande semplicità una
vecchia combattente nel video presentato a fine incontro. Ed è difficile
non commuoversi ascoltando la testimonianza della partigiana piemontese
che ha dichiarato “guerra alla guerra”, scendendo nelle strade per
rapire ufficiali tedeschi o fascisti da usare come scambio con compagni
condannati a morte “per salvare più vite possibili”.
Sempre sabato alle 18, per
i Pomeriggi del libro Andrea Bocchiola ha presentato la
rivista on-line www.officinahce.it,
ovvero l'alpinismo come oggetto di speculazione filosofica. Il sito
vuole essere una sorta di laboratorio, un'officina appunto, in vista di
un prossimo libro: nei vari capitoli, aperti ai contributi di diversi
collaboratori (alcuni nomi prestigiosi come Alberto Paleari, Nives Meroi,
ecc.) si riflette su quella strana pratica nata dopo l'impresa di
Paccard e Balmat sul tetto d'Europa. Officina HCE, here comes
everybody, le montagne come luoghi di nessuno e potenzialmente
accessibili a tutti. Montagne come oggetto del desiderio, dove cercare
ossessivamente la nostra salita finale, quella con la S maiuscola,
appagamento conclusivo che non troveremo mai, e che ci condanna alla
maledizione della ripetizione. Come l'orizzonte, la nostra salita si
allontana più ci avviciniamo. Se siamo veri alpinisti il circuito
passionale non si interrompe mai e, nostro malgrado, ci conduce
inevitabilmente fuori di noi. «Nessun alpinista è in sé, quando scala,
ma è sempre “fuori”, lassù sulle montagne». Vero work in progress, il
sito presenta alcuni capitoli che devono ancora essere scritti, ma che
si preannunciano molto interessanti. Come Tracotanza e abisso,
dove riflettere sulla sfida al vuoto e alla morte, che una cattiva
letteratura vuole come compagna e motivazione profonda al nostro salire.
In realtà, sottolinea Bocchiola, si va in montagna per altro. L'idea
della sfida alla montagna rivela una contrapposizione io/mondo estranea
all'arrampicare. Quando scalo l'Io, e la conseguente volontà di potenza
che ne deriva, non mi servono, devo solo scalare e per farlo bene devo
annullare la distanza fra il soggetto e il mondo. L'Io non deve dominare
il mondo per riuscire a salire, bensì farsi guidare dalla trama e dal
ritmo delle cose. Ci aspettiamo grandi cose anche da Piacere e
Godimento, capitolo dedicato all'alpinismo come Teatro della
crudeltà. Se vi sembra solo un'assurda e sterile speculazione filosofica
pensateci quando uscirete barcollanti dalla prossima seduta di trave, o
vi troverete infreddoliti a una sosta mentre i sassi vi fischiano
intorno…
E per finire due grandi
incontri di alpinismo, che per brevità potremmo intitolare Manolo,
o la sobrietà della grandezza, Destivelle, o la libertà
delle grandi pareti.
Uno dei rischi più comuni
per lo spettatore delle serate di arrampicata è la noia e il senso di
dejà vu che inevitabilmente lo assale all'ennesima immagine del
bloccaggio su bidito strapiombante o della puntigliosa precisazione del
grado di difficoltà. E se gli alpinisti “classici” scelgono altre
immagini e altri linguaggi, spesso ci parlano solo di se stessi e del
loro desiderio di conquista (come ha più volte sottolineato Mauro
Corona). La scoperta e la meraviglia, la ricerca e la fantasia restano
sovente ai margini. Trenta anni di scalate “estreme” sono stati
raccontati da Manolo sabato 25 settembre in una serata direi
“essenziale”: in meno di un'ora il mago ha presentato i suoi
vagabondaggi sul verticale dove la spettacolarità di imprese ormai
leggendarie (appartengo a una generazione cresciuta col mito di
Supermatita e del Mattino dei maghi) era secondaria all'emozione della
scoperta, del mettersi in gioco, della avventura e della libertà. Le
ultime battute sono state riservate alla prima salita in libera di “Cani
morti” sulla parete nord del Campanile basso di Lastei. Un 8b+ /8a
obbligatorio , con una media di 3/4 spit per tiro. 300 metri per un
lungo viaggio appesi alle dita su una nascosta e selvaggia parete
dolomitica. In altre parole: ci sono spit e spit [... nx.d.r.]
Sabato 2 ottobre,
Catherine Destivelle: dalle gare di arrampicata degli anni ottanta
(l'ultima competizione è stata per lei nel 1990) alle grandi pareti Nord
delle Alpi. “Volevo diventare alpinista, e l'alpinismo è sulle grandi
pareti di misto”. E, aggiungiamo noi, in solitaria invernale. Walker
alle Jorasses, Bonatti alla Nord del Cervino, Nord dell'Eiger: tre
grandi salite compiute con un'etica rigorosa, dopo un'attentissima
preparazione. Concentrata e determinata, ha dedicato un anno alla
preparazione di un'impresa che ha fatto storia: l'apertura di una linea
nuova sul Dru, con difficoltà che arrivano all'A5, una splendida
avventura che ha richiesto 11 bivacchi. Previsioni meteo sbagliate,
tempo pessimo, un volo di 12 metri: un unico rimpianto, avere accettato
il rientro in elicottero. La parentesi himalayana si è chiusa
definitivamente dopo alcuni tentativi: “Non sono portata per l'alta
quota, non fa per me. Si è troppo dipendenti dall'ambiente. Mi fa paura,
e non mi piace avere paura in montagna”. A colei che è stata, e non solo
in Francia, il simbolo del free climbing, del volteggiare senza peso su
pareti e strapiombi, a fine serata una domanda d'obbligo. «Samivel ha
scritto “Arrampico, dunque sono” - Per te cosa è l'arrampicata?» - «Una
cosa bellissima, ma non certo l'unica. Ci sono tante altre cose nella
vita. Mio figlio prima di tutto. Ogni mio progetto adesso tiene conto di
lui. Quando sono in parete sono concentrata come prima, non è cambiato
nulla. Il difficile è semmai staccarsi da casa».