Esploratori all'incontrario
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di Franco Michieli | |
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Davvero le montagne perdono la cosiddetta verginità dopo che qualcuno le ha scalate? Davvero salire, denominare e cartografare una montagna significa svelarne il mistero, togliendo qualcosa a chi verrà dopo? O siamo noi, piuttosto, ad essere permanentemente schiavi della logica astratta della “prima” e della “conquista”, quasi che i tempi coloniali della spartizione della terra secondo la regola di chi arriva primo (ignorando gli abitanti millenari dei luoghi) non fossero tramontati da un pezzo? E infine: davvero l'esplorazione passata può averci dato un'immagine esauriente del mondo, quando per secoli è stata condotta dall'ambizione, dalla brama di gloria, di conquiste e di ricchezze, o, più recentemente, dall'ossessione della prestazione sportiva? La mia conclusione è che esplorare non ha niente a che vedere né col giungere per primi in un luogo, né col conquistarlo. Significa semmai stringere con il territorio una relazione nuova, concreta, originale, interpretando la realtà così come appare a noi, consci che nessuna cultura, per quanto progredita, può possedere integralmente la realtà di un paesaggio: chi è venuto prima e chi verrà dopo ha colto e coglierà elementi e significati che a noi sfuggono del tutto, e viceversa. Se l'esplorazione della terra e delle montagne da parte dei “conquistatori” ha seguito un punto di vista molto parziale, nulla ci obbliga a perpetuarlo; possiamo ricominciare da capo, con occhi nuovi, e forse fare scoperte anche più rilevanti di quelle del passato. Ma come realizzare questa possibilità? In ogni campo della conoscenza esistono molti modi per inventare percezioni capaci di rivelare aspetti sconosciuti della realtà. Nella mia personale ricerca una tappa decisiva è stata la traversata delle Alpi del Lyngen, nel nord della Norvegia, compiuta nel giugno 1999 in compagnia di Mario Baumgarten. Le Lyngsalpene sono una catena montuosa dalla morfologia molto aspra, tutta picchi rocciosi e ghiacciai, priva di rifugi e di sentieri, lunga circa cento chilometri in linea d'aria e circondata dai fiordi; è ben cartografata, le cime sono state scalate da tempo ed è già stata teatro di alcune traversate integrali. Tuttavia, noi l'abbiamo percorsa da un capo all'altro rinunciando alle mappe – senza averle con noi e senza studiarle prima di partire – e facendo a meno di informazioni, di qualsiasi strumento per l'orientamento, dell'orologio e di mezzi di comunicazione con l'esterno. Ci siamo perciò inoltrati nella catena montuosa come se nessuno l'avesse mai vista prima dall'interno: le cime, i ghiacciai, le valli, per noi sono tornati tutti senza nome; da ciascuna delle oltre venti creste che abbiamo scavalcato nel cercare una via, ogni volta ci è apparso davanti un mondo nuovo, inaspettato, come appena creato; ed è toccato a noi interpretare a vista quella realtà primigenia. Ecco come andò. ---------- Ancora, dopo il primo giorno di marcia, nella notte nordica senza buio, sento la pioggia ticchettare sulla tenda, ora calma e leggera, ora a scrosci, sospinta dalle raffiche di vento. A tratti il telo è scosso con violenza preoccupante e allora, istintivamente, cerco il suono rassicurante di un'altra pioggia: quella della memoria. Quante notti chiare e tempestose ho passato su altre montagne della Norvegia, accampato tra erbe e licheni bagnati di gocce infinite, sotto betulle grondanti, tra placche di rocce scure percorse dall'acqua, in mezzo a ghiacciai capaci di assorbire senza fine i rovesci del cielo nella propria neve, ascoltando nel dormiveglia quel ticchettio variabile che pareva dirmi: dormi tranquillo, questo è il suono della natura che continua a rinnovare la vita, è il suono materno che alimenta il divenire della terra? Ascolto: da qualche momento ha smesso di piovere; ora nella calma si distingue un suono di acque, remoto, che sale da un torrente o da una cascata invisibili; ed è come vedere lo spazio dilatarsi in un susseguirsi di paesaggi percorsi in giorni lontani, immersi in un simile scroscio. Nella bellezza del lieve sollevarsi delle nubi, che mi sembra di scorgere a occhi chiusi nella tregua della pioggia, c'è la rassicurazione che nulla dura troppo, che tutto varia; che se sapremo attendere, le perenni modificazioni del cielo e dello stato del terreno offriranno ogni giorno il momento giusto per scoprire dove andare. E' dalla memoria della terra che viene la fiducia, anche se ciò che stiamo facendo ci è nuovo; anche se per la prima volta ci troviamo senza mappe, informazioni e strumenti fra montagne e ghiacciai tanto impervi e sconosciuti, resi ancora più selvaggi dal grande disgelo di giugno, quando i corsi d'acqua in piena e le nevi molli respingono visite e tracce umane. Con la strana sincronia che si ritrova quando si è senza orologio, a una cert'ora sentiamo tutti e due che è il momento di ripartire, così come lo sente la pioggia, che ora ticchetta sui nostri cappucci, sugli zaini pesanti, sulle nostre orme affondate nella neve. Il territorio ci accoglie dentro circhi grandiosi, in valli chiuse e paludose; durante un'effimera schiarita serale ci attrae fin su una cima bianca fatta di un ghiacciaio a zampa di leone, di un gianduiotto immenso di neve che si fa scavalcare sul suo dorso regolare, di una spirale lucente che sale ad affacciarsi su un terrazzo di cornici, aperto su un enorme baratro. Cerchiamo di decifrare il labirinto di creste, di pareti, di canali, di calotte, di valichi che sorgono in una fusione straordinaria estesa verso nord fin oltre l'orizzonte: è là in mezzo che vorremmo andare, fino al digradare della catena nel mare. L'aver reinventato tante montagne senza nome ci riempie di meraviglia. Presto però la loro presenza ci lascia intuire un fatto assai più rilevante: la vera comprensione di questo scenario non si troverebbe comunque in quei nomi che non conosciamo; essa dipende, senza alternative, dalla capacità di cogliere le relazioni tra gli infiniti elementi che compongono il paesaggio. Privi dell'illusione di sapere che ci darebbero nomi e quote, proprio ora riceviamo più forte lo stimolo a comprendere.
Orientamento e esplorazioneFin dal secondo giorno di marcia ho scorto a grande distanza, sotto le nubi tempestose al di là del fiordo Lyngen, la località costiera dove meno di un anno fa ero sbucato col mio amico Andrea Matteotti dai grandi altipiani della Lapponia, che avevamo attraversato orientandoci per 600 km senza mappe né strumenti. Allora, entusiasta di quell'esperienza memorabile, guardando all'orizzonte le montagne innevate del Lyngen, ben diverse dagli altipiani per morfologia e dimensioni dello spazio, avevo pensato che potessero offrire le condizioni per proseguire la mia ricerca sulle doti umane di movimento nel territorio, indagando un altro aspetto dello stesso tema. Ora che cerchiamo la via qui al Lyngen, mi è facile mettere a confronto le due dimensioni. Un anno fa, nella vastità apparentemente uniforme della Lapponia, camminavamo tenendo come riferimento una “mappa mentale” – memorizzata prima della partenza da una semplice carta stradale in scala 1:400.000 -, costituita dalla nozione dell'esistenza di certi fiumi, grandi laghi e alture, che poi abbiamo effettivamente ritrovato sul territorio. L'avventura si ispirava quindi ai viaggi degli animali migratori e consisteva nell'orientarsi tra orizzonti sconfinati interpretando “a vista” la posizione del sole, la direzione dei corsi d'acqua e del vento, l'andamento degli spartiacque e altri aspetti della natura, non solo allo scopo di tenere una rotta, ma anche riuscendo ad identificare località geografiche particolari. Qui al Lyngen, pur senza mappe e strumenti, il problema dell'orientamento nello spazio è relativo: in questa catena stretta e lunga di picchi, creste e valli incassate basta scorgere ogni tanto un lembo di fiordo a est o a ovest, o semplicemente notare verso quale fiordo digrada la valle che ci si trova innanzi, per avere sempre un'idea del Nord. Questa volta, però, conosciamo approssimativamente solo le caratteristiche principali del contorno costiero della penisola, mentre non possediamo alcuna “mappa mentale” dell'interno, se non il ricordo di alcuni grossi complessi glaciali intravisti osservando da lontano o dalle coste il profilo del Lyngen. Non avanziamo dunque cercando di raggiungere qualche realtà geografica di cui abbiamo notizia, ma per scoprire e esplorare l'interno sconosciuto della catena . Trovare il percorso significa individuare, sempre “a vista”, un passaggio dopo l'altro tra pareti di maestosità inaspettata, canaloni sovrastati da gigantesche cornici, ghiacciai sospesi nelle nebbie o affondati tra le pozze turchine di laghi gelati, torrenti impetuosi che svoltano improvvisi da circhi selvaggi, macereti immensi disposti secondo i più diversi gradi di ripidezza e così via; un'avventura per la quale l'uomo è più portato di quanto oggi non si creda, come ha confermato, almeno a noi, la riuscita della nostra esperienza. La gratificazione di poter rivivere l'esplorazione grazie alla scelta dell'ignoranza va però molto al di là della riuscita del percorso, ed è di questo che vale la pena di parlare.
L'ignoto oltre la crestaIn questo scenario di roccia e neve, le creste che traversano la penisola ci vengono incontro come alte onde scoscese in rapida successione. Il cielo grigio che in perenne movimento si alza e si abbassa tra le cime, le avvolge, le libera e le riavvolge, ci lascia intravedere, ora a distanza, ora da vicino, intagli e selle nei crinali, che subito diventano per noi ipotetici punti di passaggio. Finché non saremo lassù non sapremo nulla di ciò che si trova al di là, se vi potremo scendere e quale nuovo paesaggio ci attenda. Ma è proprio il desiderio di raggiungere quel mondo ignoto, di vederne emergere una nuova valle con le sue infinite forme di roccia, di neve e di acqua, con i suoi rari esseri viventi che vi soggiornano come solitari eremiti, con le nuove cime splendenti o nebbiose solcate dalle loro vie naturali, a costituire per Mario e me un forte motivo di attrazione per traversate come questa. C'è molto da riflettere sulla gioia di questi momenti, che nella nostra ricerca del percorso oltre gli spartiacque della penisola si ripetono per più di venti volte, restando spesso indimenticabili. I passaggi più emblematici sono i numerosi scavalcamenti di creste nella nebbia fitta, quando il mondo che ci attende sul versante di discesa non solo è sconosciuto, ma assolutamente invisibile anche mentre vi caliamo. Talvolta, in un biancore assoluto di neve e nebbia, solo a tentoni riusciamo a percepire il limite tra lattigine gassosa e solida, sulla cui inclinazione possiamo posare i nostri scarponi. Quasi sempre il seguito avviene nello spazio di pochi passi: il rivelarsi del paesaggio ignoto, dopo lunghi momenti di progressi impercettibili, accelera imprevedibilmente. Prima ancora di capire che siamo sbucati sotto gli strati di nubi, un mondo nuovo ci riempie gli occhi: è un anfiteatro di pareti nere e di ghiacciai azzurrastri che pendono dalle brume, o una valle muscosa e chiazzata di licheni che si è guadagnata uno spazio misterioso tra i picchi, o ancora uno stretto e profondo corridoio di rocce striate di nevi, colorato di laghetti di un blu lapislazzulo incomprensibile, come accesi da una luce propria che non sembra poter venire dal cielo oscuro. In un tempo altrettanto breve il sollievo per la praticabilità del colle lascia il posto all'entusiasmo di poter guardare qualcosa che è completamente nuovo. Perché tutto quanto abbiamo davanti non è soltanto bello è misterioso: per noi è come se fosse stato appena creato; è qualcosa che non è stato fatto dall'uomo, qualcosa su cui non si sono ancora formati né preconcetti né vie prestabilite; ogni sguardo su di esso è un'esplorazione, che trae la gioia più pura dal semplice modo di essere di ciò che si scorge. Ma perché così poche persone paiono cercare questo sguardo? Cosa occorre dentro di noi? Quando sono sul territorio, o ricordo il territorio, credo che il mio pensiero spesso si svolga più per immagini e altre sensazioni significative che non attraverso parole; sequenze di lunghi ragionamenti e riflessioni sul modo di essere di un paesaggio, sul nostro cammino in mezzo a esso, scorrono dentro di me come una sorta di proseguimento interiore del divenire della natura: il fluire di una cascata remota, il continuo sfumare dei toni di colore di un versante chiazzato di neve lungo cui si spostano veli di vapore, un sistema di faglie che crea una linea continua di valloncelli e canaloni attraverso valli e montagne successive, un gruppo di renne al pascolo che presto alzeranno il capo e saranno prese da curiosità al nostro sopraggiungere, tutto questo si trasforma in un paesaggio interiore pieno di risposte in cui le parole, se appaiono, fanno già parte di una traduzione. E' qualcosa che paragonerei all'immergermi nell'ascolto di un brano di musica sinfonica, pieno di significati senza che intervengano spiegazioni a voce. Credo di dovere la mia facilità a orientarmi nella natura a questa univocità di linguaggio tra paesaggio esteriore e paesaggio interiore; e credo che sia questa medesima corrispondenza ad aprire anche in me, al rivelarsi di un nuovo territorio oltre la cresta, uno spazio nuovo che di colpo rivela più vasta anche l'esistenza. Ma come comprendere a fondo in che modo il varcare un colle liberi gioia nell'interiorità di altre persone? Mario, che è cresciuto in un ambiente multilingue, è sempre più assorbito dalla ricerca delle parole corrette nelle diverse situazioni. È legato molto più di me al valore del linguaggio parlato e della sua espressività poetica; perciò ha portato con sé alcuni fogli con testi di poesie e di canzoni in russo e in tedesco. Una di queste, che gli è stata dedicata anni fa da suo padre, identifica l'indole del figlio proprio con il sogno di affacciarsi a un colle scorto dalla profondità della valle, oltre cui si nasconde ciò che cerca la sua fantasia, ma che egli non riesce a esprimere a parole. Ho proposto a Mario di condividere questa traversata non solo conoscendo la sua tenacia nel maltempo persistente e su terreni impervi, ma anche perché immaginavo che qui egli potesse vivere proprio di quel sogno, malgrado la fatica e grazie a essa. Infatti ogni giorno ci pesa sulle spalle lo zaino da venticinque chili, siamo infradiciati dalla pioggia e dai guadi, sprofondiamo nella neve cedevole e barcolliamo su versanti senza fine di massi instabili e bagnati, e in tutto ciò il cammino di Mario è reso molto più duro da un problema di salute. Ma fatica e sofferenza non sono il contrario di quel sogno; anzi, ancora una volta è proprio il senso della labilità delle cose, la sensazione che questo mondo misterioso potrebbe divenire per noi più difficile da raggiungere, a farci notare di quali sfumature sia composto, a farci interiorizzare una bellezza che sicurezza di percorso e salute di ferro ci avrebbero fatto trascurare. Perciò, per quanto io sia in grado di raccontarlo, potrei dire che quando in questi giorni sbuchiamo faticosamente su una cresta, troviamo sì un ulteriore scenario fatto di semplici rocce, nevi marce, acque gelide e nubi tempestose che prospettano nuove fatiche, ma composte in un'armonia così espressiva e sorprendente da offrire a Mario la stessa emozione delle canzoni che più ama: nelle quali un concetto di per sé doloroso è espresso da parole di tale musicalità, e accompagnato da un suono così vibrante di bellezza, da trasformarsi nel suo contrario, in un messaggio di speranza; un messaggio che qui, amplificato dalla nostra “stupenda ignoranza”, risuona come in una sala dall'acustica eccezionale.
Cosa significa muoversi senza mappaVerso sera, nella sorprendente limpidezza del penultimo giorno, abbiamo incrociato su un'alta cresta un giovane finlandese, la sola persona incontrata in due settimane sulle montagne. Di fronte alle ultime alture della penisola circondate dal mare ci scambiavamo impressioni sulle caratteristiche del paesaggio quando il finlandese, per mostrarmi il percorso, ha estratto qualcosa a cui ormai avevamo completamente perso l'abitudine: la carta topografica. In un istante mi hanno attraversato due diverse sensazioni, molto nitide e distinte anche se rapidissime. Prima, l'emozione di rivedere un oggetto assolutamente familiare, legato ad alcuni dei periodi più intensi della mia vita: una carta norvegese simile alle circa duecento su cui una quindicina di anni fa avevo immaginato e poi vissuto la traversata a piedi di tutto il Paese e, in seguito, molti altri percorsi, tutti inventati sulla base della disposizione di quei colori stampati: il marrone delle curve di livello, l'azzurro dei laghi e dei fiumi, il bianco dei ghiacciai, il verde dei boschi, le linee nere del reticolato chilometrico. Periodi che, sommati, ammontano a quasi un anno vissuto in Norvegia nel cercare e trovare giorno dopo giorno una via personale: come non provarne nostalgia? D'altronde, appena il finlandese fa scorrere il dito sulla carta, dove in un solo colpo d'occhio si afferra la situazione di tutto il territorio e con essa appaiono evidenti anche i percorsi ideali, ho l'impressione vivissima di quanto sarebbe stato banale per me muovermi oggi con quelle carte su queste montagne; come sarebbero state scontate le scelte dei colli migliori, l'individuazione dei passaggi poco visibili, le traversate delle cime ghiacciate; quanto Mario e io ci saremmo sentiti in dovere di raggiungere dei punti prefissati anziché stupirci per ogni novità e congratularci per ogni passo compiuto, non importa verso dove; quanto, soprattutto, avremmo anteposto l'ansia di realizzare il nostro percorso ideale alla bellezza mostrata dagli imprevedibili eventi quotidiani. Certo le difficoltà alpinistiche e climatiche avrebbero proposto comunque delle incognite, ma il rapporto complessivo con questa terra sarebbe stato molto meno istruttivo. Ricordo bene che in passato non era così, che anche per me cercare la via in un territorio disabitato, col maltempo, con le sole informazioni delle mappe, era una grande avventura. Molte carte, anzi, contengono rappresentazioni del territorio talmente affascinanti da avermi incantato per giornate intere, come fossero delle opere d'arte. Rivelandomi forme della terra che da solo non avrei notato, sono state per me dei maestri e delle guide. Tuttavia, arriva sempre un tempo in cui, volendo proseguire il proprio cammino, occorre distaccarsi proprio dalle guide, che, per quanto valide, non possono contenere in sé l'esito dell'evoluzione spirituale di ogni persona. E' un passo indispensabile per lasciarci scoprire nella realtà quelle sfumature che proprio se individuate in modo del tutto personale potranno davvero tenere compagnia alla nostra vita. Nel mio caso, riporre le mappe di carta significa dunque provare a crearne altre più “su misura”: mappe di memoria viva, carte mentali delle relazioni che si intrecciano su un territorio, ricche di tutti i movimenti, i particolari e le sfumature che la nostra sensibilità sa collocare entro la rappresentazione di una terra e che nessun supporto cartaceo o informatico potrà mai imitare. Questa scelta, in totale contro tendenza rispetto all'atteggiamento più diffuso tra le spedizioni odierne, che all'uso delle carte abbinano quello della navigazione satellitare, merita altre riflessioni, anche perché i miei amici ed io non siamo stati i soli a rinunciare oggi alle mappe. Un caso divenuto molto noto, e discusso nel best-seller di Jon Krakauer Nelle terre estreme, è quello del giovane Chris McCandless, inoltratosi in solitudine nella taiga dell'Alaska nell'aprile del 1992 per sperimentare le sue capacità di sopravvivenza nella wilderness e ritrovato morto per denutrizione alcuni mesi più tardi. Scrive in proposito Krakauer: «Nell'andare in Alaska McCandless sognava di esplorare terre sconosciute, di scovare un buco nero sulla mappa. Peccato che nel 1992 non ne esistessero più, né in Alaska né altrove. Eppure Chris, con la sua stravagante logica, trovò un'elegante soluzione al dilemma: si liberò della mappa. Nella sua mente, o chissà dove, in questo modo la terra si sarebbe mantenuta un'incognita». Io non definirei stravagante la logica di McCandless, perché comunque chi oggi va a piedi sul territorio ha già rinunciato ai mezzi fuoristrada o all'elicottero, che potrebbero portarci quasi ovunque. Il nostro rapporto individuale con la terra ha ormai ben poco di obbligato: in ogni caso dipende dalle nostre scelte, e quella di riesplorarla senza mappe non è più bizzarra di qualsiasi altra. Il punto è che le carte topografiche, di per sé, ci offrono una rappresentazione statica del territorio e l'indicazione dei suoi toponimi ufficiali, ma non ci insegnano le relazioni vive, fatte di mille combinazioni, tra gli innumerevoli elementi del paesaggio, del clima e degli esseri viventi, che, come detto, costituiscono la vera conoscenza utile per muoversi efficacemente nell'ambiente naturale; e McCandless, a quanto pare, rimase bloccato proprio perché aveva trascurato la conoscenza delle relazioni tra condizioni dei corsi d'acqua, andamento delle stagioni nordiche e percorribilità del territorio. In pratica, se abbiamo una lunga esperienza delle relazioni che governano il divenire di un certo ambiente, nel quale individuiamo un territorio che solo topograficamente ci è ignoto, possiamo percorrerlo tanto con mappe e strumenti quanto senza. La vera differenza è che invece di stabilire delle mete ideali a priori (di solito scelte perché in qualche modo “prestigiose”, perciò difficilmente modificabili di fronte agli imprevisti, e quindi fonte di pericolo) e invece di utilizzare ogni informazione e mezzo disponibili per raggiungerle col minimo di incertezza, si privilegia l'interpretazione del presente: ci si va immergendo nella realtà studiandola e facendosi indicare da essa le mete quotidiane, i cui nomi hanno poca rilevanza; quelle mete che al momento corrispondono meglio alle nostre capacità e ai nostri sogni. Il che non toglie la possibilità di tenere una rotta con precisione, di trovare un luogo misterioso di cui si aveva solo una vaga idea o una via di salita su una montagna selvaggia. E' pure possibile andare da un capo all'altro di una terra, come l'esperienza ci ha insegnato.
L'esplorazione inversaSu tutto questo ho avuto modo di riflettere e di trovare delle conferme durante la nostra traversata. Ora è meraviglioso scoprire che al termine dell'avventura ci troviamo ad aver compiuto una vera e propria “esplorazione inversa”: non abbiamo dato un nome a montagne sconosciute, ma l'abbiamo tolto a montagne che ce l'avevano già; non abbiamo cancellato l'ultima “macchia bianca” dalle mappe, ma ne abbiamo ricreata una dove si credeva che non ce ne fossero più; non abbiamo fatto una “prima”, ma abbiamo mostrato come chiunque dopo di noi potrà inoltrarsi tra quelle stesse montagne, e viverle di nuovo come se nessuno le avesse viste prima. Si tratta di un vero atteggiamento di scoperta? Se constatiamo dove ci ha portati l'esplorazione detta “assoluta”, quella di conquista esaltata fino a oggi, e cioè al consumo irresponsabile di ogni risorsa svelata e raggiunta, tanto da mettere in forse il futuro della vita sulla terra, dobbiamo ammettere che sono stati esplorati e compresi solo aspetti esteriori e parziali del mondo. Di fronte a questa riflessione, esiste un sapere “assoluto”, racchiuso in qualche archivio delle scoperte dell'umanità e capace di irradiarsi nel mondo con efficacia, nonostante la sua trasmissione avvenga in forma teorica? O in definitiva conta davvero solo il sapere vissuto, e tenuto vivo in ogni persona? Quale esplorazione della realtà è più rilevante per la nostra esistenza, quella fatta di dati che si accumulano presso élite scientifiche e decisionali specializzate, o lo sforzo individuale di comprendere la rete di relazioni in cui ciascuno è immerso? Non so se ci siano risposte univoche; ma l'esperienza dei territori selvaggi e delle montagne mi ha dato comunque una convinzione: che a volte è utile fare tabula rasa degli sguardi necessariamente parziali di chi ci ha preceduto. Restituendo fiducia alla nostra semplice sensibilità scopriamo che le possibilità di esplorare si moltiplicano per quanti sono gli esseri umani desiderosi di cogliere nella realtà ciò che la consuetudine ci nasconde. Ed è una cosa che si può fare solo con scelte personali.
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<Novembre 2002*> © novembre 2002 intraisass |
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Franco Michieli
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* Il
testo riprende con alcune varianti i contenuti di due articoli apparsi
rispettivamente sulla “Rivista della Montagna” n. 232, gennaio 2000, col
titolo L'esplorazione ritrovata, e su “Lo Scarpone” n. 2/2000 col
titolo Proposta: cancelliamo le montagne e ripartiamo.
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