La musica
riempiva in un crescendo straordinario la sala Verdi del Conservatorio
di Milano.
Enrico contava le battute, perché sapeva esattamente l'attimo in cui
quella meravigliosa sinfonia avrebbe avuto termine.
In levare.
Fu il primo, come sempre, ad avviare l'applauso.
Un'esecuzione perfetta, coronata da un osannante tributo al maestro e a
tutta l'orchestra.
Un delirio composto, appassionato e competente.
Chi frequenta la stagione concertistica, infatti, non è un borghese in
cerca di vanitose esibizioni...
Lui, ragioniere in pensione, tradito dall'aspetto di anziano direttore
d'orchestra incanutito, sapeva cogliere le differenze.
Odiava le sgonfie prime della Scala, ad esempio, popolate da
signore-bene, coperte da abiti milionari che ne celano gli avvizziti
deretani. Quelle babione ignoranti e irrispettose nel loro continuo
scartare caramelle durante le arie meno note delle opere, accoppiate
sovente ad attaccapanni umani dediti indefessamente a starnuti, colpi di
tosse e raschiamenti faringei esagerati che tramutavano qualsiasi
esecuzione, per quanto prelibata essa fosse, in una sinfonia del
sanatorio...
Meno male che aveva smesso da tempo di frequentar tali sdruccioli
salotti.
Uscì dal cortile e si
avviò verso il tramvai sferragliante.
Faceva freddo e c'era le nebbia, insomma: una serata meneghina doc.
Sollevò lo zippo della giacca a vento e si cacciò le mani in tasca.
Così trovò il foglietto.
C'era su il simbolo del parco Adamello-Brenta, con le 5000 lire del
posteggio scritte a mano, in pessima calligrafia.
Allungò le braccia sotto un lampione: era diventato presbite, doveva
guardare le cose da distante.
Un difetto del visus che favorisce un certo distacco, in sintonia con la
maturità.
Balle... anche Svevo lo raccontava bene nel suo “Senilità”... la maturità
è una condizione mentale e le passioni non s'assopiscono con gli anni.
Così come accadeva per la musica, l'adrenalina che gli dava la montagna
era infatti una cosa portentosa.
Stirò il bigliettino con
le dita, sotto la luce lattiginosa.
Era dell'estate di
qualche anno fa.
Chissà come, era rimasto in qualche piega della giacca.
Meno male che Luana non gliel'aveva infilata in lavatrice.
Che giornata era stata!
Emozioni a raffica, da togliere il fiato.
Era approdato sulla spalla sfinito, ma ormai fuori dai ‘casini’. Il tempo
di prendere respiro ed era partito con la solita frase rituale di ogni
salita importante: “Ma vi sembra il posto dove portare un povero
vecchio?”.
E anche in quel caso lo aveva detto col solito tono, perentoriamente
scherzoso, anche se aveva gli occhi velati dalla commozione.
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In un mattino radioso e
fresco di agosto, immersi nella luce chiara, tre uomini stanno risalendo
una faticosa traccia di sentiero.
Davanti a loro il muro rossastro e aggettante della Corna Rossa .
“Ostia se l'è in pè... Ma
in dua l'è st'attacco?”
“Va
là ragioniere, manca poco, si fidi, perdiana, si fidi! Risparmi il fiato
e... pedalare!”
Eh, sì, meglio guardare
in basso, così vedi dove metti i piedi. Al massimo si può gettare un
occhio sul prato, che - nonostante sia così prossimo allo Spinale – è
ancora abbondantemente popolato da graziosi grappoli di stelle alpine.
Guardare in alto è
inquietante.
Chissà perché, una parete è sempre peggio vista dal basso che dalle soste.
Forse perché la mente si adatta a quelle prospettive con gradualità. Il
verticale, visto da sotto fa spavento; quando invece sei alle prese con
gli appigli e la concentrazione converge sul dettaglio, c'è sempre una via
di fuga teorica verso l'orizzonte. Guardi i boschi, le altre montagne
lontane, le nuvolette che galleggiano nel cielo, le mucche scampananti nei
pascoli e queste immagini ti entrano in circolo come una siringa di
valium. Vorresti essere là, è vero, soprattutto quando cominci a disperare
di uscirne vivo, anche se sei sul ‘terzopiù’, ma il fatto di sapere che il
mondo non sia fatto solo di prese sfuggenti e di punti interrogativi oltre
lo spigolo, ti rasserena almeno col destino. Guardi il tuo futuro, come
chi lavora guarda alle ferie.
Invece quando devi ancora cominciare il teatro della salita, lo sguardo
sale calamitato (e speranzoso) verso il tuo percorso. Ti domandi se sia il
caso di infilarti nell'incognita di un'avventura azzardata, mentre
l'angioletto dissuasore ti ripete che le montagne sono sempre là... sei
ancora in ferie, ma è l'ultimo giorno e il tuo immediato futuro è una
settimana lavorativa di incerto e disperato lavoro.
“T'è
vist che sem 'rivàa?”
“Te se propri sicur che ghe la foo a vegnì su de chi?”
“Enrico, ricorda, sei tu il bastone della nostra vecchiaia. Se ghe la fem
nualter, te ghe la fee anca ti!”.
Parlava Marco, per tutti,
come al solito.
Fiore, sembrava assorto, refrattario ai discorsi dei soci. Aveva assunto
un'espressione beata e mormorava “che spettacolo” ogni dieci secondi.
Così giocondo lo si vedeva solo in montagna o, in alternativa, dopo un
generoso boccale di birra tra amici.
A lui le cose emozionanti facevano un effetto sedativo... chissà se la
Giusy apprezzava quanto gli amici questa sua inclinazione al rilassamento
contemplativo?
Materiale ordinato in
fretta e poi rituale scorsa della guida Castiglioni.
La guida in mano e lo sguardo che cerca improbabili aggiustamenti visivi
tra lo schizzo e la realtà che ti sovrasta, sempre dannatamente diversa da
come l'hanno disegnata.
“Si
sale a sinistra dello spigolo per un paio di lunghezze, poi si traversa
sotto quel tettino e si supera una paretina liscia. Là ci siamo fermati
col Walter-ego due anni fa”, tagliò corto Marco.
“Quella volta che avete trovato la stangona?”
“Sì, quella”.
La stangona era Kay Rush,
la DJ che aveva eletto Campiglio a sua consueta dimora vacanziera. Una
ragazza sportiva e simpaticissima, che aveva diviso con loro la salita
fino al risalto prima della crestina facile.
Lei e il suo socio erano andati avanti.
Marco e Walter-ego no.
Era tardi, avevano perso un sacco di tempo scendendo dal Grostè nella
nebbia, a riprova del fatto che, quando indugi nella pigrizia, finisci
sempre col pagare un pedaggio supplementare... le due jene che avevano
convolato con loro “lustri e lustri fa” avevano dato un nulla osta a tempo
per la salita. Dovevano tornare entro le quattro del pomeriggio o
sarebbero stati dolori.
S'eran ripromessi di riprovarci dopo qualche giorno, ma poi il tempo era
peggiorato e... ti saluto ninetta... le vacanze fuggono come lepri,
soprattutto se fai un lavoro che non ti piace troppo e devi tornare a casa
a spalare la tua cacchetta esistenziale.
Almeno questa era la versione di Marco...
“Ma
perché siete tornati, era troppo tosta?”, azzardò provocatoriamente.
“Negativo ragioniere, Max Bombè mi ha detto che il passaggio più tossico
l'avevamo superato. Sopra viaggia sul quarto più; poi ci sono i diedri,
ma son chiodati bene...”
“E tu ti fidi di ‘quello’?”, si udì da dietro un cespuglio.
Fiore stava facendo pipì
verso l' Adamello. Tra un “che spettacolo” e l'altro aveva comunque udito
il mormorio preoccupato dei soci.
“
Io del tuo amico mi fido poco – continuò - per lui è sempre tutto
facile...”
“Ma l'avrà fatta chissà quante volte. Dice che per l'allenamento lui e i
suoi soci la salivano anche a primavera, giungendo sotto l'attacco con le
pelli”.
“E gli hai domandato quando l'ha fatta l'ultima volta?”
“Perché, dovevo?”
“Il tempo mitiga il ricordo... passaggi dove hai sputato sangue, dieci
anni dopo sono solo movimenti...”
“Vero, ma io l'ho fatta due anni fa ‘pirsonalmente di persona’ -
disse emulando il Catarella di Camilleri - e i conti tornavano”.
“Mica tutti però... se
sopra troviamo del duro, che si fa con questo povero vecchio?”.
Enrico sghignazzò. Ma era
un riso più isterico che divertito. Poi si lanciò in una tentativo di
mediazione.
“Fanciulli, non c'è qualcosa di più semplice nei paraggi?”
“Certo che c'è. Se guardi la guida ne trovi diverse, ma la roccia come
sarà? Le soste saranno attrezzate? Ci si infila nelle peste più spesso
sulle vie banali che su quelle più impegnative...
Guarda ad esempio quello
che mi è successo sulla punta Fiames nell'estate del 87 con Gambadilegno:
- facciamo la Dimai, che la Yori è più secca - ci siamo detti... e poi
abbiamo visto la Madonna dell'Incoronata di Foggia che ci faceva
l'occhiolino sullo spigolo, mentre io me la facevo addosso su quei liscioni allucinanti, senza poter mettere protezioni”.
“Va be... se poi avete sbagliato via...”, mormorò a denti stretti Fiore.
“Facile a dirsi, vai tu in mezzo a quella parete concava, tra la
nebbiolina, a cercare la strada”.
“Ah, io proprio no... sai che con l'orientamento...”
Dopo essersi allacciato
le scarpette e infilato l'imbrago, il nostro Enrico s'era fatto più vicino
ai due compagni.
“Ragazzi, se puntate alla mia eredità cascate male... siete dei cari
amici, ma ho due figlie e una moglie ancora piena di aspettative a casa,
campo con una buona pensione, conquistata dopo 35 anni di onorato
servizio, e l'appartamento nel quale abito non guarda sul Central Park di
Manhattan, ma più modestamente sulla parrocchia di Rozzano”.
“Ragioniere – rispose Marco – ci faccia il piacere... Siamo qui per la Detassis e Detassis
sarà, a costo di scorticarci le ginocchia. Onori al grande Bruno che
l'aprì...”
Così, in questo spirito
stoico e sprezzante (a parole) del pericolo, si legarono ed iniziarono a
salire.
Per un po' andò bene, nel
senso che i primi tiri sono facili, almeno fino ad una sporgenza dello
spigolo che si aggira a destra e si rimonta superando una paretina
verticale .
Lì, i cento e più kili
del pensionato iniziarono a far valere i loro diritti gravitazionali. Le
leggi della fisica non sono opinioni.
Ma l'attento supporto di
Fiore e gli avambracci tenagliosi di Marco, diedero il loro efficace
contributo, sicché il nostro musicofilo riuscì a risalire sul pentagramma
calcareo senza rovinare nella tanto temuta scala cromatica discendente.
Arrivò al terrazzino un
po' frusto, ma ancora vegeto, anche se dovette ricorrere all'aiuto degli
strumenti a corda per risolvere la forma armonica in modo dignitoso.
Il tempo era splendido.
Si sarebbe detto andante con brio...
Fiore invece era
preoccupato.
Lanciava ogni tanto
sguardi elettrici al socio.
Anche Enrico se n'era
accorto e non senza imbarazzo.
Non era la prima volta
che si accompagnava a Marco. In quindici e più anni di onorata ‘carriera’
avevano salito un sacco di belle vie insieme. A volte anche difficili.
La Castiglioni Detassis
alla Pala del Rifugio e lo Spigolo del Sass d'Ortiga in Val Canali, ad
esempio, non erano proprio salite da paraplegici... e, per restare in zona,
la normale al Basso fatta in mezza giornata o la Kiene al Castelletto,
stavano a dimostrare che il loro privato sodalizio funzionava bene.
Alla quarta lunghezza,
quindi, mentre Marco si barcamenava con il tiro bello su roccia grigia e
compatta, tra lui e Fiore era calato un discreto silenzio, figlio
illegittimo della perplessità dell'uno e dell'orgoglio dell'altro.
Sotto di loro, manco
farlo apposta, un camoscio stava producendosi in un saggio ginnico di
rara eleganza, balzando tra i giganteschi sassi disordinatamente sparsi
alla base della parete.
Come sempre gli succedeva
in quelle circostanze, la vita gli sembrò felice e ricca di straordinarie
meraviglie, tanto da commuoverlo. E dato che la commozione attanaglia
spesso lo stomaco - e lo stomaco è in continuità con l'intestino -
quelle sensazioni gli smossero qualcosa ‘dentro’ che per logica induzione
peristaltica cercò di farsi largo ‘fuori’. Chi l'ha detto che le
migliori sinfonie si scrivono solo per archi? In un orchestra seria anche
gli ottoni hanno un ruolo importante. Basta saperli modulare bene...
Il silenzio era così
rotto e sulla Vallesinella scoppiò una sghignazzata collettiva.
Dopo la facile crestina,
ingannevole preludio all'ultima impennata, decisero di concedersi una
breve sosta.
Il terrazzino sotto al
diedro nero si prestava benissimo allo scopo.
Non erano stati dei
fulmini, come ricordò a tutti con piglio serioso Fiore, ma non era neppure
troppo tardi.
Un anfratto ombreggiato
ospitò così un breve sit-in, innaffiato da integratori salini sborracciati con malcelata avidità e allietato da qualche barretta.
L'altro condimento di
quella serafica ed incosciente pausa fu il senso di incertezza. Era una sensazione quasi
fisica, come se l'aria si fosse fatta più densa, cremosa.
Il cervello fa scherzi
terribili... anche quando non si abusa con alcool o droghe pesanti. Ciò che appare se non
proprio docile, almeno poco spaventevole un attimo prima, quando si
avvicina l'ora della verità diventa insostenibile.
Quante volte avevi in
testa tutto quello che dovevi dire alla ragazza per invitarla alla festa
di domenica e poi, quando ti avvicinavi e il profferire parola diventava
condizione necessaria, il cuore martellava come impazzito, le mani
diventavano due spugne e dalla bocca ti usciva una voce sgradevole e
chioccia, per nulla virile?
Era arrivata l'ora della
verità anche per loro: tre pistoleri (o per meglio dire tre ‘pistola’) che
avevano lanciato un duello alla Corna Rossa, beh... più che con la montagna... con la strampalata idea di salirla.
Che cordata! Due compari
arrugginiti e un vecchio professore pazzo, stavano per entrare nel tratto
chiave della loro sfida. Il dado era tratto, ed Enrico, per suggellare
l'evento, aveva prodotto un bel Rubicone che scorreva fino al bordo del
terrazzo e si lanciava a sua volta nello strapiombo del canale. Non
soffrendo ancora di ipertrofia prostatica, il risultato idrico era più che
soddisfacente.
Partì Marco, gamba
incerta, sguardo stoico e protezione a baionetta tenuta tra i denti.
Dopo tre metri infilò un
dado in una fessura: cinquanta centimetri scarsi sotto ad un chiodo.
Sangue freddo da vendere...
Invece il diedrone nero,
dopo quella presentazione burbera, si rivelò meno tossico del previsto,
Poi Marco attraversò a sinistra e si portò al limite di una cengetta fino
alla sosta, posta su un ballatoio che si poteva definire ‘vertiginoso’ solo ricorrendo ad un eufemismo. Sotto il culo avevi
duecento metri di buon vuoto prima che l'eventuale sassolino toccasse
roccia, tanto per capirsi.
Lui, da sotto, non ne
ebbe un chiaro sentore, ma lo sospettò con sagacia, dato che il socio
aveva smesso di canticchiare quelle ridicole e sdrucite canzonette che
accompagnavano solitamente la sua lumacosa progressione (o' bradipo era il
suo soprannome, perché chiamarlo o' maestro, come invece gli sarebbe
piaciuto, non era proprio giustificabile...).
Partì, come sempre
tallonato da Fiore.
Giunsero su quell'esigua
sosta insieme.
“Io vado, qui si sta stretti. Fiore, fammi sicura”.
“Vai bestiaccia, ma metti dentro tutto quello che puoi”.
“Non preoccuparti, non vi libererete così facilmente del
sottoscritto”.
Il tentativo di buttarla
sullo scherzo non convinse nessuno.
Lui conosceva bene
l'amico, quando schizzava via dalla sosta era sospinto da un'ansia che, a
mo' di peperoncino pugliese, scivolava dal petto giù giù, verso le
natiche.
Un posapiano come lui,
quando si velocizzava, lo faceva solo perché aveva urgenza di risolvere un
peso incombente. Qualche volta era di natura intestinale, in questo caso
emotiva.
Marco salì veloce,
moschettonò con zelo tutti i chiodi scegliendo altruisticamente i rinvii
più adatti (quelli più lunghi) ed integrò con un paio di dadini le
protezioni esistenti.
Poi giunse in sosta.
Il sole illuminava la
roccia.
La Corna era più rossa
del solito... colpa della luce o dell'occhio pallato?
“Dai
ragazzi, non è difficile, solo un po' tecnico...”
“Mi permetta buon uomo – rispose Enrico – ma vada a cagare...”
Dopo tre metri, alla
prima impennata, Enrico vede in una nicchia la Madonna di Loreto. La
Vergine gli fa bye bye con la manina aperta. Non è difficile, pare dica
serena, solo quintopiù...
Fiore gli sta sotto come
Gentile a Zico nei mondiali di Spagna.
Per sdrammatizzare, il
nostro ‘ragioniere’ lo mette in guardia da nefaste conseguenze: lo vede
infatti in una posizione molto rischiosa, essendo lui stesso il principale
fautore dell'antica teoria denominata più o meno “Il vento come metodo di
progressione in montagna”.
Fiore ridacchia (alla
Eddy Murphy) ma si sposta prudenzialmente a destra, mettendosi fuori tiro.
Il vecchio combattente
allora, con uno slancio d'orgoglio, afferra il rinvio ed oscillando si
issa sopra una discordanza. La corda, meno male, è tesa e verticale.
Fiore gli si affianca.
Sopra si intuisce un
movimento obliquo a sinistra, l'unico possibile per mantenere la salita
nel range delle arrampicate classiche... Per andare dritti i casi sono due:
prendere l'elicottero o bere una pozione che ti trasforma “illico et
immediate” in Ermanno Salvaterra (in questo secondo caso, pur avendo
garanzia assoluta di successo sulla parete, dovresti mettere in conto
effetti secondari devastanti...).
Enrico si getta a
sinistra, cosa che peraltro non lo sconvolge più di tanto, dato il suo
orientamento politico, ma anche in questo caso (come nella politica)
esagera e si sbilancia, girandosi verso lo strapiombo.
“Uh
madonna uh signor...”, gli scappa detto.
La madonnina della
nicchia precedente s'incazza come una biscia per l'imprecazione e lo fa
scivolare indietro. Fiore riceve così un
carico di cento kilogrammetri sui suoi riccioli indomiti.
Tutto da rifare...
Al terzo tentativo la
situazione è la seguente:
Marco non ha più
avambracci umani, ma sembra la caricatura di Popeye (c'è chi giura di aver
anche notato il tatuaggio a forma di ancora e la pipa in bocca);
Fiore ha i capelli
stirati, nessun riccio e nessun capriccio quindi, quasi fosse riuscito a
convincere l'Annamaria Masè, la più eccentrica parrucchiera della valle
nonché titolare del “Salone 2000” a Strembo (e che non usa un acido
neanche a morire), a fargli un'acconciatura alla Demi Moore di Ghost;
Enrico è il Ghost
di se stesso: cotto, sudato come Atlante, vecchio, arteriosclerotico e di perdipiù di sinistra estrema, quindi contornato da spiriti maligni che gli
ottundono le percezioni mentali e cercano di trascinarlo all'inferno.
In quella situazione da vacqueros cercano di ristabilire un senso della vita.... Poi Enrico ha un
attimo di scoramento e si pente.
“Bagai, ghe la fu pu...”
La crisi mistica è
all'apoteosi.
Fiore, che è cresciuto a pane e libro cuore, si mette la giacchetta di Garrone e aggrappandosi ad
un chiodo propone la soluzione vincente.
La soluzione, confesserà
poi, gli era stata ispirata dalla faccia da mummia del nostro ragioniere:
bisognava infatti fare una piramide.
Il problema è che lui (homus
normolineus) sarà l'impalcatura osteoarticolare sulla quale l'ursus arctos
horribilis (impiallicciato da ragioniere musicofilo), dovrà arrampicarsi,
per superare l'ostacolo.
I cento e più kiletti del
nostro Enrico montano così sul femore prima e sulla spalla poi del mitico
eroe, consentendo ai tre desperados di conquistare (sic!) la cima.
Il resto è storia... birre
e pacche sulle spalle (dolenti) di Fiore.
Ai posteri spetterà il
dilemma se beatificare Fiore per il sacrificale tributo alla cordata,
incaprettare Max Bombè per avere dato al gruppo informazioni false e
tendenziose o eleggere Marco a guisa di affidabile condottiero sioux verso
la Little Big Horn della Rendena.
Una cosa è certa: Enrico,
potrà scrivere, oltre alla dissertazione anzidetta sui metodi “ortodossi e
non” di progressione in arrampicata, anche un memoriale sullo scampato
pericolo.
“Corna rossa, non avrai
il mio scalpo”, ad esempio, non sarebbe male come titolo...