Corna Rossa non avrai il mio scalpo

Una strampalata ripetizione della via Detassis

 

di Massimo Anile

 

 

La musica riempiva in un crescendo straordinario la sala Verdi del Conservatorio di Milano.
Enrico contava le battute, perché sapeva esattamente l'attimo in cui quella meravigliosa sinfonia avrebbe avuto termine.
In levare.
Fu il primo, come sempre, ad avviare l'applauso.
Un'esecuzione perfetta, coronata da un osannante tributo al maestro e a tutta l'orchestra.
Un delirio composto, appassionato e competente.
Chi frequenta la stagione concertistica, infatti,  non è un  borghese in cerca di vanitose esibizioni...
Lui, ragioniere in pensione, tradito dall'aspetto di anziano direttore d'orchestra incanutito, sapeva cogliere le differenze.
Odiava le sgonfie prime della Scala, ad esempio, popolate da signore-bene, coperte da abiti milionari che ne celano gli avvizziti deretani. Quelle babione ignoranti e irrispettose nel loro continuo scartare caramelle durante le arie meno note delle opere, accoppiate sovente ad attaccapanni umani dediti indefessamente a starnuti, colpi di tosse e raschiamenti faringei esagerati che tramutavano qualsiasi esecuzione, per quanto prelibata essa fosse, in una sinfonia del sanatorio...
Meno male che aveva smesso da tempo di frequentar tali sdruccioli salotti.

Uscì dal cortile e si avviò verso il tramvai sferragliante.
Faceva freddo e c'era le nebbia, insomma: una serata meneghina doc.
Sollevò lo zippo della giacca a vento e si cacciò le mani in tasca.

Così trovò il foglietto.
C'era su il simbolo del parco Adamello-Brenta, con le 5000 lire del posteggio scritte a mano, in pessima calligrafia.
Allungò le braccia sotto un lampione: era diventato presbite, doveva guardare le cose da distante.
Un difetto del visus che favorisce un certo distacco, in sintonia con la maturità.
Balle... anche Svevo lo raccontava bene nel suo “Senilità”... la maturità è una condizione mentale e le passioni non s'assopiscono con gli anni.
Così come accadeva  per la musica,  l'adrenalina che gli dava la montagna era infatti una cosa portentosa.

Stirò il bigliettino con le dita, sotto la luce lattiginosa.

Era dell'estate di qualche anno fa.
Chissà come, era rimasto in qualche piega della giacca.
Meno male che Luana non gliel'aveva infilata in lavatrice.

Che giornata era stata!
Emozioni a raffica, da togliere il fiato.
Era approdato sulla spalla sfinito, ma ormai fuori dai ‘casini’. Il tempo di prendere respiro ed era partito con la solita frase rituale di ogni salita importante: “Ma vi sembra il posto dove portare un povero vecchio?”.
E anche in quel caso lo aveva detto col solito tono, perentoriamente scherzoso, anche se aveva gli occhi velati dalla commozione.

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In un mattino radioso e fresco di agosto, immersi nella luce chiara,  tre uomini stanno risalendo una faticosa traccia di sentiero.
Davanti a loro il muro rossastro e aggettante della Corna Rossa .

“Ostia se l'è in pè... Ma in dua l'è st'attacco?”
Va là ragioniere, manca poco, si fidi, perdiana, si fidi! Risparmi il fiato e... pedalare!”

Eh, sì, meglio guardare in basso, così vedi dove metti i piedi. Al massimo si può gettare un occhio sul prato, che - nonostante sia così prossimo allo Spinale – è ancora abbondantemente popolato da graziosi grappoli di stelle alpine.

Guardare in alto è inquietante.
Chissà perché, una parete è sempre peggio vista dal basso che dalle soste.
Forse perché la mente si adatta a quelle prospettive con gradualità. Il verticale, visto da sotto fa spavento; quando invece sei alle prese con gli appigli e la concentrazione converge sul dettaglio, c'è sempre una via di fuga teorica verso l'orizzonte. Guardi i boschi, le altre montagne lontane, le nuvolette che galleggiano nel cielo, le mucche scampananti nei pascoli e queste immagini ti entrano in circolo come una siringa di valium. Vorresti essere là, è vero, soprattutto quando cominci a disperare di uscirne vivo, anche se sei sul ‘terzopiù’, ma il fatto di sapere che il mondo non sia fatto solo di prese sfuggenti e di punti interrogativi oltre lo spigolo, ti rasserena almeno col destino. Guardi il tuo futuro, come chi lavora guarda alle ferie.
Invece quando devi ancora cominciare il teatro della salita, lo sguardo sale calamitato (e speranzoso) verso il tuo percorso. Ti domandi se sia il caso di infilarti nell'incognita di un'avventura azzardata, mentre l'angioletto dissuasore ti ripete che le montagne sono sempre là... sei ancora in ferie, ma è l'ultimo giorno e il tuo immediato futuro è una settimana lavorativa di incerto e disperato lavoro.

T'è vist che sem 'rivàa?”
“Te se propri sicur che ghe la foo a vegnì su de chi?”
“Enrico, ricorda, sei tu il bastone della nostra vecchiaia. Se ghe la fem nualter, te ghe la fee anca ti!”.

Parlava Marco, per tutti, come al solito.
Fiore, sembrava assorto, refrattario ai discorsi dei soci. Aveva assunto un'espressione beata e mormorava “che spettacolo” ogni dieci secondi.
Così giocondo lo si vedeva solo in montagna o, in alternativa, dopo un generoso boccale di birra tra amici.
A lui le cose emozionanti facevano un effetto sedativo... chissà se la Giusy apprezzava quanto gli amici questa sua inclinazione al rilassamento contemplativo?

Materiale ordinato in fretta e poi rituale scorsa della guida Castiglioni.
La guida in mano e lo sguardo che cerca improbabili aggiustamenti visivi tra lo schizzo e la realtà che ti sovrasta, sempre dannatamente diversa da come l'hanno disegnata.

Si sale a sinistra dello spigolo per un paio di  lunghezze, poi si traversa sotto quel tettino e si supera una paretina liscia. Là ci siamo fermati col Walter-ego due anni fa”, tagliò corto Marco.
“Quella volta che avete trovato la stangona?”
“Sì, quella”.

La stangona era Kay Rush, la DJ che aveva eletto Campiglio a sua consueta dimora vacanziera. Una ragazza sportiva e simpaticissima, che aveva diviso con loro la salita fino al risalto prima della crestina facile.
Lei e il suo socio erano andati avanti.
Marco e Walter-ego no.
Era tardi, avevano perso un sacco di tempo scendendo dal Grostè nella nebbia, a riprova del fatto che, quando indugi nella pigrizia, finisci sempre col pagare un pedaggio supplementare... le due jene che avevano convolato con loro “lustri e lustri fa” avevano dato un nulla osta a tempo per la salita. Dovevano tornare entro le quattro del pomeriggio o sarebbero stati dolori.
S'eran ripromessi  di riprovarci dopo qualche giorno, ma poi il tempo era peggiorato e... ti saluto ninetta... le vacanze fuggono come lepri, soprattutto se fai un lavoro che non ti piace troppo e devi tornare a casa a spalare la tua cacchetta esistenziale.
Almeno questa era  la versione di Marco...

Ma perché siete tornati, era troppo tosta?”, azzardò provocatoriamente.
“Negativo ragioniere, Max Bombè mi ha detto che il passaggio più tossico l'avevamo superato. Sopra viaggia sul quarto più;  poi ci sono i diedri, ma son chiodati bene...”
“E tu ti fidi di ‘quello’?”, si udì da dietro un cespuglio.

Fiore stava facendo pipì verso l' Adamello. Tra un “che spettacolo” e l'altro aveva comunque udito il mormorio preoccupato dei soci.

Io del tuo amico mi fido poco – continuò -  per lui è sempre tutto facile...”
“Ma l'avrà fatta chissà quante volte. Dice che per l'allenamento lui e i suoi soci la salivano anche a primavera, giungendo sotto l'attacco con le pelli”.
“E gli hai domandato quando l'ha fatta l'ultima volta?”
“Perché, dovevo?”
“Il tempo mitiga il ricordo... passaggi dove hai sputato sangue, dieci anni dopo sono solo movimenti...”
“Vero, ma io l'ho fatta due anni fa ‘pirsonalmente di persona’ - disse emulando il Catarella di Camilleri -  e i conti tornavano”.
“Mica tutti però... se sopra troviamo del duro, che si fa con questo povero vecchio?”.

Enrico sghignazzò. Ma era un riso più isterico che divertito. Poi si lanciò in una tentativo di mediazione.

Fanciulli, non c'è qualcosa di più semplice nei paraggi?”
“Certo che c'è. Se guardi la guida ne trovi diverse, ma la roccia come sarà? Le soste saranno attrezzate? Ci si infila nelle peste più spesso sulle vie banali che su quelle più impegnative...
Guarda ad esempio quello che mi è successo sulla punta Fiames  nell'estate del 87 con Gambadilegno: - facciamo la Dimai, che la Yori è più secca - ci siamo detti... e poi abbiamo visto la Madonna dell'Incoronata di Foggia che ci faceva l'occhiolino sullo spigolo, mentre io me la facevo addosso su quei liscioni allucinanti, senza poter mettere protezioni”.
“Va be... se poi avete sbagliato via...”, mormorò a denti stretti Fiore.
“Facile a dirsi, vai tu in mezzo a quella parete concava, tra la nebbiolina, a cercare la strada”.
“Ah, io proprio no... sai che con l'orientamento...”

Dopo essersi allacciato le scarpette e infilato l'imbrago, il nostro Enrico s'era fatto più vicino ai due compagni.

Ragazzi, se puntate alla mia eredità cascate male... siete dei cari amici, ma ho due figlie e una moglie ancora piena di aspettative a casa, campo con una buona pensione, conquistata dopo 35 anni di onorato servizio,  e l'appartamento nel quale abito non guarda sul Central Park di Manhattan, ma più modestamente sulla parrocchia di Rozzano”.
“Ragioniere – rispose Marco – ci faccia il piacere... Siamo qui per la Detassis e Detassis sarà, a costo di scorticarci le ginocchia. Onori al grande Bruno che l'aprì...”

Così, in questo spirito stoico e sprezzante (a parole) del pericolo, si legarono ed iniziarono a salire.
Per un po' andò bene, nel senso che i primi tiri sono facili, almeno fino ad una sporgenza dello spigolo che si aggira a destra e si rimonta superando una paretina verticale .
Lì, i cento e più  kili  del pensionato iniziarono a far valere i loro diritti gravitazionali. Le leggi della fisica non sono opinioni.
Ma l'attento supporto di Fiore e gli avambracci tenagliosi di Marco, diedero il loro efficace contributo, sicché il nostro musicofilo riuscì a risalire sul pentagramma calcareo senza  rovinare nella tanto temuta scala cromatica discendente.
Arrivò al terrazzino un po' frusto, ma ancora vegeto, anche se dovette ricorrere all'aiuto degli strumenti a corda per risolvere la forma armonica in modo dignitoso.
Il tempo era splendido. Si sarebbe detto andante con brio...
Fiore invece era preoccupato.
Lanciava ogni tanto sguardi elettrici al socio.
Anche Enrico se n'era accorto e non senza imbarazzo.
Non era la prima volta che si accompagnava a Marco. In quindici e più anni di onorata ‘carriera’ avevano salito un sacco di belle vie insieme. A volte anche difficili.
La Castiglioni Detassis alla Pala del Rifugio e lo Spigolo del Sass d'Ortiga in Val Canali, ad esempio,  non erano proprio salite da paraplegici... e, per restare in zona, la  normale al Basso fatta in mezza giornata o la Kiene al Castelletto, stavano a dimostrare che il loro privato sodalizio funzionava bene.

Alla quarta lunghezza, quindi, mentre Marco si barcamenava con il tiro bello su roccia grigia e compatta, tra lui e Fiore era calato un discreto silenzio,  figlio illegittimo della perplessità dell'uno e dell'orgoglio dell'altro.
Sotto di loro, manco farlo apposta, un camoscio stava producendosi in  un saggio ginnico di rara eleganza, balzando tra i giganteschi sassi disordinatamente sparsi alla base della parete.
Come sempre gli succedeva in quelle circostanze, la vita gli sembrò felice e ricca di straordinarie meraviglie, tanto da commuoverlo. E dato che la commozione attanaglia spesso lo stomaco - e lo stomaco è in continuità con l'intestino - quelle sensazioni gli smossero qualcosa ‘dentro’ che per logica induzione peristaltica cercò di farsi largo ‘fuori’. Chi l'ha detto che le migliori sinfonie si scrivono solo per archi? In un orchestra seria anche gli ottoni hanno un ruolo importante. Basta saperli modulare bene...
Il silenzio era così rotto e sulla Vallesinella scoppiò una sghignazzata collettiva.

Dopo la facile crestina, ingannevole preludio all'ultima impennata, decisero di concedersi una breve sosta.
Il terrazzino sotto al diedro nero si prestava benissimo allo scopo.
Non erano stati dei fulmini, come ricordò a tutti con piglio serioso Fiore, ma non era neppure troppo tardi.
Un anfratto ombreggiato ospitò così un breve sit-in, innaffiato da integratori salini sborracciati con malcelata avidità e allietato da qualche barretta.
L'altro condimento di quella serafica ed incosciente pausa fu il senso di incertezza. Era una sensazione quasi fisica, come se l'aria si fosse fatta più densa, cremosa.
Il cervello fa scherzi terribili... anche quando non si abusa con alcool o droghe pesanti. Ciò che appare se non proprio docile, almeno poco spaventevole un attimo prima, quando si avvicina l'ora della verità diventa insostenibile.
Quante volte avevi in testa tutto quello che dovevi dire alla ragazza per invitarla alla festa di domenica e poi, quando ti avvicinavi e il profferire parola diventava condizione necessaria, il cuore martellava come impazzito, le mani diventavano due spugne e dalla bocca ti usciva una voce sgradevole e chioccia, per nulla virile?
Era arrivata l'ora della verità anche per loro: tre pistoleri (o per meglio dire tre ‘pistola’) che avevano lanciato un duello alla Corna Rossa,  beh... più che con la montagna... con la strampalata idea di salirla.

Che cordata! Due compari arrugginiti e un vecchio professore pazzo, stavano per entrare nel tratto chiave della loro sfida. Il dado era tratto, ed Enrico, per suggellare l'evento, aveva prodotto un bel Rubicone che scorreva fino al bordo del terrazzo e si lanciava a sua volta nello strapiombo del canale. Non soffrendo ancora di ipertrofia prostatica, il risultato idrico era più che soddisfacente.

Partì Marco, gamba incerta, sguardo stoico e protezione a baionetta tenuta tra i denti.
Dopo tre metri infilò un dado in una fessura: cinquanta centimetri scarsi sotto ad un chiodo.
Sangue freddo da vendere...

Invece il diedrone nero, dopo quella presentazione burbera, si rivelò meno tossico del previsto, Poi Marco attraversò a sinistra e si portò al limite di una cengetta fino alla sosta, posta su un ballatoio che si poteva definire ‘vertiginoso’ solo ricorrendo ad un eufemismo. Sotto il culo avevi duecento metri di buon vuoto prima che l'eventuale sassolino toccasse roccia, tanto per capirsi.
Lui, da sotto, non ne ebbe un chiaro sentore, ma lo sospettò con sagacia, dato che il socio aveva smesso di canticchiare quelle ridicole e sdrucite canzonette che accompagnavano solitamente la sua lumacosa progressione (o' bradipo era il suo soprannome, perché chiamarlo o' maestro, come invece gli sarebbe piaciuto, non era proprio giustificabile...).

Partì, come sempre tallonato da Fiore.
Giunsero su quell'esigua sosta insieme.

Io vado, qui si sta stretti. Fiore, fammi sicura”.
“Vai bestiaccia, ma metti dentro tutto quello che puoi”.
“Non preoccuparti, non vi libererete così facilmente del sottoscritto”.

Il tentativo di buttarla sullo scherzo non convinse nessuno.
Lui conosceva bene l'amico, quando schizzava via dalla sosta era sospinto da un'ansia che, a mo' di peperoncino pugliese, scivolava dal petto giù giù, verso le  natiche.
Un posapiano come lui, quando si velocizzava, lo faceva solo perché aveva urgenza di risolvere un peso incombente. Qualche volta era di natura intestinale, in questo caso emotiva.

Marco salì veloce,  moschettonò con zelo tutti i chiodi scegliendo altruisticamente i rinvii più adatti (quelli più lunghi) ed integrò con un paio di dadini le protezioni esistenti.
Poi giunse in sosta.
Il sole  illuminava la roccia.
La Corna era più rossa del solito... colpa della luce o dell'occhio pallato?

Dai ragazzi, non è difficile, solo un po' tecnico...”
“Mi permetta buon uomo – rispose Enrico – ma vada a cagare...”

Dopo tre metri, alla prima impennata, Enrico vede in una  nicchia la Madonna di Loreto. La Vergine gli fa bye bye con la manina aperta. Non è difficile, pare dica serena, solo quintopiù...
Fiore gli sta sotto come Gentile a Zico nei mondiali di Spagna.
Per sdrammatizzare, il nostro ‘ragioniere’ lo mette in guardia da nefaste conseguenze: lo vede infatti in una posizione molto rischiosa, essendo lui stesso il principale fautore dell'antica teoria denominata più o meno “Il vento come metodo di progressione in montagna”.
Fiore ridacchia (alla Eddy Murphy) ma si sposta prudenzialmente a destra, mettendosi fuori tiro.
Il vecchio combattente allora, con uno slancio d'orgoglio, afferra il rinvio ed oscillando si issa sopra una discordanza. La corda, meno male, è tesa e verticale.
Fiore gli si affianca.
Sopra si intuisce un movimento obliquo a sinistra, l'unico possibile per mantenere la salita nel range delle arrampicate classiche... Per andare dritti  i casi sono due: prendere l'elicottero o bere una pozione che ti trasforma “illico et immediate” in Ermanno Salvaterra (in questo secondo caso, pur avendo garanzia assoluta di successo sulla parete, dovresti mettere in conto effetti secondari devastanti...).
Enrico si getta a sinistra, cosa che peraltro non lo sconvolge più di tanto, dato il suo orientamento politico, ma anche in questo caso (come nella politica) esagera e si sbilancia, girandosi verso lo strapiombo.

Uh madonna uh signor...”, gli scappa detto.

La madonnina della nicchia precedente s'incazza come una biscia per l'imprecazione e lo fa scivolare indietro. Fiore riceve così un carico di cento kilogrammetri sui suoi riccioli indomiti.
Tutto da rifare...
Al terzo tentativo la situazione è la seguente:
          Marco non ha più avambracci umani, ma sembra la caricatura di Popeye (c'è chi giura di aver anche notato il tatuaggio a forma di ancora e la pipa in bocca);
          Fiore ha i capelli stirati, nessun riccio e nessun capriccio quindi,  quasi fosse riuscito a convincere l'Annamaria Masè, la più eccentrica parrucchiera della valle nonché titolare del “Salone 2000” a Strembo (e che non usa un acido neanche a morire), a fargli un'acconciatura alla Demi  Moore di Ghost;
          Enrico è il Ghost di se stesso: cotto, sudato come Atlante, vecchio, arteriosclerotico e di perdipiù di sinistra estrema, quindi contornato da spiriti maligni che gli ottundono le percezioni mentali e cercano di trascinarlo all'inferno.

In quella situazione da vacqueros cercano di ristabilire un senso della vita.... Poi Enrico ha un attimo di scoramento e si pente.

Bagai, ghe la fu pu...”
La crisi mistica è all'apoteosi.
Fiore, che è cresciuto a pane e libro cuore, si mette la giacchetta di Garrone e aggrappandosi ad un chiodo propone la soluzione vincente.
La soluzione, confesserà poi, gli era stata ispirata dalla faccia da mummia del nostro ragioniere:  bisognava infatti fare una piramide.
Il problema è che lui (homus  normolineus) sarà l'impalcatura osteoarticolare sulla quale l'ursus arctos horribilis (impiallicciato da ragioniere musicofilo), dovrà  arrampicarsi, per superare l'ostacolo.
I cento e più  kiletti del nostro Enrico montano così sul femore prima  e sulla spalla poi del mitico eroe, consentendo ai tre desperados di conquistare (sic!) la cima.

Il resto è storia... birre e pacche sulle spalle (dolenti) di Fiore.
Ai posteri spetterà il dilemma se beatificare Fiore per  il sacrificale tributo alla cordata, incaprettare Max Bombè per avere dato  al gruppo informazioni false e tendenziose o eleggere Marco a guisa di affidabile condottiero sioux verso la Little Big Horn della Rendena.
Una cosa è certa: Enrico, potrà scrivere, oltre alla dissertazione anzidetta sui metodi “ortodossi e non” di progressione in arrampicata, anche un memoriale sullo scampato pericolo.

“Corna rossa, non avrai il mio scalpo”, ad esempio, non sarebbe male come titolo...

 

Inverno 2002

Massimo Anile

 

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