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 la recensione cinematografica di intra i sass 

Titolo: Khangri – La montagna
Autore: Nabin Subba

Produzione: Sundar Joshi & A.P. Sherpa, Katmandu, Nepal, 1996
Distribuzione: Vivalda Editori, Torino. 1997
Collana: “I capolavori del Cinema di Montagna”
Durata: 77 min. – colore
Prezzo: € 18,02

 

Khangri – La montagna recensione di Mauro Mazzetti

Non so se questo sia il primo film girato e prodotto da nepalesi – o il più importante. Non so neanche se il regista sia un enfant prodige – o un consumato professionista. Certo, “Khangri” ha ottenuto un riconoscimento speciale dalla giuria al Filmfestival di Trento nel 1996; scorrendo poi la succinta biografia del regista, se ne riconosce l'impegno sociale a favore del suo paese. Resta il fatto che, non molto tempo fa, una pellicola così sarebbe stata probabilmente etichettata come underground, da quelle sale cinematografiche che erano collocate appunto “sotto terra”, in cantine o rimesse recuperate alla decima musa.
Che invece un circuito commerciale (quindi con precise, ferree ed inderogabili regole di mercato) si sia occupato delle condizioni di vita degli sherpa, non può che far ben sperare per un seppur limitato cambio di tendenza riguardo all'approccio verso tematiche e situazioni finora misconosciute.

La trama di “Khangri” è assai semplice. Il protagonista Pemba è un ex scalatore, vissuto all'estero per molti anni; il suo ritorno è contrassegnato dal passato che lui vorrebbe far rivivere, alla ricerca del tempo perduto, sperando che nulla sia cambiato. Eppure molto si è trasformato, forse in meglio, forse in peggio; l'“andare avanti, oltre”, cioè il “progresso”, ha inevitabilmente cambiato la vita della popolazione sherpa. E' sì arrivata la corrente elettrica, però nel contempo molti antichi monasteri sono stati soppiantati da costruzioni in cemento; il denaro adesso gira di più, ma di più sono le famiglie che piangono morti in montagna, quella montagna che sempre compare nel film, evidente o immanente.
La semplicità immutata del vivere quotidiano cozza con la modernità e con gli agi portati dal turismo e dalla fine dell'isolamento; le antiche tradizioni degli avi fanno a botte con l'omologazione concettuale di uno schema occidentale, quindi estraneo.

Anche l'ex scalatore è simbolo della contraddizione di fondo che agita e rimescola la popolazione sherpa. Il simbolo di questa contraddizione è rappresentato da un bastoncino da trekking, che Pemba porta sempre con sé, durante le varie tappe del suo personale percorso della memoria e del ricordo. Questo attrezzo “alieno” lo accompagna nelle varie scene del film: dai difficili incontri con la donna di cui era (ed è) innamorato, e che è diventata monaca dopo la morte del marito in montagna, al tentativo impossibile di scuotere un suo vecchio compagno di scalata, salito quattro volte sull'Everest e ridotto a rottame umano dall'alcool; dal momento lieve e struggente della danza comune al conflitto generazionale con il figlio di un suo amico, anch'egli non tornato dalla montagna.

Il giovane non sente ragioni e parte con una spedizione per l'Everest: a diciott'anni il mondo lo si ha in tasca, soprattutto quando sembrerebbe dare la svolta decisiva alla propria vita con il raggiungimento del benessere economico e della fama imperitura. Il ragazzo raggiungerà la vetta, ma morirà travolto da una valanga.

In un crescendo di tensione drammatica ed emotiva, le atmosfere suggestive del film coinvolgono ed avvincono; dietro la narrazione piana ed anche un po' naif, le tematiche sociali importanti ed irrinunciabili inducono a riflettere.
 

Mauro Mazzetti
Genova, gennaio 2003


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