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la recensione cinematografica di intra i sass |
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Titolo:
Khangri – La montagna |
Khangri – La montagna recensione di Mauro Mazzetti |
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Non so se questo sia il primo film
girato e prodotto da nepalesi – o il più importante. Non so neanche se il
regista sia un enfant prodige – o un consumato professionista.
Certo, “Khangri” ha ottenuto un riconoscimento speciale dalla giuria al
Filmfestival di Trento nel 1996; scorrendo poi la succinta biografia del
regista, se ne riconosce l'impegno sociale a favore del suo paese. Resta
il fatto che, non molto tempo fa, una pellicola così sarebbe stata
probabilmente etichettata come underground, da quelle sale
cinematografiche che erano collocate appunto “sotto terra”, in cantine o
rimesse recuperate alla decima musa. La trama di “Khangri” è assai
semplice. Il protagonista Pemba è un ex scalatore, vissuto all'estero per
molti anni; il suo ritorno è contrassegnato dal passato che lui vorrebbe
far rivivere, alla ricerca del tempo perduto, sperando che nulla sia
cambiato. Eppure molto si è trasformato, forse in meglio, forse in peggio;
l'“andare avanti, oltre”, cioè il “progresso”, ha inevitabilmente cambiato
la vita della popolazione sherpa. E' sì arrivata la corrente elettrica,
però nel contempo molti antichi monasteri sono stati soppiantati da
costruzioni in cemento; il denaro adesso gira di più, ma di più sono le
famiglie che piangono morti in montagna, quella montagna che sempre
compare nel film, evidente o immanente. Anche l'ex scalatore è simbolo della contraddizione di fondo che agita e rimescola la popolazione sherpa. Il simbolo di questa contraddizione è rappresentato da un bastoncino da trekking, che Pemba porta sempre con sé, durante le varie tappe del suo personale percorso della memoria e del ricordo. Questo attrezzo “alieno” lo accompagna nelle varie scene del film: dai difficili incontri con la donna di cui era (ed è) innamorato, e che è diventata monaca dopo la morte del marito in montagna, al tentativo impossibile di scuotere un suo vecchio compagno di scalata, salito quattro volte sull'Everest e ridotto a rottame umano dall'alcool; dal momento lieve e struggente della danza comune al conflitto generazionale con il figlio di un suo amico, anch'egli non tornato dalla montagna. Il giovane non sente ragioni e parte con una spedizione per l'Everest: a diciott'anni il mondo lo si ha in tasca, soprattutto quando sembrerebbe dare la svolta decisiva alla propria vita con il raggiungimento del benessere economico e della fama imperitura. Il ragazzo raggiungerà la vetta, ma morirà travolto da una valanga. In un crescendo di tensione drammatica
ed emotiva, le atmosfere suggestive del film coinvolgono ed avvincono;
dietro la narrazione piana ed anche un po' naif, le
tematiche sociali importanti ed irrinunciabili inducono a riflettere. |
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Mauro Mazzetti
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copertina
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