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 la recensione cinematografica di intra i sass 

Titolo: Everest senza maschera
Autore: Leo Dickinson

Produzione: HTV Wales– Cardiff – GB 1979
Distribuzione: Vivalda Editori, Torino.
Collana: “I capolavori del Cinema di Montagna”
Durata: 54 min. – colore
Prezzo: € 18,02

Titolo: Everest dal mare alla vetta
Autore: Michael Dillon

Produzione: Michael Dillon Film Enterprise – Australia 1992
Distribuzione: Vivalda Editori, Torino.
Collana: “I capolavori del Cinema di Montagna”
Durata: 61 min. – colore
Prezzo: € 18,02

Titolo:Dispersi sull'Everest
Autore: Peter Firstbrook

Produzione: Nova/WGBH e BBC 1999
Distribuzione: Vivalda Editori, Torino.
Collana: “II capolavori del Cinema di Montagna”
Durata: 50 min. – colore
Prezzo: € 18,02

 

Everest, una triade di idee e di film recensione di Mauro Mazzetti

L'Everest ha sempre colpito l'immaginario della gente comune, oltreché degli appassionati di montagna. E' sempre stato simbolo di lontananza, sia orizzontale sia verticale, dalla realtà di tutti i giorni; la quotidianità ha fatto scudo alle nostre esistenze ‘normali’, tenendoci discosti dal simbolo stesso delle ascensioni, dalla vetta per eccellenza, ché più su non si può andare.
Tutte le salite all'Everest, dalla prima (forse) di Hillary e Tenzing in avanti, hanno marcato la storia ed il vissuto delle persone che hanno raggiunto la cima o che ne hanno tentato la vetta: Everest quindi come archetipo della montagna, come obiettivo ultimo, come colonne d'Ercole dell'alpinismo himalayano. Anche se altri ottomila sono più difficili ed impegnativi, tecnicamente più remunerativi e di soddisfazione, l'Everest è ‘il monte’ per eccellenza.
Eppure, nonostante l'enfasi e la retorica che spesso hanno accompagnato le salite delle sue pareti, l'ottomila più alto conserva ancora un fascino sottile, distante dalle spedizioni commerciali e dalle grancasse pubblicitarie: questi tre film ne sono un piccolo grande esempio. Alla base di ciascuno di essi c'é un'idea, una novità, una sfida ‘altra’ rispetto alla routine di una salita classica, ancorché coinvolgente.

Di Messner si è già detto tutto ed il contrario di tutto: il suo “Everest senza maschera” è il frutto di una grande capacità innovativa, riconosciutagli a posteriori, di vedere oltre gli schemi preconcetti e cristallizzati. Salire senza ossigeno sino in vetta era stato sempre considerato un suicidio razionale e scientificamente studiato: l'altoatesino, in compagnia di Peter Habeler, ha dimostrato come sia possibile infrangere una barriera fisica e psicologica. Viene metaforicamente chiuso l'ombrello dell'“aria inglese”, come gli sherpa chiamavano l'ossigeno, e ci si pone di fronte alla montagna in maniera diversa, più naturale e più spontanea. I due alpinisti salgono l'Everest in maniera costante e decisa, veloce e sicura, respirando solo l'aria rarefatta degli ottomila, in perfetta sintonia con l'ambiente circostante; l'allenamento testato in grandi salite europee (si ricordi fra tutte la Nord dell'Eiger a tempo di record), riduce drasticamente la permanenza di Messner e di Habeler nella “zona della morte”, a tutto vantaggio della loro integrità. In questo tripudio entusiastico, legato alla innovativa prestazione, spiace solo ricordare come l'efficace sodalizio verrà meno al ritorno in Europa, per polemiche difficili da comprendere e da spiegare.

Certo che gli australiani sono gente un po' matta, sicuramente diversa dagli altri, forse perché la loro razza è stata impastata in un crogiuolo eterogeneo di emigranti, galeotti, aborigeni. Fatto sta che Tim Mac Cartney-Snape, non pago di aver già salito l'Everest per una via nuova, intende ritornarvi attenendosi al detto latino “ab ovo incipere”. Cominciare dall'uovo, cioè dall'inizio di tutta la storia: quindi, arrivare in vesta all'Everest partendo dal mare, livello zero di altezza. Ma non basta; come mezzo di locomozione sceglie il classico “cavallo di S. Francesco”. Emerso dalle acque dell'Oceano Indiano, Tim cammina e cammina, come nelle favole, attraversando sette pianure, valicando sette colli, salendo sette monti, nuotando in sette fiumi (Gange compreso con le relative incognite di infezioni). Fino al campo base lo accompagna la graziosa mogliettina, anch'essa ‘pazza furiosa’ nonché medico condotto in Australia, che lo assiste e fornisce l'assistenza sanitaria. Campo dopo campo, l'australiano sale da solo fino a raggiungere la cima: un bel risultato, che fa di “Everest dal mare alla vetta” un film godibile, impastato con il più classico ‘humour’ anglosassone.

“Oh my God... oh my God!” La voce rotta dall'emozione, il fiato corto per l'altitudine, l'alpinista Conrad Anker simboleggia appieno lo spirito di cui é permeato il film “Dispersi sull'Everest”. Il ritrovamento del corpo di Mallory sulla parete Nord riapre l'annosa questione su quale sia stata la prima cordata a salire l'Everest: Mallory-Irvine o Hillary-Tenzing? La squadra di alpinisti americani non intende conquistare la vetta, quanto piuttosto risolvere il mistero della scomparsa di Mallory e di Irvine, visti per l'ultima volta tentare un'impresa ritenuta impossibile. Scene d'epoca si alternano alle immagini della spedizione, in un crescendo di emozione e di tensione, quasi si trattasse di un racconto giallo; non ci sarà una soluzione, ma solo delle ipotesi, peraltro contrastanti all'interno della stessa squadra e non suffragate da prove definitive. Solo indizi, soltanto supposizioni costruite su brandelli di fatti o di congetture, rimessi insieme con il collante della logica e del ragionamento. La controprova non c'é: in mancanza del ritrovamento della macchina fotografica, non siamo in grado di dirimere la questione di fondo: Mallory ed Irvine raggiunsero o no la vetta dell'Everest, cadendo poi durante la discesa? In fondo è meglio così; l'alone di mistero permane, avvolgendo la montagna e restituendole il reale valore che merita. Un valore che trae origine dagli uomini che hanno scritto la storia dell'Everest.

 

Mauro Mazzetti
Genova, giugno 2002


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