Cho Oyu
Obiettivo 8201 metri

 

di Claudio Mastronicola

 

Himalaya, Cho Oyu (8201 m), versante Nord-Ovest: cronaca di un'estenuante ascensione alla Dea della Pietra Turchese. Spedizione italiana Tibet 97, settembre-ottobre 1997.

 

27 agosto 1997, finalmente si parte.
Dopo mesi di preparazione, timori e dubbi eccoci pronti ad intraprendere la nostra fantastica ed ambiziosa avventura.
Il gruppo, omogeneo e affiatatissimo, è formato da 22 persone, compresi i trekker; tutti alla prima esperienza su un ottomila ma con numerose spedizioni extraeuropee alle spalle.

Ci incontriamo all'aeroporto di Roma, siamo tutti apparentemente tranquilli ma in realtà il nostro pensiero ci ha preceduti in quei luoghi che in questi anni abbiamo studiato attentamente, rivisitandone mentalmente tutti i particolari, le salite, i campi, le pareti... la vetta!
Beh, sì, così è proprio facile, ora però ci attende la realtà, dura, spietata, difficile da impietosire, che consentirà solo a 4 o 5 di noi di ritirare gli interessi di due o tre anni d'intensi allenamenti e rinunce d'ogni genere.
Una sola certezza alberga in tutti noi: “comunque vadano le cose ci rimarrà un'esperienza unica ed irripetibile”.
Incontriamo Fausto De Stefani che si unisce a noi, va a tentare il suo decimo ottomila: il Lhotse. Ne approfittiamo per scambiarci opinioni, tecniche, motivazioni; insomma, senza dubbio un'eccezionale occasione di crescita.

Alle 17:24 l'aereo decolla. Dopo qualche minuto il burbero capo spedizione, il lombardo Giacomo Scaccabarozzi, ci  mette subito al lavoro: dobbiamo firmare 3000 cartolina (sic!)... ma le fatiche non dovevano cominciare al Campo Base?
Tutto sommato, però, è un'incombenza alla quale ci sottoponiamo molto volentieri: le cartoline rappresentano, infatti, l'inequivocabile conferma dell'affetto e dell'entusiastico appoggio che abbiamo ricevuto dalla gente, da ogni parte d'Italia, spesso anche solo con una semplice significativa lettera. Di questo non potrò mai essere grato abbastanza.

Alle 9:00 locali di giovedì 28 agosto siamo immersi in un mondo caleidoscopico dal fascino irresistibile fatto di colori, culture diverse, religioni, santoni ed animali, i più disparati possibili, ma anche di odori (quasi sempre cattivi ed insopportabili), sporcizia, burocrazia asfissiante, disorganizzazione, caldo ed umidità brutale.
Già, siamo a Kathmandu.
Per due giorni visitiamo in lungo ed in largo la capitale nepalese, espletando, nel contempo, anche le complesse formalità burocratiche con l'agenzia e le autorità locali.

Sabato 30 agosto partiamo in aereo alla volta di Lhasa, posta a 3600 metri di altitudine, capitale del Tibet, regione autonoma della Cina; siamo consapevoli che il brusco cambiamento di altitudine (dai 1300 metri di Kathmandu ai 3600 della capitale tibetana) potrebbe provocarci qualche problema, ma i danni dei monsoni, che hanno bloccato le vie di accesso al Tibet, non ci lasciano scelta: possiamo partire solo in aereo.

Nel tardo pomeriggio siamo a Lhasa.
L'influenza cinese non ha mancato di soffocare i segni distintivi della cultura locale e siamo accolti da semafori sgangherati, buffi vigili, palazzi sgradevoli (senz'altro fuori posto) e militari, militari ed ancora militari.
All'imbrunire, sulle vie principali della città si accendono velate luci colorate ed i marciapiedi si affollano (letteralmente) di prostitute cariche di fastidioso trucco e di grande... malinconia. Siamo delusi, profondamente; passeggiamo, in gruppo, per le vie della città, in sintomatico silenzio.
Il giorno dopo è in programma la visita del maestoso Potala (il Vaticano dei Buddisti) costituito da ben 1200 stanze unite fra loro da terrazzini, scale, viottoli e corridoi. Prima dell'avvento dei cinesi vi risiedeva il Dalai Lama, la massima autorità religiosa e civile del Tibet (attualmente esiliato in India), insieme a circa 6000 monaci; ne rimangono oggi solo 400.
Nella seconda parte della giornata ci trasferiamo in montagna per un ascensione di acclimatamento ad una cima di 4300 metri e visitiamo l'isolato monastero di Sera.
Nei giorni successivi prosegue la delicata fase di acclimatazione con le stesse modalità, riusciamo così a visitare i più prestigiosi monasteri del Tibet, veri e propri gioielli di architettura ed arte.

Prepariamo, intanto, il viaggio verso il villaggio di Tingri, ultimo, minuscolo avamposto dell'uomo prima della solitudine della montagna. Percorreremo circa 800 chilometri di strada sterrata attraversando tutto il Tibet in direzione sud, verso l'Himalaya, in un'immersione accattivante nella vera ed incontaminata cultura locale; supereremo passi elevati come quello di Jia Tsuo La di ben 5200 metri, permanendo ad un'altezza mai inferiore ai 3900 metri.

Venerdì 5 settembre siamo al Campo Base del Cho Oyu, posto a 4800 metri di quota.
Finalmente!
Per tre giorni, concentrati e decisi, effettuiamo salite sulle montagne circostanti ad altezze di 5500-5800 metri.

Sabato 6 il cuoco nepalese è caduto in coma per un edema cerebrale. Con prontezza mettiamo in uso la camera iperbarica e inseriamo lo sfortunato giovane che dopo tre ore è di nuovo sveglio e sta bene. E' salvo! La nostra prima importante vetta è raggiunta, il clima si fa ad un tratto gioioso.

Lunedì 8 settembre partiamo per il Campo Base Avanzato, posto a 5700 metri; ci attendono circa 30 chilometri di terreno morenico ad altezze che fanno già sentire abbastanza la mancanza di ossigeno.
Le condizioni fisiche di tutti gli alpinisti sono buone, quelle atletiche pure, pertanto il morale è alle stelle e sempre più uniti giungiamo al Campo Base Avanzato martedì 9 settembre. 

Il Campo sorge su una dorsale morenica. Non vi è spazio naturale per le nostre tende e dobbiamo ricavarcelo, faticosamente (per l'altitudine), spostando pietre e massi di considerevoli dimensioni.
Dopo lo sfiancante allestimento del Campo Base Avanzato, la giornata si conclude nella spaziosa tenda mensa dove, dinanzi ad un bel the caldo, facciamo i programmi per l'acclimatazione ed il montaggio dei campi superiori.
I giorni che si susseguono sono impegnativi, il Campo 1 a 6300 metri è lontano e reso ancor più distante da un lungo ed esasperante pezzo morenico fatto di inutili saliscendi, che precede la ripida salita finale.
Più di qualcuno comincia ad accusare sintomi preoccupanti di malessere: dissenteria, mal di capo, mal di stomaco, principi di congelamento; tuttavia il lavoro del dottor Caruso e del dottor Burgoa (la cui elevata professionalità si è rivelata determinante) è limitato.

Il 19 settembre conquistiamo la difficile posizione del Campo 3 posto a 7400 metri di altezza.
Il tempo purtroppo non è dei migliori; ogni mattina nevica, la temperatura è particolarmente rigida e dobbiamo partire sempre al sorgere del sole sottraendo ore preziose all'ascensione.

Domenica 21 settembre, inaspettatamente, Giacomo Scaccabarozzi giunge in vetta tra la gioia di tutti noi; la salita non era programmata e solo le favorevolissime condizioni meteo unite al buon stato di salute hanno convinto Giacomo a tentare l'ultimo, difficile e durissimo salto alla vetta dal Campo 3 dove era giunto con Marco Perego.
Nei giorni successivi iniziano le salite definitive delle cordate alla vetta. 
Le cattive condizioni del tempo respingono alpinisti di fama come Ulderio Mazzoleni, bloccato dalla fatica e dall'intenso freddo a circa 7700 metri, Andry Dell'Oro (proveniente dalla difficile Nord dello Shivling) fermato ai 7400 del Campo 3, Eugenio Manni ostacolato dal vento insidiosissimo, la guida alpina Marco Corti ricacciato da un malessere al Campo 2 (7050 metri) e così via.

Abbastanza riposato e rifocillato, ma pieno di preoccupazioni per l'ostilità che sta mostrando questo gigante himalayano, martedì 23 settembre parto dal Campo Base per tentare la vetta del Cho Oyu. Con me, questa volta, s'incamminano (idealmente) l'inseparabile compagno di tante avventure Silvano Bianchi, i miei maestri Memmino Buccioli e Mario Maniccia, anni di speranze e sacrifici, tanti, tantissimi amici e sostenitori.
Mi muovo alle 11:00 con uno zaino abbastanza carico. Il cuore mi batte forte so che non si tratta di un'alterazione cardiaca; i compagni mi abbracciano incitandomi con tutto il calore che riescono ad esprimere.
Mi districo agevolmente sulla morena ormai senza segreti. Avverto tuttavia una strana stanchezza, sicuramente è il protrarsi della permanenza ad alta quota; m'impongo di non accelerare l'andatura: è troppo rischioso.
Alle 17:40 sono ai 6300 del Campo 1, stanco ma senza alcun tipo di malanno; sciolgo della neve e preparo un'apprezzatissima minestra da dividere con gli infreddoliti compagni di ritorno dai campi alti.

Un giorno di riposo in una giornata davvero brutta, culminata in una vera e propria bufera che ha portato i termometri a meno 30°.  Alle 19 siamo già tutti nei sacchi a pelo dopo aver consumato il ‘succulento’ pasto liofilizzato e qualche pillola.
Giovedì 25 salgo al Campo 2; le operazioni di fusione della neve sono abbastanza laboriose, ancora illustri compagni rientrano dopo aver fallito i rispettivi tentativi sempre per le stesse maledette, impietose, cause: fatica, freddo, vento.
Ed un brivido di gelo mi scorre nelle vene!
Ma è solo un attimo, lo sconforto lascia subito spazio al giovanile orgoglio e, impacciato dall'inseparabile imbragatura, mi avvio per la ripidissima parete che mi porterà ad uno dei passaggi chiave dell'intera ascensione: il primo seracco (6600 metri).

Arriviamo alla base della difficile parete in fila sul ghiacciaio, cerchiamo di riparare il volto dalla brezza gelata che arriva dell'Everest, uno alla volta superiamo la parete ansimando sempre più forte, guadagnando centimetro dopo centimetro, consumandoci di fatica lavorando con le due piccozze, pesanti come macigni.
Finalmente la testa spunta dal seracco, m'invade un senso d'impotenza: un altopiano di oltre 2 chilometri ci divide dalla successiva parete: sarà durissima, la neve è fresca, affondiamo. Non ce la farò...

Continuiamo contro il vento che si fa sempre più incessante e violento; sulla seconda parte utilizziamo tutte le nostre forze per riuscire ad avere la meglio. Dopo circa un'ora abbiamo superato anche il secondo grande ostacolo, reso ancora più ostile dalla bufera di neve che ci sottraeva energie preziose, inesorabilmente.
Alle 19:15 siamo ai 7050 metri del Campo 2, affaticati ma felici.
Entriamo in tenda con tutti i nostri abiti gelati, prepariamo qualcosa da mangiare, beviamo molto e ci infiliamo, con infinito appagamento, nei sacchi a pelo.

Venerdì 26, al risveglio, la gola è arsa, fa molto freddo, attendiamo il sole per uscire dai sacchi completamente ricoperti di un sottile strato di ghiaccio; Luis e Marco Airoldi alle 12:08 partono per il Campo 3. 
Nel tardo pomeriggio vediamo avvicinarsi al campo due figure barcollanti; presto le riconosciamo, sono Marco Perego e Giorgio Cemmi, a cui andiamo incontro: ci comunicano che sono giunti in vetta questa mattina. Sono visibilmente esausti ma felici; dividiamo con loro questi indimenticabili momenti. Il nostro morale è improvvisamente salito alle stelle.

Domenica 28 settembre, giorno della mia salita al Campo 3, rientrano Luis e Marco Airoldi, quest'ultimo è riuscito a giungere sulla vetta del Cho Oyu, Luis invece si è bloccato a 8070 metri, peccato.
Intorno a mezzogiorno inizio la ripidissima salita verso il Campo 3, lasciando sul percorso tante energie e... ogni speranza. Nel pomeriggio, la vista della tenda a 7400 metri mi riempie di gioia; comincia a far freddo ed a farsi sentire la mancanza di ossigeno. A parte il naturale affaticamento, sto bene. Cerco di bere molto, ma la fusione del ghiaccio è così lunga e faticosa, come faticoso è qualsiasi gesto compiuto a più di 7000 metri. Dormo bene.

Lunedì 29 rimaniamo costretti in tenda per una violenta bufera di neve; non ci voleva, la permanenza a questa quota è debilitante. Con il compagno Marco Anghileri di Lecco, uno dei più quotati alpinisti d'Europa, cerchiamo di nutrirci e riposare; ancora una volta dormo discretamente bene.

Martedì 30, inaspettatamente, Marco sente che le mani cominciano a dargli qualche problema, vorrebbe tentare subito ma la montagna dice ancora NO, il vento soffia violento intorno a noi; impossibile solo mettere la testa fuori dalla tenda.
Lo sconforto cerca di farsi strada approfittando di questi eventi, ma il pensiero di chi ha avuto fiducia in noi prevale, “dobbiamo” tenere duro; è però molto difficile.
Marco mi comunica più tardi la sua volontà di scendere; tento di dissuaderlo, è inutile, le mani gli fanno pericolosamente male, deve rinunciare. Visibilmente avvilito, mi saluta e con affetto mi incita a farcela; in quel momento mi assalgono tanti dubbi e paure.

Mercoledì 1 ottobre, molto presto sento che il vento non soffia più. forse è il momento giusto, devo approfittare, mi preparo alla svelta, le borracce sona già piene di acqua e the, un pensiero ai miei cari e a... Dio.
Parto per gli ottocento metri più lunghi e faticosi della mia vita.
Tutto è molto, molto, molto più duro di quanto immaginassi.
E' determinante trovare un ritmo continuo. Con esasperante lentezza guadagno metri preziosi e col passare del tempo la vetta si avvicina, ma io la vedo sempre lontana.
Giungo alla fascia di rocce; per fortuna c'è la corda fissa che mi viene in aiuto. Supero anche le rocce. Passano le ore e sono sempre più debilitato. Solo ora, forse, mi rendo veramente conto dell'imponenza di un ottomila... solo ora!
Spesso devo fermarmi un poco per muovere le dita dei piedi e delle mani per fronteggiare il pungente freddo; penso con paura a cosa dovesse accadere se fossi costretto a fermarmi a lungo.
Respiro con immensa fatica, più di qualche volta cado in ginocchio sulla neve ghiacciata; sarebbe bellissimo ritornare, rinunciare, ci ho pensato più di una volta, sono stato spesso sul punto di voltare le spalle a quel dannato Cho Oyu ma, all'ultimo istante, i lunghi anni di preparazione ed i numerosi sacrifici compiuti mi hanno indotto ad “andare ancora un po' più in là”.
Arrancando con disumana fatica, ma rabbiosamente determinato, proseguo sull'ostica parete ghiacciata fino a giungere all'inizio del grande plateau sommitale (8100 metri); la cima sembra ormai a portata di mano, ma è solo un'illusione, l'ennesima beffa di quest'immensa montagna.

Per percorrere tutto il tratto finale impiego ore e tutte le mie residue energie: incredibile, pareva di essere arrivati. Ormai solo il Cho Oyu potrebbe dirmi di no, io non cederei mai; nonostante tutto vado avanti contando 15 secondi per ogni passo, è una scena pietosa, ma il gigante vi assiste insensibile, è uno spettacolo al quale è abituato.

NON C'E' PIU' NULLA DA SALIRE... DIO, SONO ARRIVATO!!
Incredulo ma felice sono sulla vetta del Cho Oyu a 8201 metri di altezza, il respiro è affannosissimo, le forze mi abbandonano per un momento e cado in ginocchio piangendo per l'immensa gioia, non riesco a pensare a nulla, solo che sono a metà strada, devo tornare...

Uno spettacolo da sogno si para davanti ai miei occhi: l'Everest, maestoso come sempre, finalmente lo scruto alla pari; a nord-est lo Shisha Pangma e chilometri e chilometri di vette innevate, che si perdono all'orizzonte.
Ma, un momento, il freddo è più intenso del normale, le nubi, al di sotto di me, si sono messe a viaggiare impazzite, sì, sta arrivando una bufera, il termometro pare che segni oltre 50° sotto zero, devo fuggire, subito! Scatto qualche foto, la macchinetta è completamente coperta di neve, scendo ansimando profondamente, non solo per la quota.

Più tardi ho difficoltà nel movimento delle mani, mi rendo subito conto della gravità della situazione: le mani sono congelate, le friziono continuamente, tutto inutile; due giorni dopo cominceranno ad annerirsi. Trovo quindi grande difficoltà nella discesa a causa della crescente cattiva funzionalità delle mani. Già alla prima parete ghiacciata, durante l'uso, perdo il discensore e due moschettoni; non mi era mai capitato, sono davvero preoccupato.
Alla seconda parete, a 6600 metri circa, raggiunta con estrema difficoltà, mi fermo, pianto la mia tenda ed attendo i colleghi, non posso fare altro.
Gli alpinisti francesi con la loro radio avvertono i compagni della mia situazione.

La mattina successiva gli amici Silvio Mondinelli, Paolo Paglino e Fabio Iacchini, guide alpine del Monte Rosa, dal Campo 1 mi raggiungono e mi aiutano a scendere in corda doppia il seracco, ultimo ostacolo tecnico alla discesa. 
Durissima, sotto il profilo fisico, il ritorno al Campo Base Avanzato; in totale, dalla vetta, ci sono voluti 5 giorni.

Comprensibili ragioni di spazio non mi consentono di dilungarmi sulle sensazioni e sui problemi determinati da quest'avventura; solo una considerazione, che ritengo importante, vorrei poter estrinsecare: 
E' FINITA!
Già, è finita la ricerca documentale sulla montagna, durata quasi tre anni, sono finiti i durissimi allenamenti, quotidiani, è finita l'indispensabile ricerca di sponsor e sostenitori vari, sono finite le massacranti ma frequenti trasferte sulle Alpi, sono finite le belle discussioni con gli interessati frati di Trisulti e gli amici del Parco Nazionale d'Abruzzo alla fine di ogni allenamento, sono finite le indispensabili riunioni organizzative al CAI di Colleferro, sono finite le numerosissime visite mediche presso i centri TEAM e SALUS di Frosinone, sono finite le interminabili giornate passate al BIVACCO con Massimiliano per l'allestimento del sito internet (giudicato uno dei più belli d'Europa) e con Cristian per la delicatissima scelta dei materiali d'alta quota, insomma sono finiti due anni di meticolosa preparazione.
Lo ammetto, ne sento già ora la nostalgia.
Ma che abbia ragione chi sostiene che gli alpinisti sono dei... PAZZI??

 

Gennaio 1998

Claudio Mastronicola

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

MARIO FANTIN, I 14 ottomila - Antologia, Bologna 1964.

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