27
agosto 1997, finalmente si parte.
Dopo mesi di preparazione, timori e dubbi eccoci pronti ad intraprendere
la nostra fantastica ed ambiziosa avventura.
Il gruppo, omogeneo e affiatatissimo, è formato da 22 persone, compresi
i trekker; tutti alla prima esperienza su un ottomila ma con numerose spedizioni extraeuropee alle spalle.
Ci incontriamo all'aeroporto di Roma, siamo tutti apparentemente
tranquilli ma in realtà il nostro pensiero ci ha preceduti in quei
luoghi che in questi anni abbiamo studiato attentamente, rivisitandone
mentalmente tutti i particolari, le salite, i campi, le pareti... la
vetta!
Beh, sì, così è proprio facile, ora però ci attende la realtà, dura, spietata, difficile da impietosire, che consentirà solo a 4 o 5 di
noi di ritirare gli interessi di due o tre anni d'intensi allenamenti e
rinunce d'ogni genere.
Una sola certezza alberga in tutti noi: “comunque vadano le cose ci
rimarrà un'esperienza unica ed irripetibile”.
Incontriamo Fausto De Stefani che si unisce a noi, va a tentare il suo
decimo ottomila: il Lhotse. Ne approfittiamo per scambiarci opinioni,
tecniche, motivazioni; insomma, senza dubbio un'eccezionale
occasione di crescita.
Alle 17:24 l'aereo decolla. Dopo qualche minuto il burbero capo
spedizione, il lombardo Giacomo Scaccabarozzi, ci mette subito al
lavoro: dobbiamo firmare 3000 cartolina (sic!)... ma le fatiche non
dovevano cominciare al Campo Base?
Tutto sommato, però, è un'incombenza alla quale ci sottoponiamo
molto volentieri: le cartoline rappresentano, infatti, l'inequivocabile
conferma dell'affetto e dell'entusiastico appoggio che abbiamo ricevuto
dalla gente, da ogni parte d'Italia, spesso anche solo con una semplice
significativa lettera. Di questo non potrò mai essere grato abbastanza.
Alle 9:00 locali di giovedì 28 agosto siamo immersi in un mondo
caleidoscopico dal fascino irresistibile fatto di colori, culture
diverse, religioni, santoni ed animali, i più disparati possibili, ma
anche di odori (quasi sempre cattivi ed insopportabili), sporcizia,
burocrazia asfissiante, disorganizzazione, caldo ed umidità brutale.
Già, siamo a Kathmandu.
Per due giorni visitiamo in lungo ed in largo la capitale nepalese,
espletando, nel contempo, anche le complesse formalità burocratiche con
l'agenzia e le autorità locali.
Sabato 30 agosto partiamo in aereo alla volta di Lhasa, posta a 3600
metri di altitudine, capitale del Tibet, regione autonoma della Cina;
siamo consapevoli che il brusco cambiamento di altitudine (dai 1300
metri di Kathmandu ai 3600 della capitale tibetana) potrebbe provocarci
qualche problema, ma i danni dei monsoni, che hanno bloccato le vie di
accesso al Tibet, non ci lasciano scelta: possiamo partire solo in
aereo.
Nel tardo pomeriggio siamo a Lhasa.
L'influenza cinese non ha mancato di
soffocare i segni distintivi della cultura locale e siamo accolti da
semafori sgangherati, buffi vigili, palazzi sgradevoli (senz'altro fuori
posto) e militari, militari ed ancora militari.
All'imbrunire, sulle vie principali della città si accendono velate
luci colorate ed i marciapiedi si affollano (letteralmente) di
prostitute cariche di fastidioso trucco e di grande... malinconia. Siamo
delusi, profondamente; passeggiamo, in gruppo, per le vie della città,
in sintomatico silenzio.
Il giorno dopo è in programma la visita del maestoso Potala (il
Vaticano dei Buddisti) costituito da ben 1200 stanze unite fra loro da
terrazzini, scale, viottoli e corridoi. Prima dell'avvento dei cinesi vi
risiedeva il Dalai Lama, la massima autorità religiosa e civile del
Tibet (attualmente esiliato in India), insieme a circa 6000 monaci; ne
rimangono oggi solo 400.
Nella seconda parte della giornata ci trasferiamo in montagna per un
ascensione di acclimatamento ad una cima di 4300 metri e visitiamo
l'isolato monastero di Sera.
Nei giorni successivi prosegue la delicata fase di acclimatazione con le
stesse modalità, riusciamo così a visitare i più prestigiosi
monasteri del Tibet, veri e propri gioielli di architettura ed arte.
Prepariamo, intanto, il viaggio verso il villaggio di Tingri, ultimo,
minuscolo avamposto dell'uomo prima della solitudine della montagna. Percorreremo circa 800 chilometri di strada sterrata attraversando tutto
il Tibet in direzione sud, verso l'Himalaya, in un'immersione
accattivante nella vera ed incontaminata cultura locale; supereremo passi elevati
come quello di Jia Tsuo La di ben 5200 metri, permanendo ad un'altezza
mai inferiore ai 3900 metri.
Venerdì 5 settembre siamo al Campo Base del Cho Oyu, posto a 4800 metri
di quota.
Finalmente!
Per tre giorni, concentrati e decisi, effettuiamo salite sulle montagne
circostanti ad altezze di 5500-5800 metri.
Sabato 6 il cuoco nepalese è caduto in coma per un edema cerebrale. Con
prontezza mettiamo in uso la camera iperbarica e inseriamo lo sfortunato
giovane che dopo tre ore è di nuovo sveglio e sta bene. E' salvo! La
nostra prima importante vetta è raggiunta, il clima si fa ad un tratto
gioioso.
Lunedì 8 settembre partiamo per il Campo Base Avanzato, posto a 5700
metri; ci attendono circa 30 chilometri di terreno morenico ad altezze
che fanno già sentire abbastanza la mancanza di ossigeno.
Le condizioni fisiche di tutti gli alpinisti sono buone, quelle
atletiche pure, pertanto il morale è alle stelle e sempre più uniti
giungiamo al Campo Base Avanzato martedì 9 settembre.
Il Campo sorge su una dorsale morenica. Non vi è spazio naturale per le
nostre tende e dobbiamo ricavarcelo, faticosamente (per l'altitudine),
spostando pietre e massi di considerevoli dimensioni.
Dopo lo sfiancante allestimento del Campo Base Avanzato, la giornata si
conclude nella spaziosa tenda mensa dove, dinanzi ad un bel the caldo,
facciamo i programmi per l'acclimatazione ed il montaggio dei campi
superiori.
I giorni che si susseguono sono impegnativi, il Campo 1 a 6300 metri è
lontano e reso ancor più distante da un lungo ed esasperante pezzo
morenico fatto di inutili saliscendi, che precede la ripida salita
finale.
Più di qualcuno comincia ad accusare sintomi preoccupanti di malessere:
dissenteria, mal di capo, mal di stomaco, principi di congelamento;
tuttavia il lavoro del dottor Caruso e del dottor Burgoa
(la cui elevata professionalità si è rivelata determinante) è
limitato.
Il 19 settembre conquistiamo la difficile posizione del Campo 3 posto a
7400 metri di altezza.
Il tempo purtroppo non è dei migliori; ogni mattina nevica, la
temperatura è particolarmente rigida e dobbiamo partire sempre al
sorgere del sole sottraendo ore preziose all'ascensione.
Domenica 21 settembre, inaspettatamente, Giacomo Scaccabarozzi giunge in
vetta tra la gioia di tutti noi; la salita non era programmata e solo le
favorevolissime condizioni meteo unite al buon stato di salute hanno
convinto Giacomo a tentare l'ultimo, difficile e durissimo salto alla
vetta dal Campo 3 dove era giunto con Marco Perego.
Nei giorni successivi iniziano le salite definitive delle cordate alla
vetta.
Le cattive condizioni del tempo respingono alpinisti di
fama come Ulderio Mazzoleni, bloccato dalla fatica e dall'intenso freddo a
circa 7700 metri, Andry Dell'Oro (proveniente dalla difficile Nord dello
Shivling) fermato ai 7400 del Campo 3, Eugenio Manni ostacolato dal
vento insidiosissimo, la guida alpina Marco Corti ricacciato da un
malessere al Campo 2 (7050 metri) e così via.
Abbastanza riposato e rifocillato, ma pieno di preoccupazioni per
l'ostilità che sta mostrando questo gigante himalayano, martedì 23
settembre parto dal Campo Base per tentare la vetta del Cho Oyu. Con me,
questa volta, s'incamminano (idealmente) l'inseparabile compagno di
tante avventure Silvano Bianchi, i miei maestri Memmino Buccioli e Mario
Maniccia, anni di speranze e sacrifici, tanti, tantissimi amici e
sostenitori.
Mi muovo alle 11:00 con uno zaino abbastanza carico. Il cuore mi batte
forte so che non si tratta di un'alterazione cardiaca; i compagni mi
abbracciano incitandomi con tutto il calore che riescono ad esprimere.
Mi districo agevolmente sulla morena ormai senza segreti. Avverto
tuttavia una strana stanchezza, sicuramente è il protrarsi della
permanenza ad alta quota; m'impongo di non accelerare l'andatura:
è troppo rischioso.
Alle 17:40 sono ai 6300 del Campo 1, stanco ma senza alcun tipo di
malanno; sciolgo della neve e preparo un'apprezzatissima minestra da
dividere con gli infreddoliti compagni di ritorno dai campi alti.
Un giorno di riposo in una giornata davvero brutta, culminata in una
vera e propria bufera che ha portato i termometri a meno 30°.
Alle 19 siamo già tutti nei sacchi a pelo dopo aver consumato il ‘succulento’ pasto liofilizzato e qualche pillola.
Giovedì 25 salgo al Campo 2; le operazioni di fusione della neve sono
abbastanza laboriose, ancora illustri compagni rientrano dopo aver
fallito i rispettivi tentativi sempre per le stesse maledette,
impietose, cause: fatica, freddo, vento.
Ed un brivido di gelo mi scorre nelle vene!
Ma è solo un attimo, lo sconforto lascia subito spazio al giovanile
orgoglio e, impacciato dall'inseparabile imbragatura, mi avvio per la
ripidissima parete che mi porterà ad uno dei passaggi chiave
dell'intera ascensione: il primo seracco (6600 metri).
Arriviamo alla base della difficile parete in fila sul ghiacciaio,
cerchiamo di riparare il volto dalla brezza gelata che arriva dell'Everest,
uno alla volta superiamo la parete ansimando sempre più forte,
guadagnando centimetro dopo centimetro, consumandoci di fatica lavorando
con le due piccozze, pesanti come macigni.
Finalmente la testa spunta dal seracco, m'invade un senso d'impotenza:
un altopiano di oltre 2 chilometri ci divide dalla successiva parete:
sarà durissima, la neve è fresca, affondiamo. Non ce la farò...
Continuiamo contro il vento che si fa sempre più incessante e violento;
sulla seconda parte utilizziamo tutte le nostre forze per riuscire ad
avere la meglio. Dopo circa un'ora abbiamo superato anche il secondo
grande ostacolo, reso ancora più ostile dalla bufera di neve che ci
sottraeva energie preziose, inesorabilmente.
Alle 19:15 siamo ai 7050 metri del Campo 2, affaticati ma felici.
Entriamo in tenda con tutti i nostri abiti gelati, prepariamo qualcosa
da mangiare, beviamo molto e ci infiliamo, con infinito appagamento, nei
sacchi a pelo.
Venerdì 26, al risveglio, la gola è arsa, fa molto freddo, attendiamo
il sole per uscire dai sacchi completamente ricoperti di un sottile strato di ghiaccio; Luis e Marco Airoldi alle 12:08 partono per il Campo
3.
Nel tardo pomeriggio vediamo avvicinarsi al campo due figure
barcollanti; presto le riconosciamo, sono Marco Perego e Giorgio
Cemmi, a cui andiamo incontro: ci comunicano che sono giunti in vetta
questa mattina. Sono visibilmente esausti ma felici; dividiamo con loro
questi indimenticabili momenti. Il nostro morale è improvvisamente
salito alle stelle.
Domenica 28 settembre, giorno
della mia salita al Campo 3, rientrano Luis e Marco Airoldi,
quest'ultimo è riuscito a giungere sulla vetta del Cho Oyu, Luis invece
si è bloccato a 8070 metri, peccato.
Intorno a mezzogiorno inizio la ripidissima salita verso il Campo 3,
lasciando sul percorso tante energie e... ogni speranza. Nel
pomeriggio, la vista della tenda a 7400 metri mi riempie di gioia;
comincia a far freddo ed a farsi sentire la mancanza di ossigeno. A
parte il naturale affaticamento, sto bene. Cerco di bere molto, ma la
fusione del ghiaccio è così lunga e faticosa, come faticoso è
qualsiasi gesto compiuto a più di 7000 metri. Dormo bene.
Lunedì 29 rimaniamo costretti in tenda per una violenta bufera di neve;
non ci voleva, la permanenza a questa quota è debilitante. Con il
compagno Marco Anghileri di Lecco, uno dei più quotati alpinisti
d'Europa, cerchiamo di nutrirci e riposare; ancora una volta dormo
discretamente bene.
Martedì 30, inaspettatamente, Marco sente che le mani cominciano a
dargli qualche problema, vorrebbe tentare subito ma la montagna dice
ancora NO, il vento soffia violento intorno a noi; impossibile solo
mettere la testa fuori dalla tenda.
Lo sconforto cerca di farsi strada approfittando di questi eventi, ma il
pensiero di chi ha avuto fiducia in noi prevale, “dobbiamo” tenere
duro; è però molto difficile.
Marco mi comunica più tardi la sua volontà di scendere; tento di
dissuaderlo, è inutile, le mani gli fanno pericolosamente male, deve
rinunciare. Visibilmente avvilito, mi saluta e con affetto mi incita a
farcela; in quel momento mi assalgono tanti dubbi e paure.
Mercoledì 1 ottobre, molto presto sento che il vento non soffia più.
forse è il momento giusto, devo approfittare, mi preparo alla svelta,
le borracce sona già piene di acqua e the, un pensiero ai miei cari e a...
Dio.
Parto per gli ottocento metri più lunghi e faticosi della mia vita.
Tutto è molto, molto, molto più duro di quanto immaginassi.
E' determinante trovare un ritmo continuo. Con esasperante lentezza
guadagno metri preziosi e col passare del tempo la vetta si avvicina, ma
io la vedo sempre lontana.
Giungo alla fascia di rocce; per fortuna c'è la corda fissa che mi
viene in aiuto. Supero anche le rocce. Passano le ore e sono sempre più
debilitato. Solo ora, forse, mi rendo veramente conto dell'imponenza di
un ottomila... solo ora!
Spesso devo fermarmi un poco per muovere le dita dei piedi e delle mani
per fronteggiare il pungente freddo; penso con paura a cosa dovesse
accadere se fossi costretto a fermarmi a lungo.
Respiro con immensa fatica, più di qualche volta cado in ginocchio
sulla neve ghiacciata; sarebbe bellissimo ritornare, rinunciare, ci ho
pensato più di una volta, sono stato spesso sul punto di voltare le
spalle a quel dannato Cho Oyu ma, all'ultimo istante, i lunghi anni di
preparazione ed i numerosi sacrifici compiuti mi hanno indotto ad “andare ancora un po' più in là”.
Arrancando con disumana fatica, ma rabbiosamente determinato, proseguo
sull'ostica parete ghiacciata fino a giungere all'inizio del grande
plateau sommitale (8100 metri); la cima sembra ormai a portata di mano,
ma è solo un'illusione, l'ennesima beffa di quest'immensa montagna.
Per percorrere tutto il tratto finale impiego ore e tutte le mie residue
energie: incredibile, pareva di essere arrivati. Ormai solo il Cho Oyu
potrebbe dirmi di no, io non cederei mai; nonostante tutto vado avanti
contando 15 secondi per ogni passo, è una scena pietosa, ma il gigante
vi assiste insensibile, è uno spettacolo al quale è abituato.
NON
C'E' PIU' NULLA DA SALIRE... DIO, SONO ARRIVATO!!
Incredulo ma felice sono sulla vetta del Cho Oyu a 8201 metri di altezza,
il respiro è affannosissimo, le forze mi abbandonano per un momento e
cado in ginocchio piangendo per l'immensa gioia, non riesco a pensare a
nulla, solo che sono a metà strada, devo tornare...
Uno spettacolo da sogno si para davanti ai miei occhi: l'Everest,
maestoso come sempre, finalmente lo scruto alla pari; a nord-est lo
Shisha Pangma e chilometri e chilometri di vette innevate, che si
perdono all'orizzonte.
Ma, un momento, il freddo è più intenso del normale, le nubi, al di
sotto di me, si sono messe a viaggiare impazzite, sì, sta arrivando una
bufera, il termometro pare che segni oltre 50° sotto zero, devo fuggire, subito!
Scatto qualche foto, la macchinetta è completamente coperta di neve,
scendo ansimando profondamente, non solo per la quota.
Più tardi ho difficoltà nel movimento delle mani, mi rendo subito
conto della gravità della situazione: le mani sono congelate, le
friziono continuamente, tutto inutile; due giorni dopo cominceranno ad
annerirsi. Trovo quindi grande difficoltà nella discesa a causa della
crescente cattiva funzionalità delle mani. Già alla prima parete
ghiacciata, durante l'uso, perdo il discensore e due moschettoni; non mi
era mai capitato, sono davvero preoccupato.
Alla seconda parete, a 6600 metri circa, raggiunta con estrema
difficoltà, mi fermo, pianto la mia tenda ed attendo i colleghi, non
posso fare altro.
Gli alpinisti francesi con la loro radio avvertono i compagni della mia
situazione.
La mattina successiva gli amici Silvio Mondinelli, Paolo Paglino e Fabio
Iacchini, guide alpine del Monte Rosa, dal Campo 1 mi raggiungono e mi
aiutano a scendere in corda doppia il seracco, ultimo ostacolo tecnico
alla discesa.
Durissima, sotto il profilo fisico, il ritorno al Campo Base Avanzato; in
totale, dalla vetta, ci sono voluti 5 giorni.
Comprensibili ragioni di spazio non mi consentono di dilungarmi sulle
sensazioni e sui problemi determinati da quest'avventura; solo una
considerazione, che ritengo importante, vorrei poter estrinsecare:
E' FINITA!
Già, è finita la ricerca documentale sulla montagna, durata quasi tre
anni, sono finiti i durissimi allenamenti, quotidiani, è finita
l'indispensabile ricerca di sponsor e sostenitori vari, sono finite le
massacranti ma frequenti trasferte sulle Alpi, sono finite le belle
discussioni con gli interessati frati di Trisulti e gli amici del Parco
Nazionale d'Abruzzo alla fine di ogni allenamento, sono finite le
indispensabili riunioni organizzative al CAI di Colleferro, sono finite
le numerosissime visite mediche presso i centri TEAM e SALUS di
Frosinone, sono finite le interminabili giornate passate al BIVACCO con
Massimiliano per l'allestimento del sito internet (giudicato uno dei
più belli d'Europa) e con Cristian per la delicatissima scelta dei
materiali d'alta quota, insomma sono finiti due anni di meticolosa
preparazione.
Lo ammetto, ne sento già ora la nostalgia.
Ma che abbia ragione chi sostiene che gli alpinisti sono dei... PAZZI??