L'autunno del laricetto

 

di Angela Seracchioli

 

 

Sulle pendici di un'alta montagna nelle Dolomiti si stendeva un fitto bosco di larici, erano solo larici e in tutta la valle vi era solo quel tipo di alberi. Era estate e in un giorno di tempesta un vento che correva impetuoso fra le vette e scivolava rumorosamente nelle valli, impigliò i suoi soffi potenti fra i rami del bosco di larici.
Le cime degli alberi ondeggiavano, sbatacchiando le une contro le altre, i rami si intrecciavano quasi volessero abbracciarsi per difendersi dalla tempesta, ma il vento non demordeva, si divertiva troppo a mettere scompiglio nel bosco, se la rideva quando lo scricchiolio dei tronchi pareva gridare pietà. Poi, a un ordine del capo dei venti, il vento burlone rallentò la sua corsa e scivolò via come se fosse stato una brezza, là oltre il passo, per andare a far danni in qualche altra valle.
Ma i venti non fanno solo disastri, nelle loro spire portano via i semi che vanno a depositare lontano, contribuendo così ad arricchire la natura di sempre nuova vita. Fu così che il nostro vento fece cadere un seme di larice in una valle dove vi erano, questa volta, solo abeti rossi. Tutto nella valle era di un bel verde scuro, la terra era fertile e il seme ben presto attecchì.

Dovete sapere che gli alberi divengono coscienti di essere tali solo quando hanno raggiunto un aspetto e un'altezza che li fa apparire dei ragazzetti-albero; prima di quel momento se ne stanno silenziosi, estate dopo estate, ignari della propria esistenza quasi fossero ancora sotto terra racchiusi nel seme.

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L'autunno di cui vi parlerò era stato preceduto da una bellissima estate, il sole aveva brillato molto e la pioggia era caduta quel tanto che basta ad innaffiare le assetate radici degli abeti. Il nostro seme era ora un ragazzetto-albero di circa due metri; attorno a lui si allineavano, in una macchia di abeti ben distanziati, dei ragazzetti-abete più o meno della sua stessa età. La macchia era nel bel mezzo di un grande pascolo e ai suoi lati si ergevano quattro abeti anziani, altissimi e drittissimi: due maschi e due femmine. Le femmine erano le mamme degli abeti-ragazzini e facevano di tutto per piegarsi in modo da permettere che il  sole colpisse dalla mattina alla sera la loro scolaresca di bambinetti.

Il piccolo larice era felice, aveva tanti amici con cui chiacchierare, si sentiva un loro fratello anche se una volta aveva sentito uno strano brusìo provenire dalla cima degli adulti e nel frusciare del vento aveva udito una delle mamme dire: “Ma di chi è figlio quel ragazzino delicato e un po' spelacchiato?” 
“Non mio di certo!” aveva risposto l'altra mamma, “non vedi com'è pallido, non assomiglia di certo a me! Io sono scura e forte e lui è esile e chiaro!”

Il piccolo larice non ci aveva badato più di tanto, gli altri alberi piccolini non avevano mai detto nulla sul suo aspetto e insomma l'estate era così bella che l'unica cosa che gli piaceva fare era stiracchiarsi al sole e sbatacchiare i suoi rami in finte battaglie inscenate con gli altri alberelli.

A fine settembre la valle si spopolò, non vi erano più gitanti con i loro zaini pieni di panini, gli uccelli parevano essersi azzittiti e solo i cervi si preparavano coi loro bramiti alla stagione degli amori. Il piccolo larice si sentiva strano, qualcuno dei suoi aghi aveva iniziato a cadere e un giorno, guardando giù dalla cima, si avvide che il suo bel colore verde chiaro aveva preso una sfumatura giallastra.
“Ma che hai?” gli chiese uno dei compagni di giochi. “Sembri diverso stamattina, stai cambiando colore e sembri malato. Sei sicuro di sentirti bene?”
Il laricetto a queste parole rabbrividì e un'altra decina di aghi caddero a terra. “O Dio, sono malato!” sussurrò in un gemito. I suoi fratelli erano come sempre di un bel verde scuro e lui si sentiva per la prima volta diverso. Dovette ammettere a se stesso di averlo sempre saputo ma di averlo voluto ignorare per sentirsi parte della famiglia.
“Se tutti gli altri sono sempre verdi, io devo proprio essere malato!” gemette nuovamente.

Le due signore abete scuotevano con tristezza le cime. “Poverino, guarda come si è ridotto, lo sapevo che non stava bene, è tutta l'estate che lo guardo e quel suo pallore mi è sempre sembrato innaturale” bisbigliò una di loro fra le fronde dell'altra.
Il piccolo larice si strinse nei suoi rami, ammutolì, non aveva più voglia di giocare con gli altri alberelli, guardava le vette già un poco imbiancate di neve come si guarda per l'ultima volta qualcosa che si ama tantissimo e che ti verrà ben presto tolta. Anche gli abeti non stormivano più, non era bello vedere un fratello così giovane morire e non sapevano cosa dirgli per rendere meno dura la sua fine.

I giorni passavano e il piccolo larice diveniva sempre più giallo, le vette erano ora tutte bianchissime e l'aria si faceva sempre più fredda.
In una mattina di sole, quando la montagna sembra vivere un'improvvisa e insperata estate dopo giorni di pioggia e di neve, il vento burlone si trovò a passare nella valle assieme ad altri venti stagionali che facevano ritorno al luogo lontano dove si radunano in attesa della primavera, lasciando posto alla signora tempesta e ai venti duri e freddi dell'inverno.

“Hai visto come sono belli e gialli i larici della valle oltre il passo? Quest'anno sono più gialli che mai” disse il vento al vicino di volo.
“Gialli!” esclamò il piccolo larice. “Come fanno ad essere belli e gialli? Sono tutti ammalati come me!”
Il piccolo larice non se ne poteva capacitare, sapeva che i venti sono istruiti perché viaggiano tanto e non capiva come potessero essere ignari della gravissima malattia che pareva aver colpito la valle vicina oltre che lui. Volle chiedere e con un fil di voce tentò di richiamare il vento burlone: “Signor vento, signor vento, si abbassi un poco! Mi dica, che sta succedendo nell'altra valle? Vede, anch'io ho preso la stessa malattia!”
“Malattia?! Ma che dici” tuonò il vento abbassandosi. “E' uno dei più begli spettacoli delle Dolomiti che si ripete ogni autunno, non te lo ha detto la mamma che voi larici diventate gialli, poi perdete le foglie e a primavera ritornate ad essere di un bel verdino pallido staccandovi ancora una volta con il vostro colore dalla massa scura degli abeti?”

Il piccolo larice non ci capiva più niente, lui non aveva avuto una mamma o meglio, credeva che la sua mamma fosse uno di quei due abeti altissimi, nulla sapeva della sua corsa in fasce da una valle all'altra.
“Allora non sono malato?!” gridò l'alberello.
“Certo che no e in questo bel prato, con tanto spazio per espanderti, diverrai un larice alto e grosso, parola di vecchio vento!”
Il piccolo larice se avesse potuto avrebbe saltato di gioia; anche gli altri alberi, meravigliati quanto lui, fecero festa alla bella notizia. Lui era solo diverso da loro, più leggero, con rami più sfrangiati ma bello e forte quanto loro.

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Gli anni sono passati, la macchia d'alberi in mezzo al grande pascolo è cresciuta e il laricetto è divenuto un maestoso larice. Anche gli altri alberelli sono cresciuti e ora sono molto orgogliosi del loro fratello diverso e gioiscono quando, in autunno, qualche raro passante si ferma ad ammirare nel verde scuro della valle quell'unico altissimo larice giallo.

 

Novembre 2001

Angela Seracchioli

 

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