Sulle
pendici di un'alta montagna nelle Dolomiti si stendeva un fitto bosco di
larici, erano solo larici e in tutta la valle vi era solo quel tipo di
alberi. Era estate e in un giorno di tempesta un vento che correva
impetuoso fra le vette e scivolava rumorosamente nelle valli, impigliò
i suoi soffi potenti fra i rami del bosco di larici.
Le
cime degli alberi ondeggiavano, sbatacchiando le une contro le altre, i
rami si intrecciavano quasi volessero abbracciarsi per difendersi dalla
tempesta, ma il vento non demordeva, si divertiva troppo a mettere
scompiglio nel bosco, se la rideva quando lo scricchiolio dei tronchi
pareva gridare pietà. Poi, a un ordine del capo dei venti, il vento
burlone rallentò la sua corsa e scivolò via come se fosse stato una
brezza, là oltre il passo, per andare a far danni in qualche altra valle.
Ma
i venti non fanno solo disastri, nelle loro spire portano via i semi che
vanno a depositare lontano, contribuendo così ad arricchire la natura di
sempre nuova vita. Fu così che il nostro vento fece cadere un seme di
larice in una valle dove vi erano, questa volta, solo abeti rossi. Tutto
nella valle era di un bel verde scuro, la terra era fertile e il seme
ben presto attecchì.
Dovete
sapere che gli alberi divengono coscienti di essere tali solo quando
hanno raggiunto un aspetto e un'altezza che li fa apparire dei
ragazzetti-albero; prima di quel momento se ne stanno silenziosi, estate
dopo estate, ignari della propria esistenza quasi fossero ancora sotto
terra racchiusi nel seme.
----------
L'autunno
di cui vi parlerò era stato preceduto da una bellissima estate, il sole
aveva brillato molto e la pioggia era caduta quel tanto che basta ad
innaffiare le assetate radici degli abeti. Il nostro seme era ora un
ragazzetto-albero di circa due metri; attorno a lui si allineavano, in
una macchia di abeti ben distanziati, dei ragazzetti-abete più o meno
della sua stessa età. La macchia era nel bel mezzo di un grande pascolo
e ai suoi lati si ergevano quattro abeti anziani, altissimi e
drittissimi: due maschi e due femmine. Le femmine erano le mamme degli
abeti-ragazzini e facevano di tutto per piegarsi in modo da permettere
che il sole colpisse dalla
mattina alla sera la loro scolaresca di bambinetti.
Il
piccolo larice era felice, aveva tanti amici con cui chiacchierare, si
sentiva un loro fratello anche se una volta aveva sentito uno strano
brusìo provenire dalla cima degli adulti e nel frusciare del vento
aveva udito una delle mamme dire: “Ma di chi è figlio quel
ragazzino delicato e un po' spelacchiato?”
“Non
mio di certo!” aveva risposto l'altra mamma, “non vedi com'è
pallido, non assomiglia di certo a me! Io sono scura e forte e lui è
esile e chiaro!”
Il
piccolo larice non ci aveva badato più di tanto, gli altri alberi
piccolini non avevano mai detto nulla sul suo aspetto e insomma l'estate
era così bella che l'unica cosa che gli piaceva fare era stiracchiarsi
al sole e sbatacchiare i suoi rami in finte battaglie inscenate con gli
altri alberelli.
A
fine settembre la valle si spopolò, non vi erano più gitanti con i
loro zaini pieni di panini, gli uccelli parevano essersi azzittiti e
solo i cervi si preparavano coi loro bramiti alla stagione degli amori. Il piccolo larice si sentiva strano, qualcuno dei suoi aghi aveva
iniziato a cadere e un giorno, guardando giù dalla cima, si avvide che
il suo bel colore verde chiaro aveva preso una sfumatura giallastra.
“Ma
che hai?” gli chiese uno dei compagni di giochi. “Sembri
diverso stamattina, stai cambiando colore e sembri malato. Sei sicuro di
sentirti bene?”
Il
laricetto a queste parole rabbrividì e un'altra decina di aghi
caddero a terra. “O Dio, sono malato!” sussurrò in un gemito.
I suoi fratelli erano come sempre di un bel verde scuro e lui si sentiva
per la prima volta diverso. Dovette ammettere a se stesso di averlo
sempre saputo ma di averlo voluto ignorare per sentirsi parte della
famiglia.
“Se
tutti gli altri sono sempre verdi, io devo proprio essere malato!”
gemette nuovamente.
Le
due signore abete scuotevano con tristezza le cime. “Poverino,
guarda come si è ridotto, lo sapevo che non stava bene, è tutta
l'estate che lo guardo e quel suo pallore mi è sempre sembrato
innaturale” bisbigliò una di loro fra le fronde dell'altra.
Il
piccolo larice si strinse nei suoi rami, ammutolì, non aveva più
voglia di giocare con gli altri alberelli, guardava le vette già un
poco imbiancate di neve come si guarda per l'ultima volta qualcosa che
si ama tantissimo e che ti verrà ben presto tolta. Anche gli abeti non
stormivano più, non era bello vedere un fratello così giovane morire e
non sapevano cosa dirgli per rendere meno dura la sua fine.
I
giorni passavano e il piccolo larice diveniva sempre più giallo, le
vette erano ora tutte bianchissime e l'aria si faceva sempre più
fredda.
In
una mattina di sole, quando la montagna sembra vivere un'improvvisa e
insperata estate dopo giorni di pioggia e di neve, il vento burlone si
trovò a passare nella valle assieme ad altri venti stagionali che
facevano ritorno al luogo lontano dove si radunano in attesa della
primavera, lasciando posto alla signora tempesta e ai venti duri e
freddi dell'inverno.
“Hai
visto come sono belli e gialli i larici della valle oltre il passo?
Quest'anno sono più gialli che mai” disse il vento al vicino di
volo.
“Gialli!”
esclamò il piccolo larice. “Come fanno ad essere belli e gialli?
Sono tutti ammalati come me!”
Il
piccolo larice non se ne poteva capacitare, sapeva che i venti sono
istruiti perché viaggiano tanto e non capiva come potessero essere
ignari della gravissima malattia che pareva aver colpito la valle vicina
oltre che lui. Volle chiedere e con un fil di voce tentò di richiamare
il vento burlone: “Signor
vento, signor vento, si abbassi un poco! Mi dica, che sta succedendo
nell'altra valle? Vede, anch'io ho preso la stessa malattia!”
“Malattia?!
Ma che dici” tuonò il vento abbassandosi. “E' uno dei più
begli spettacoli delle Dolomiti che si ripete ogni autunno, non te lo ha
detto la mamma che voi larici diventate gialli, poi perdete le foglie e
a primavera ritornate ad essere di un bel verdino pallido staccandovi
ancora una volta con il vostro colore dalla massa scura degli
abeti?”
Il
piccolo larice non ci capiva più niente, lui non aveva avuto una mamma
o meglio, credeva che la sua mamma fosse uno di quei due abeti
altissimi, nulla sapeva della sua corsa in fasce da una valle all'altra.
“Allora
non sono malato?!” gridò l'alberello.
“Certo
che no e in questo bel prato, con tanto spazio per espanderti, diverrai
un larice alto e grosso, parola di vecchio vento!”
Il
piccolo larice se avesse potuto avrebbe saltato di gioia; anche gli
altri alberi, meravigliati quanto lui, fecero festa alla bella notizia.
Lui era solo diverso da loro, più leggero, con rami più sfrangiati ma
bello e forte quanto loro.
----------
Gli
anni sono passati, la macchia d'alberi in mezzo al grande pascolo è
cresciuta e il laricetto è divenuto un maestoso larice. Anche gli altri
alberelli sono cresciuti e ora sono molto orgogliosi del loro fratello
diverso e gioiscono quando, in autunno, qualche raro passante si ferma
ad ammirare nel verde scuro della valle quell'unico altissimo larice
giallo.