L'albero e il bambino

 

di Angela Seracchioli

 

 

La storia che sto per raccontarvi non mi è stata raccontata dalla montagna, da uno gnomo o da un albero come le altre, bensì da un uomo della montagna, da una guida, “da un vecio delle Aquile di San Martino” che un giorno ho avuto la ventura di incontrare nella sua casa accogliente e piena di serenità.

P. pare fatto di roccia, ha la dignità delle vette che ha esplorato in lungo e in largo e raramente sorride. Tante volte l'avevo visto negli incontri in cui le guide vestono la loro divisa da cerimonia; pantaloni alla zuava e giacca di foggia tirolese che li fa sembrare scesi da una stampa antica e spesso mi ero domandata se sarei mai riuscita ad avvicinarlo, mi sembrava così impenetrabile e serio da escludere qualsiasi approccio da parte di una pianurasca da poco trasferita fra i monti. Poi, per una serie di circostanze magiche e belle, eccomi seduta di fronte a quest'uomo che quando parla della “sua Marmolada” si illumina e sorride tutti i sorrisi che tiene di solito gelosamente in tasca.

Questa premessa è necessaria perché la storia che segue fa parte dei suoi ricordi e il modo in cui me l'ha raccontata ha il sapore delle antiche leggende raccontate nella stalla o di fronte a un camino.

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C'era una volta una famiglia povera, vivevano in pianura in un paese del veneto, il padre lavorava distante da casa e tutti i giorni si spostava in treno per recarsi al lavoro. Sedeva sempre in un angolo dello scompartimento chiuso nel suo dolore, a casa lo aspettava una moglie che amava e un bimbo che deperiva sempre più. I medici, che i due avevano consultato, non sapevano con certezza cosa non andasse nel sangue del bimbo, una sola cosa era certa, a quattro anni, patito e debole, aveva smesso di camminare, mangiava pochissimo, non giocava e sorrideva poco, si stava pian piano spegnendo. Che potevano fare? Soldi per portarlo dagli specialisti non ce n'erano, la moglie aveva dovuto smettere di lavorare per poter stargli vicino giorno e notte e quello che lui guadagnava bastava a mala pena a sopravvivere.

Una sera come tante altre l'uomo sedeva nel solito angolo dello scompartimento, gli occhi persi nel buio della notte al di là dal finestrino, la porta si aprì e un gruppetto di giovani e allegri alpini occupò i posti restanti. L'uomo sulle prime ne fu infastidito, quell'allegria, l'energia che emanavano quei ragazzi di montagna era troppo lontana dai cupi pensieri che gli passavano per la mente poi, senza quasi accorgersene, la loro conversazione lo catturò. Venivano tutti dalla Valle del Biois, da Falcade e dai paesi vicini stavano ritornando da una breve licenza e le loro parole e i loro occhi erano ancora pieni delle bellezze della valle. Nel loro racconto i pascoli, i boschi, le vette parevano il paese delle fate. L'uomo sapeva poco delle montagne, in lui c'era solo uno sbiadito ricordo di una colonia estiva in una qualche valle alpina, ma le parole degli alpini gli entrarono nel cuore, là doveva andare, là doveva portare il suo bimbo per una gita al sole, per una scampagnata domenicale lontano da una vita che pareva seguire un binario fatto solo di tristezza e di attesa del peggio.

Fu così che la domenica seguente armati di un cestino pieno di panini e di biglietti per la corriera i tre partirono alla volta della “Valle Incantata”.
La corriera saliva lungo la strada dell'agordino, il sole risplendeva e il bimbo sorrideva a tutte le meraviglie che la mamma gli indicava oltre il finestrino: qua una mucca, là un carro pieno di fieno e contro l'azzurro del cielo le vette delle Pale di San Lucano che si facevano sempre più vicine. A Cencenighe cambiarono corriera con nel cuore un'aspettativa strana, sconosciuta, che pareva sospingerli sempre più su e che li rendeva gioiosamente impazienti. La corriera si fermava spesso per far salire i gitanti e i valligiani che poi scendevano nei villaggi seguenti disperdendosi nei pascoli e nei boschi; ma loro non erano ancora arrivati. Eppure non avevano una meta precisa, se non l'essere in quella valle; attendevano inconsciamente che qualcosa dicesse loro dove scendere. Fu poco più su di Falcade, nella curva a gomito che precede Falcade Alto, che capirono di essere arrivati e senza dirsi niente l'uomo prese la carrozzella del bimbo e il cesto della merenda, la donna si alzò con il bimbo fra le braccia e scesero.

La corriera ripartì alle loro spalle, di fronte a loro nel caldo sole di una mattina di giugno si stendevano i boschi, le vette delle Pale, i pascoli che orlavano la foresta, il silenzio li avvolgeva e una serenità nuova e insperata pareva essersi fatta strada in loro.

Spingendo la carrozzella lungo un sentiero si avviarono verso il pascolo più largo e soleggiato, lì si distesero sul fieno non ancora tagliato e il profumo entrò in loro, dietro le palpebre chiuse il sole giocava con le nubi. Ogni tanto l'uomo apriva gli occhi quasi per accertarsi che quello che viveva non fosse un sogno, poi guardava il volto della moglie disteso e sereno senza quella piega amara che per tanto tempo le aveva segnato i lati della bocca. Anche il corpo del bimbo pareva avesse perso quella contrazione delle membra che gli impediva di camminare: disteso a pancia in giù seguiva divertito l'andare di una fila di formichine e rideva tutte le volte che una di loro cadeva a zampe per aria nel tentativo di superare uno stelo d'erba.

Non fecero nulla di speciale, se ne stettero lì tutto il giorno catturati dalla magia del posto che pareva aver spazzato via ogni nube dalla loro vita. Poi arrivò l'ora del ritorno a casa e tutta la disperazione di quegli ultimi anni piombò su di loro, l'incanto doveva rompersi, là nella pianura si ritornava “nella casa dell'attesa del peggio”, la festa era finita. L'uomo non aveva mai osato nulla nella vita, tutto gli era accaduto come se fosse ineluttabile, ma quella giornata sul prato pareva avergli dato una forza nuova.
“No, da lì il suo bimbo non poteva andarsene”. Non sapeva come, non sapeva con che denaro ma avrebbe fatto di tutto per permettere al figlio e alla moglie di continuare a vivere quella magia. Scesero lungo il sentiero che porta al paesino di Molino e lì si misero a cercare, bastava una stanzetta, una capanna, qualcosa con un tetto e una porta dietro cui riparasi, loro si sarebbero adattati pur di stare lì. Non ci volle molto, come tutte le volte che le cose sono puntuali e decise dal cielo, una vecchia malgara fece veder loro la cantina adiacente al suo fienile: “Se vi adattate posso darvela per tutta l'estate, non è umida e la finestra è grande abbastanza per fare entrare il sole, su in casa ho una rete che non uso e con una bombola un fornello e un tavolo si può fare una cucina”.
A loro pareva una reggia! La vecchia voleva poche lire per il disturbo e poi pareva una buona persona, dietro le tante rughe gli occhi erano dolci e quel bimbo pallido e malato le era subito piaciuto, si vedeva.

Fu così che l'uomo partì da solo con l'ultima corriera, là sulla piazza del paesino il bimbo e la donna sorridevano nella luce rosata del tramonto. Tornò dopo qualche giorno carico di tutte quelle cose che servivano a rendere casa la cantina poi, finalmente felice, ritornò al suo lavoro in pianura.
Tutte le mattine la mamma saliva spingendo la carrozzella verso il bosco, più precisamente verso un grande abete dalle radici possenti che si ergeva al suo limite. Era uno di quegli alberi che paiono rivelare al mondo le loro radici scoperte abbarbicate a poca terra e tanta roccia per dimostrare che con un nonnulla si può essere forti e felici. L'aveva scoperto in una delle sue prime ricognizioni dei dintorni del paese, non era facile da raggiungere perché bisognava abbandonare il sentiero e spingere con fatica la carrozzella lungo un erto prato, ma a lei e al bimbo quel posto piaceva tanto, era dominante, da lì si vedeva tutta la valle e il bosco alle spalle incuteva un senso di protezione. Le radici dell'albero formavano una specie di nido, una comoda e calda poltrona dove lei deponeva il bambino che con le spalle appoggiate al grande tronco sedeva come su un trono.

I due salivano al loro albero alle prime luci dell'alba, la donna portava con sé del cibo e dei lenzuoli da ricamare, aveva trovato il modo di venderli in paese e quelle poche lire le permettevano di guadagnare quanto bastava per vivere nella cantina e fra i prati. Scendevano solo quando le vette si tingevano di rosso e il grande abete stendeva la sua ombra lunghissima sul prato sottostante.
Il bimbo in quelle lunghe ore sotto l'albero giocava con dei rametti, costruiva dei piccoli villaggi dove immaginava che le sue amiche formichine sarebbero andate a vivere. La mamma lo guardava intento in quelle fantasie, spiava il sorriso che pareva non lasciare più le sue guancine che si facevano ogni giorno più rosa. Anche l'appetito era pian piano tornato e lei ogni giorno aggiungeva qualcosa di più saporito e sostanzioso ai panini che lui divorava affamato.

I mesi passavano e anche nei giorni di pioggia i due salivano fino al grande abete, la vecchia aveva loro prestato un grande ombrello verde e sotto quella tenda improvvisata si rincantucciavano abbracciati rimirando il rincorrersi delle nuvole tempestose e l'apparire e lo scomparire delle vette. Al bimbo piacevano i temporali e con la mamma faceva a gara a chi scopriva il lampo più grosso per poi abbracciarsi più stretti quando si udiva lo schianto sulle rocce.

La fine dell'estate li colse di sorpresa, o forse tutti e due avevano fatto finta di non accorgersi che le giornate si facevano sempre più brevi e che la cantina si faceva sempre più fredda. A fine settembre l'uomo riprese la corriera, era tanto che non vedeva la sua piccola famiglia, la donna gli aveva scritto lettere e cartoline piene di cieli e di nuvole, di sole e di un albero, un grande abete che pareva essere divenuto la loro dimora preferita.
Tornarono mestamente in città, il bimbo piangeva, la donna taceva ma la ruga di fianco alla bocca era tornata a segnare le sue guance ringiovanite dall'aria e dal sole.

La prima cosa che fecero fu di andare dal dottore, a loro pareva che il bimbo stesse meglio, azzardava anche qualche passetto, ma non volevano illudersi più di tanto. Il dottore confermò le loro impressioni, anche le analisi del sangue diedero un responso positivo, il bimbo si stava inspiegabilmente riprendendo.
L'uomo ancora una volta fece forza su se stesso, non poteva permettere che i progressi fatti dal bimbo fossero vanificati dalla nebbia e dal grigiore della pianura. Trovò un altro lavoro, ora lavorava anche di sera ma poco gli importava se questo permetteva di affittare una stanza nel paesino di montagna più adatta per i rigidi mesi invernali.

Questa volta la corriera correva in un paesaggio ancora più magico, in quota era caduta la prima neve e i boschi parevano cosparsi di zucchero a velo. Il bimbo riconobbe il paesino fra i monti non appena la corriera imboccò lo stretto tornante e gridò felice. Lassù al limite del bosco, persino dalla carrozzabile, si distingueva il suo grande abete aggrappato alla roccia.

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Qui P. smette di raccontare, mi guarda con quei suoi occhi a fessura che scintillano commossi e aggiunge: “L'uomo l'ho incontrato mentre mi arrampicavo lungo una via sull'anticima delle Cime d'Auta assieme ad un caro compagno di tante ascensioni e la nostra attenzione fu attratta da un gruppo di persone che stava fissando sul monte una madonnina protetta da una bombola aperta da un lato a creare una nicchia. Mi ha detto che ora suo figlio fa l'artigliere di montagna e quella madonnina è un voto”.

Non c'è più niente da dire ci guardiamo felici, tutti e due sappiamo che la montagna, i grandi alberi e la fede di due genitori compiono miracoli.
Lassù al limite del bosco nella valle del Biois un grande abete dalle radici scoperte si erge diritto e forte pronto a regalare la sua forza a chi vorrà abbracciarlo.
 

 

Marzo 2002

Angela Seracchioli

 

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