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Quando si è giovani il passato
sembra non avere dimensione.
E nemmeno il futuro. Si è assorbiti completamente dall'oggi o, al
massimo, dal domani, inteso come il giorno dopo quello di oggi.
Mano a mano che passano gli anni il passato prende corpo, lievita come
una torta in forno, fino a diventare invadente e non puoi fare più
finta di non vederlo.
Poi, ad un certo punto, ci sono gli anniversari ‘storici’ che
irrompono nella tua vita e la dimensione del passato acquista un peso
significativo.
Venticinque anni di matrimonio, ad esempio.
Oppure venticinque anni che sei iscritto alla tua sezione del Club
Alpino Italiano e ti hanno anche consegnato il distintivo dei soci
venticinquennali, che ti ha fatto tanto piacere, ma avresti anche
aspettato volentieri ancora qualche anno, se si fosse potuto.
O ancora, venticinque anni da quando arrampicasti in cordata per la
prima volta e sembra l'altro ieri e invece è passata una vita.
Insomma, ad un certo punto ti rendi conto di quanto si sia allungato l'elenco
delle vie che hai salito, delle cime che hai raggiunto, qualcuna anche
più volte, per vie diverse o per la stessa con diversi compagni.
Il passato comincia allora ad incuriosirti: è la tua vita scritta nel
tempo.
C'è. Tanto vale smettere di far finta che non esista.
E così viene la volta che perdi più di una serata a guardarti l'elenco
delle salite e ti accorgi di particolari a cui non avevi fatto caso
prima.
Guarda, per esempio, quante volte sei stato sulla Torre Piccola di
Falzarego.
53 volte.
Anche se per 6 vie diverse, sono sempre tante.
Sono 53 giorni vissuti in montagna raggiungendo sempre e soltanto quell'esile
cucuzzolo per poi scendere agli ancoraggi per ripetere la manovra di
corda doppia fino ad arrivare alla forcella.
Già, la corda doppia.
Ti ricordi il primo impatto con quella corda doppia?
Non piacevole, vero?
Era il giugno del 1975 ed eri riuscito a convincere l'amico Giorgio De
Donà a farti da capocordata. Ancora non arrampicavi, ma volevi provarci
e lo spigolo ovest della “Piccola” sembrava l'approccio ideale per
vincere le tue paure e i tuoi timori.
Eravate allo sbocco del canale che separa le due torri del Falzarego, le
corde già svolte e Giorgio che stava apprestandosi a partire, tuo
cugino Giulio a fianco.
Improvvisamente un urlo rimbalzò tra le pareti, rovesciandosi lungo il
canalone.
Quasi istantaneamente sentiste un tonfo sordo, poi più nulla. Silenzio.
Non gemiti, non grida di dolore. Eppure quell'urlo vi era entrato nel
cervello, se ne era percepita chiaramente la disperazione. Qualcosa di
grave era successo.
Senza dirvi nulla vi slegaste, metteste le corde nello zaino e
cominciaste a risalire lungo il canale.
Ed ecco qualcuno scendere con movimenti affrettati e fermarsi di fronte
a voi.
Ti sembra ancora di sentirlo.
“E' caduta una ragazza. E' ancora viva. Bisogna chiamare i
soccorsi.”
Lo guardaste senza dire nulla.
Passarono alcuni secondi senza che non vi venisse niente da dire.
Forse vi aveva colpito quel “...è ancora viva”, come se la cosa
fosse stata strana.
Secondo lui la ragazza avrebbe dovuto essere morta, evidentemente.
Capiste allora, senza che ve lo dicesse, che era precipitata dalla
paretina che si scende con la corda doppia: 23 metri di volo.
Visto il vostro silenzio, continuò:
“Scendo io a chiedere aiuto, andate su a vedere, intanto.”
E ricominciò subito a scendere velocemente verso Passo Falzarego.
In quei giorni sui prati sotto al Passo c'era un attendamento di
Finanzieri, loro sarebbero saliti abbastanza rapidamente con tutto
quanto fosse servito per portare aiuto alla ragazza.
Riprendeste a salire, chiedendovi, ognuno dentro di sé, come avreste
trovato l'infortunata.
E, poco dopo, alla sommità del canale, eccola.
Stava riversa sulla schiena, con ancora lo zaino sulle spalle, faccia a
quella parete che, sicuramente, aveva visto scorrere velocemente.
Troppo velocemente, così da capire - con disperazione - che stava
precipitando.
Io non avevo nessuna esperienza di arrampicata e nemmeno ero mai stato
sulla Torre Piccola, ma Giorgio che era il più esperto dei tre e l'aveva
già salita, capì subito cosa era successo.
Il ragazzo si era calato per primo, poi si era preparata lei.
L'ancoraggio di calata è formato da un uncino di ferro all'interno del quale
si colloca la corda senza doverla infilare dentro alcun anello.
Una comodità, per un certo verso, ma una grande pericolosità se non si
sta attenti quando si ‘veste’ la corda per la calata.
La ragazza, nel sistemarsi la corda attorno al corpo per la discesa alla
“Comici”, l'aveva involontariamente fatta sfilare dall'uncino di
calata e, assieme ad essa, era precipitata per tutta la lunghezza della
parete.
Lo zaino aveva attutito il colpo e, probabilmente, le aveva salvato la
vita.
Infatti, non sembrava messa malissimo.
La cosa più evidente era una frattura esposta della gamba destra.
Non avevo mai visto dei fratturati, e neanche gli altri miei compagni.
Quella gamba spezzata faceva veramente uno strano effetto, con quella
piega innaturale.
Ma la ragazza non si lamentava tantissimo; sembrava, tutto sommato,
tranquilla.
Ogni tanto si toglieva dei granellini di ghiaia dalla bocca, o almeno
così era sembrato in un primo momento.
Poi ci rendemmo conto che erano i frammenti dei denti che si erano
spezzati nell'impatto.
Le stavamo intorno cercando di farle coraggio, per quanto fosse
possibile fargliene in quelle strane condizioni.
Mi ricordo che a un certo punto mio cugino disse, in dialetto:
“Tira fora la grappa dal zaino”.
Al che io risposi:
“Ma sei matto, vuoi darle la grappa in queste condizioni”.
Lui rispose, irritato:
“Ma no per ela, la è per mi, scemo”.
In effetti non avevo capito che Giulio voleva calmare la forte tensione
che lo attanagliava in quel momento con un sorso della grappa che si era
portato appresso.
Dopo un tempo che non saprei dire arrivarono i soccorsi; il medico fece
un'iniezione di calmante alla ragazza, che aveva cominciato a lamentarsi
con più insistenza, prima che le sapienti mani dei soccorritori la
collocassero nella barella per poi iniziare a scendere lungo il
canalone.
Li seguimmo, ammirati nel vedere la perizia con la quale la barella fu
calata lungo le rocce del canale in un primo momento, e dell'impervio sentiero poi,
fino all'ambulanza che attendeva giù, al parcheggio a fianco della
strada.
A un anno di distanza, Giulio incontrò la ragazza, alle Cinque Torri,
e così venimmo a sapere che se l'era cavata, anche se, oltre alla
gamba, aveva riportato una frattura del bacino, da cui si era ripresa
abbastanza bene, tanto da tornare a passeggiare in montagna.
Ovviamente, la mia prima arrampicata venne rinviata a data da
destinarsi, perché, almeno per quel giorno, di emozioni ne avevamo già
provate a sufficienza.
Il primo approccio arrampicatorio con la Torre Piccola fu dunque rinviato
di quasi un anno: a maggio del 1976.
Avevo nel frattempo fatto rapidi progressi, prima come secondo di
cordata e poi anche da primo, tanto che, al corso roccia del CAI di Ferrara, venni impiegato come capo cordata.
Così salimmo la via dello spigolo Comici; la mia cordata seguiva quella
che ‘apriva’, condotta nientemeno che da Gino Soldà, il grande
alpinista di Recoaro che in quegli anni era, di fatto, il direttore
tecnico dei corsi della sezione.
Inutile dire che i miei tempi di salita erano decisamente superiori a
quelli del grande Gino. Infatti questi, dopo essere giunto in vetta da
un po' di tempo, ridiscese slegato alcuni metri per vedere a che punto
eravamo e, vistomi impegnato sull'ultima paretina, disse:
“Oramai sei fuori, bravo, bravo”.
Ma ci pensate. Gino Soldà che, anche se con frase di circostanza, mi
dice bravo mentre sto arrampicando da capocordata?
Una soddisfazione gigantesca, un ricordo indelebile.
Già, un ricordo! Uno dei tanti.
Penso che, come un bambino solleva i sassi per cercare lucertole
nascoste, così io potrei sollevare i sassi delle cenge della Torre
Piccola, sicuro di trovare sotto ognuno di quelli uno dei tanti
ricordi che mi legano a quella punta tante volte salita.
Come quel giorno che arrivato in cima con l'amico Stenio, mi stesi,
legato al chiodo di vetta, addormentandomi nel tepore del sole, in
attesa dell'altra cordata di amici che era rimasta un po' attardata.
Nel frattempo arrivò un'altra cordata e il primo chiese a Stenio, un po'
preoccupato:
“Cos'ha. Sta poco bene?”
“No, no – rispose Stenio – sta meglio di noi. S'è
addormentato.”
O quell'altra ancora, sempre sullo spigolo Comici, dove in una gelida
giornata di dicembre con Paolo e Rolando sperimentammo fino i fondo che
se è vero che d'inverno fa freddo, è ancora più vero che sulle vie di
spigolo il vento ti sorprende da tutte le parti e non ti dà tregua un
momento, fino a che il freddo stesso assume la dimensione della
sofferenza fisica.
Un'altra volta ancora, in un mese di ottobre, durante un corso roccia,
erano caduti 20 centimetri di neve durante la notte del sabato e il
direttore sospese il corso, annullando l'uscita:
“Non mi posso assumere responsabilità – disse - con le pareti in
queste condizioni.”
Ma qualcuno di noi pensò che dopo avere percorso 250 chilometri per
arrivare fino a lì ed aver dormito all'addiaccio nei sacchi a pelo, non
si poteva rientrare a casa senza almeno provarci.
Così ci preparammo per salire alla Torre Piccola di Falzarego, e dove
altro sennò, rimediando un acido commento da parte di chi stava
partendo per rientrare a casa:
“Sembrate dei transfughi Bosniaci.”
Comunque, riuscimmo a salire fino alla forcella fra le Torri e ci sembrò
di avere fatto qualcosa di epico, suscitando l'entusiasmo dei nostri ‘allievi’.
Quanti ricordi, ancora. Veramente tanti. Non si può raccontarli tutti.
Ma la cosa più bella sono i volti di tutti quei compagni che mi
appaiono nitidamente, mano a mano che i ricordi riemergono.
Se ho salito la Torre Piccola 53 volte, l'ho fatto con almeno
altrettante persone diverse, allievi dei corsi roccia e amici
soprattutto (qualcuno di loro ha cominciato lì, con me, a fare il
capocordata).
Assieme a tutti loro ho condiviso il piacere dell'arrampicata e la
soddisfazione della vetta raggiunta, quella vetta che ad un certo punto
non è più stata un fine, un qualcosa da raggiungere, ma un mezzo per
rinsaldare quei rapporti umani e di amicizia che sono la cosa più
preziosa e importante che mi ha dato l'alpinismo.
Alla Torre Piccola di Falzarego, più di ogni altra cima, debbo l'accumularsi
di questa ricchezza interiore: e così ho scoperto di volerle bene.
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