Ritornando a casa

 

di Massimo Anile

 

 

L'aria era pesante nella vecchia carrozza delle FN ed i sedili di legno lucido particolarmente scomodi e scivolosi.
Gianni aveva aperto un varco con la manica del cappotto nell'appannatura del finestrino ed osservava la campagna scorrer via sotto la pioggia, la maledetta pioggia del venerdì sera.

I campi inumiditi esalavano freddi vapori.

Almeno fosse neve in montagna” si consolò col pensiero, ma era una speranza fasulla perché i programmi del fine settimana non prevedevano alcuna uscita sciistica.
Scosse la testa ed aprì la borsa di cuoio, dalla quale prelevò un libro. Lo aprì e senza troppa convinzione iniziò a leggere la pagina di prefazione. Non passarono che pochi minuti ed il libro fu nuovamente riposto nella borsa, dalla quale comparve invece una rivista di montagna dalla copertina sgargiante.
Gianni la sfogliò fino a giungere all'articolo desiderato: un servizio dedicato al gruppo del Brenta ove venivano proposte salite ed escursioni sulle cime più famose e celebrate di quelle montagne.

Mentre stava percorrendo con la fantasia quelle pareti, per l'esattezza proprio quando la lettura era caduta sulla ‘via Graffer’ al Campanile Basso, un famoso itinerario di salita di difficoltà medie, si sentì osservato.
Allontanò gli occhi dalla rivista e vide un ragazzino dai capelli a spazzola, dall'apparente età di quindici anni, che lo stava guardando con curiosa insistenza.

- Lei.. cioè tu... arrampichi? - Disse d'un tratto il ragazzino indicando con lo sguardo la rivista.

Gianni annuì muovendo la testa e guardando il suo interlocutore negli occhi.

- Io no, o meglio, non ancora, però mi voglio iscrivere a qualche corso. Tu ne hai frequentato qualcuno? Sai se ce ne sono di validi vicino a Saronno? Costa molto iscriversi? - lo travolse il ragazzo parlando a velocità vertiginosa.

- Ehilà, calma amico, una cosa alla volta. Da quanto tempo hai in mente queste cose? -

- Io, beh, da qualche mese. Quest'estate sono stato in vacanza in Trentino con i miei gen... cioè con degli amici ed ho visto un sacco di gente su per le pareti con le corde e gli elmetti. “Deve essere emozionante” mi son detto. Però non conosco nessuno che pratica questo sport. E' uno sport, vero? Almeno si può definire tale, non è così? -

- Sì, da un certo punto di vista sicuramente, anche se la cosa è un po' più complessa, a dire il vero... -

- Tu scali da tanti anni? -

Gianni sorrise, erano tanti o pochi gli anni che ‘scalava’?
Aveva cominciato su per giù a vent'anni, dopo aver terminato il servizio di leva, un anno stranamente non del tutto inutile, dal momento che lo aveva avvicinato alla  montagna. E pensare che quando aveva visto ‘alpini’ sulla cartolina di chiamata gli era persino venuta la febbre. Aveva immaginato muli puzzolenti, marce infami nella neve marcia e nel fango, ‘comunioni’ disgustose ed altri raccapriccianti rituali. Tutte balle. S'era divertito al punto da dimenticarsi di tornare in licenza!

Ci pensò un poco e poi disse - Tanti, quasi venti! -

- Eh, son proprio tanti sì - disse il ragazzino tra sé, ma ad alta voce. E questo riconoscimento d'esperienza, giacché il giovane questo voleva intendere con quell'annuire, suonò alle orecchie di Gianni come un ammonimento anagrafico. L'elucubrazione durò ben poco. Il ragazzo incalzava.

- Com'è che hai incominciato? Hai fatto qualche corso? -

Sorrise, e si comprese nel ruolo del veterano al punto da centellinare le parole di risposta lasciando intendere che ben altro si nascondeva dietro quelle sintetiche espressioni. Il ragazzino pendeva dalle sue labbra. Oscillava le gambe e si masticava le unghie proteso ad individuare la prossima domanda da porre, sperando che circostanziandola meglio potesse ottenere una risposta magari più definita e concreta.
Gianni gli aveva detto che il corso l'aveva fatto negli alpini e quest'affermazione sembrava averlo gettato nello sconforto.
Si capisce che l'idea di attendere chissà quanti anni prima di potersi cimentare in quel progetto, non doveva essergli piaciuta.

Poi gli raccontò delle esperienze fondamentali consumate con gli amici più grandi ed esperti. Ma chi li conosceva amici grandi ed esperti che ti portavano in montagna? Infine lo invitò a recarsi presso una sezione del CAI o presso qualche associazione di Guide dove avrebbe potuto soddisfare le sue curiosità.

Gianni si rituffò nella lettura della rivista, non senza prima gettare un occhiata fuori dal finestrino, per verificare le condizioni del tempo. Pioveva, naturalmente, e  lo faceva in modo così intenso che gli sfuggì un'imprecazione.

- E' un tempo schifoso - riesordì il ragazzino, ed aggiunse:

- Si prepara un fine settimana tremendo -

- Già - mugugnò Gianni, e il suo pensiero corse nuovamente alle montagne.

“Una volta ci si muoveva comunque” pensò, “anche quando diluviava o c'era neve”. Infatti tante volte aveva trovato tempo instabile o brutto, oppure un vento tremendo, senza per questo rinunciare alla meta. Se proprio non era possibile arrampicare si cambiava programma, d'accordo, ma si faceva pur sempre qualcosa.

Come quella volta al Piz Prevat: c'era neve nelle fessure anche se era solo metà settembre, per cui avevano smesso di arrampicare al secondo tiro. Le dita non avevano più alcuna sensibilità e l'aria pungente turbinava tra i vestiti, insinuandosi ovunque, anche sotto la giacca da roccia.
Pino era salito per disperazione, aveva le cornee arrossate per il freddo e il vento, ma non mollava. Aveva detto: “Per me è uguale, fai tu”. Così erano scesi e si erano messi a raccogliere  mirtilli semi-congelati, perché di funghi non ce n'era neanche l'ombra.

Oppure quell'altra volta su in Valsassina, quando volevano portare Mirko a fare la Cassin al Medale. Pioveva, e allora tutti dentro l'osteria di Zaccheo: bianchini e salame fino alle nove e mezza e poi via a far la ferrata! Erano saliti fino ai Resinelli sotto l'acqua e senza sentiero, con Mirko che s'era riempito le tasche della tuta di lumache. E poi il sasso nel canale, quel sapore di sangue in bocca, l'odore della tragedia sfiorata, mancata per un soffio, nonostante quella situazione di ripiego, apparentemente tranquilla, senza neanche arrampicare.  

- Devi andare ad arrampicare in questi giorni? -

- Dovevo, ma con questo tempo credo sarà improbabile che ci vada... -

- E' un peccato - mormorò il ragazzo con malcelata delusione - speriamo almeno che domenica... -

Gianni lo guardò.

- Quanti anni hai? -

- Quin... quasi sedici! -

Quasi sedici” pensò fra sé, “potrebbe essere mio figlio”.
Ma quale figlio, se aveva perso il treno già da tempo. Sara, invece, un figlio l'aveva fatto per davvero, ma non con lui. Ogni tanto la incontrava alla stazione, ma parlavano poco. “Tu hai sempre per la testa quelle maledette montagne” gli aveva detto un mattino tagliando corto. E lui, forse per la prima volta, aveva pensato che in fondo aveva ragione e che quella passione, quella sete di andare, di fare, di collezionare, gli era stata fatale, l'aveva escluso da un mondo che non era banale, come aveva ritenuto, ma essenziale. Eppure per gli altri non era così. Qualcuno a cui la propria compagna non aveva posto l'out-out esisteva. Prendi il Sergio, ad esempio, che ha due bambine ma in montagna ci va sempre. Anche quest'anno erano stati insieme in Val Canali, per tre giorni, e non aveva mai detto “facciamo qualcosa di più breve, così torno prima dalle mie donne”. E Gianni s'era domandato se ci tenesse veramente alla sua famiglia...

- E' troppo tardi? -

- Troppo tardi per cosa? -

- Troppo tardi per cominciare! -

Il ragazzino non mollava. Aveva gli occhi sgranati, in attesa di una risposta. Si capiva che in lui si muovevano energie più che cospicue sotto il profilo della motivazione, che il suo era un bisogno inarginabile, come tutti i bisogni adolescenziali, del resto.

- No, non è tardi per niente - lo rassicurò Gianni con un accento paternalistico - anzi, direi che è un'età buona per intraprendere una passione. A patto di non voler bruciare le tappe, di non voler consumare tutto in un attimo. -

Così invece era stato per Sara, e non smetteva mai di rimproverarselo.
Appena aveva colto in lei un flebile segno di disponibilità a seguirlo in quelle avventure l'aveva trascinata, nel giro di un'estate, dai facili sentieri alle vie di quinto grado sulle pareti più selvagge. All'inizio sembrava entusiasta, ma quanto era durata?
Già l'anno successivo s'era trovata l'impegno di accudire ai cuginetti a Moneglia, e poi c'erano sempre più esami e sempre più difficili: bisognava studiare...
Restava sempre meno tempo per vedersi e per fare qualche bella via insieme, così lui, anziché accettare quella realtà e decidersi a portare la sua donna al cinema, al mare, a far qualcosa di più ‘normale’, la conduceva su vie sempre più difficili, facendola divertire sempre meno. Quando smise di seguirlo - ed era solo l'inizio del loro fallimento - lui ricominciò a frequentare i vecchi compagni: il Gino, detto ‘rambo’, che non aveva mai visto una donna se non dalle riviste hard-core; il Peppo, che aveva cinquant'anni e una moglie testimone di Geova che passava le domeniche a cantare nella “sala di Dio” ed il sabato era l'incubo citofonico di tutto il vicinato; il Rodolfo, ormai completamente miope, al quale bisognava impedire con mille artifizi (anche perché andava soggetto a grandi crisi depressive) di arrampicare da capocordata, onde evitare di ‘perdere la via’ ad ogni filata di corda.

- Ma quanto ci vuole per imparare? E poi quanto dura un corso? -

- Dipende, se hai talento e se sei determinato, oggi, dopo qualche uscita, ti portano già sul quinto grado. Dicono che si deve cominciare subito ad arrampicare ‘sul difficile’... -

- E invece una volta com'era? - chiese ansioso il ragazzino.

- Una volta si chiamavano ‘alpinisti’ anche quelli che percorrevano i sentieri. Bisognava vestirsi con i pantaloni alla zuava di velluto a coste, che al primo acquazzone si inzuppavano e restavano bagnati tutto il giorno. E poi guai a camminare su un sentiero, per ampio e pianeggiante che fosse, senza gli scarponi!  Figurati quanto dovevi attendere prima che qualche buon cuore ti portasse a fare una crestina di ‘secondo’! E guai a te se banalizzavi l'impresa!  
Poi si doveva passare sempre dai rifugi, prima per dire dove si andava, anche quando andavi ad accendere un cero nella cappelletta duecento metri più in là, e quindi per raccontare com'era andata. E sorbirsi le paternali delle ‘vecchie rocce’,  perché se non eri salito “bisognava prepararsi seriamente, mica sperare di fare tutto e subito senza sacrifici”, mentre invece se ce l'avevi fatta erano “imprudenze e bisogna sempre ricordarsi di arrampicare un grado in meno delle proprie possibilità e non fare sempre affidamento sul soccorso”. Per finire partivano i racconti retrospettivi a sfondo più moralistico che formativo...

- Però doveva essere bello sentire quelle storie! -

- E infatti lo era, ma fino a un certo punto, perché i racconti erano sempre gli stessi e venivano presto a noia. Inoltre era difficile uscire da quegli schemi. La tradizione è una bella cosa ma non deve tarpare le ali al progresso. -

Gianni mormorò quelle parole con aria solenne e mentre le scandiva pensava a quanto fossero pericolose, anche perché qualche volta si scambiano per vecchiume tradizioni meravigliose ed usanze affascinanti e per progresso la degenerazione dei costumi.

- Dipende cosa porta il progresso. - Sentenziò il ragazzo.

Era proprio vero quel che diceva il ragazzo” rifletté Gianni. 
Gli osservò per la prima volta la struttura fisica: era alto e magro, ma con le spalle larghe. Doveva aver fatto e fare molto sport. Questa congettura era avallata dalla borsa di nylon che teneva tra le gambe, stinta, consunta, in altre parole ‘vissuta’.

Il treno si fermò.

- Santo Dio!  E' la mia fermata, debbo scendere! Ciao! -

- Ciao! Ci vediamo la settimana prossima! - rispose Gianni guardando divertito il ragazzo che guadagnava l'uscita tenendo la vecchia borsa sulla testa a mani tese.

Non aveva smesso di piovere.

Gianni si alzò dalla panca di legno ed abbassò il finestrino. Si sentiva più sereno e molto meglio disposto verso quel fine settimana, per piovoso che fosse. Respirò l'aria umida a pieni polmoni.

- Ciao ancora! - si sentì chiamare dalla pensilina.

- Ehi! - rispose - non m'hai neanche detto come ti chiami!

- Gianni! - rispose il ragazzo sorridendo e scomparve  mescolandosi tra la folla della stazione.

 

 

Novembre 1993

Massimo Anile

 

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