In vetta al Manaslu

 

di Giampaolo Casarotto

 

Himalaya, Manaslu (8.163 m), versante Nord-Est: una riflessione disincantata in vetta ad un ottomila. Spedizione italiana Manaslu, maggio 2000.

 

Mezzogiorno. Non sento i rintocchi delle campane invadere con il loro suono queste valli e queste cime innevate. Mi guardo attorno e tutto ciò che vedo è sotto di me, più basso e precipita a valle. I suoni quassù non arrivano, forse l'aria è troppo sottile. Senza rendermene conto sono in vetta ad una cima di ottomila metri: il Manaslu. E' il sogno di tanti appassionati di montagna che lentamente si è materializzato. Da 23 giorni siamo al campo base nell'attesa di questo momento, ma più indietro nel tempo risale l'attesa della partenza per il Nepal con tutte le formalità per l'organizzazione di un viaggio alpinistico. Nascosto negli androni più oscuri del mio essere rimane invece la voglia, il desiderio, il piacere di salire sempre più in alto. Ricordo le prime esperienze in montagna con i jeans trasformati in corazza di ghiaccio a discutere che un giorno ci saranno materiali leggeri e termici che non ci faranno soffrire questo freddo che penetra le ossa. Ricordo le mele cristallizzate e gli zaini pesanti e noi a discutere che troveranno del cibo che renderà leggere le nostre spalle e sazia la nostra pancia. Quel tempo è arrivato e la tecnologia ci mette a disposizione molti confort per rendere più facile la vita anche a chi sale le montagne. Ma nella logica di non soffrire per salire in alto, un elemento che rimane di proprietà dell'uomo è il cuore, inteso sia in senso fisico sia ideale. Salire comporta uno sforzo notevole ed il ‘motore’ che produce tale movimento deve essere collaudato a tali esperienze, ma, come dicono esperti himalaysti, il raggiungimento di tali altezze si ottiene con la testa. Il cuore e la testa ci donano la capacità di gestire le situazioni critiche, di controllare le paure, di vincere le indecisioni e queste risultano le strategie risolutive in alta quota. L'abbiamo sperimentato con le tensioni che si vengono a creare all'interno di un gruppo, anche affiatato, quando il vivere è portato all'estremo a causa delle avversità dell'ambiente, o dalla lontananza dei familiari, o solo dalla remota ipotesi che il cibo sia insufficiente ed il primo mercato a chilometri, o meglio giorni di cammino di distanza. Abbiamo vissuto 18 ore all'interno di un doppio telo di nylon, la limitata protezione di una tenda, con gli elementi della natura adirati e senza la certezza che quella fragile tecnologia sopportasse tale furia. In caso contrario il nostro essere sarebbe stato sottoposto ad una prova con non tante possibilità di riuscita positiva. Abbiamo vinto le ore angosciose che precedono i grandi eventi prima di ‘vincere’ la vetta vera e propria. Sono ore che non passano mai e che mille pensieri invadono ipotizzando le situazioni più nefaste. E' il coraggio della ‘non azione’ nell'attesa di mettersi in moto ed allontanare con l'‘azione’ tutti i fantasmi che ci ronzavano attorno. La vetta viene solo dopo, come momento fisico e preludio finale ad emozioni che si raggiungono raramente. La vetta è un momento, non importa quale esso sia, ma come noi l'abbiamo vissuta e superata. A volte la vetta non è che un cumulo di sassi o una protuberanza di neve che si eleva un po' più alto di ciò che ci sta attorno. A volte la vetta è un nulla che naufraga in mezzo alla nebbia. La vetta è ciò che noi vorremmo fosse. Una vittoria da raccontare agli amici, una sconfitta da meditare in silenzio e solitudine, una frustrazione che ci accompagnerà nei giorni della settimana nell'attesa di una nuova vetta da salire. Così, di vetta in vetta, cresciamo con la passione per la montagna dentro il sangue. Sangue che coagula e scorre lento nelle sue strade, come lento scorre il tempo delle popolazioni che abbiamo incontrato prima di arrivare ai ghiacci di questa montagna. E' la vita lenta che ancora soffia in questi recessi di mondo mentre noi siamo troppo presi dalle comunicazioni satellitari a dai lanci di e-mail perché, forse, abbiamo paura di abbandonare il mondo che noi conosciamo. Sogni che riempiono la testa perché l'aria sottile di questa quota forse l'ha un po' svuotata. Ma bisogna scendere, andare via da questo luogo estremamente bello ed estremamente inospitale, divallare per rivedere gli amici e per ritornare a casa. Raccontare poi agli altri cosa si è visto, vissuto, sofferto anche se un'esperienza di questo tipo rimarrà impressa solo in noi stessi e difficilmente sarà comunicabile e compresa. Che dire della spedizione? Tutto ha funzionato a dovere e quattro alpinisti ed uno sherpa hanno raggiunto la vetta a coronamento di un lavoro di squadra che ci ha impegnato per mesi, prima e durante la salita. E dopo? Quanto è stato fatto appartiene oramai al passato mentre il futuro è ancora incerto davanti a noi. Più avanti ci sarà una nuova vetta, un nuovo viaggio, una nuova fuga dal quotidiano perché, in fondo, gli alpinisti non sono eroi e forse è più difficile vivere tra le quattro mura di una casa che tra gli spazi infiniti dell'Himalaya.

 

Novembre 2000

Giampaolo Casarotto

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

MARIO FANTIN, I 14 ottomila - Antologia, Bologna 1964.

REINHOLD MESSNER, Sopravvissuto - I miei 14 ottomila, Novara 1987.

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