A sinistra del Majori

 

di Manilio Prignano

 

 

Prologo

Il Sirente è una montagna bellissima. Quando nasce, nel mezzo dell'Altipiano delle Rocche, sembra un colle come tanti, ma poi il suo crinale, invece di scendere dall'altra parte, continua a crescere e salire senza posa, disegnando una enorme mole allungata che si protende verso sud-est per chilometri.
Ai piedi del ripido e verdissimo fianco nord-est si adagia una serie di stupendi pianori carsici: i Prati del Sirente. Tra questi e le pareti che sorreggono la cresta si distende un'ampia e rigogliosa faggeta che con morbide ondulazioni fascia tutta la montagna.
Al contrario il versante sud-ovest digrada nudo verso la Marsica.
Tutto il Sirente è attraente, in ogni stagione, ma la Neviera e il Canale hanno un fascino tutto loro.

 

Sirente. Silenzio

Prati di Canale. Agosto. La luna sale lenta sui faggi.  Puntuale l'allocco sorvola la radura con un fruscio appena percettibile. Ombra tra le ombre nel fascio di luce lunare. Silenzio.
 

Il sole scalda l'aria nella tenda fino a renderla irrespirabile. Ci svegliamo.  L'acqua del fontanile, gelida sulla pelle, squarcia improvvisamente la densa bruma in cui ancora ci crogiolavamo. Mangiare pigramente, dormire ancora.  Vivere per un po' come i tritoni che, sospesi a mezz'acqua nelle trocche della fonte, immobili attendono senza tensione. Di tanto in tanto salgono a prendere una boccata d'aria, poi dolcemente risprofondano nel silenzio trasparente dell'acqua ferma.

Uno, due, tre giorni... un rumore!  Aprendosi un varco nel torpore mattutino una cadenza giunge all'orecchio. Solenne incede una vacca.  Austera passa e scompare. Silenzio.

Il sole abbagliando supera il culmine della parabola, poi scivola adagio oltre le cime e sfiorandole le fa arrossire.  Di nuovo un rumore, un suono quasi dimenticato: un ragazzo su una moto.  - Avete visto una vacca bianca? -  E subito si dilegua nella direzione indicata. Silenzio.

 

C'è al Sirente la Pala di Monte Canale

Lontano, ai margini della montagna, dove le rocce si diradano e i ghiaioni scorrono larghi e tranquilli, spicca limpida l'elegante linea della sua cresta.  Chiara ti ammicca tra le fronde, quando riemergi dalle profondità della faggeta. La guardi e ne ammiri lo slancio.  Lo sai, è un cristallo in frantumi, una delicata costruzione del tempo incapace di sostenere il peso di un uomo, eppure vorresti toccarla. Così scivoli lungo l'orlo del bosco fin dove il lenzuolo verde lambisce la pietra.  Ecco, basterebbe allungare la mano, ma... meglio non sfiorarla nemmeno, già è tanto che tolleri il raggio degli occhi vicini. È fragile ora come l'ultima volta che inseguendo sogni di grandi avventure avevi ceduto alla sua inconsapevole malia.

Stai per andartene quando qualcosa ti spinge a voltarti: dalle mille facce del cristallo mille occhi ti fissano - torna, se diventi più leggero - sussurra  la Pala.

 

Piano di Canale

E' bello, volgendo le spalle all'Altipiano delle Rocche, avviarsi verso Secinaro e correndo alti sui Prati del Sirente lasciare a lungo lo sguardo spaziare. Poi, quando la strada s'accosta alla montagna, s'incontrano i ruderi dello Chalet e chi ne ha voglia può liberarsi dell'auto e farsi sedurre da un ombroso tratturo che inoltrandosi per una comoda valletta in breve conduce fuori dal bosco, là dove si apre il Piano di Canale. In alto i valloni sono ancora bianchi di neve, ma tutto intorno l'inverno ha ceduto all'incalzare della primavera.  La faggeta circonda i prati colorati sfoggiando un abito smagliante di clorofilla fresca. Tutto è teneramente luminoso, anche le grigie rocce della Neviera.  Vale la pena di perdersi nei piani, travasare i passi da una conca all'altra e scoprire nell'ultima l'incanto di un effimero laghetto.

Non so se nelle vasche dei fontanili i tritoni ci siano ancora. Certo è che la radura dei miei sogni ora è deturpata da bellissimi tavolacci e rustiche panche, dal sapore così autentico da far concorrenza a un würstel di pollo.  Eppure l'aria è la stessa di sempre e i sogni non hanno smesso di esalare leggeri dall'erba umida e grassa di quei praticelli nascosti tra i faggi, così abili e discreti nel convincerti a sdraiarti al sole e lasciarti andare...

 

La  Neviera

Una lunga salita attraverso le monotone maglie di una rete di faggi sempre fitta e compatta diluisce il senso del tempo e corrode l'abitudine a muoversi tenendo d'occhio gli amati punti di riferimento. I tornanti della mulattiera imprimono al cammino il loro ritmo e ad ogni curva il concetto di meta perde un po' del suo smalto. Poi finalmente un pugno di cielo rompe l'ombra del bosco ed ecco i picchi della Neviera. Se la cura dei faggi avrà sortito il suo effetto, sarà facile dimenticare il sentiero per la vetta e, con un tuffo attraverso un'ultima frangia boscosa, raggiungere le rive dei mari dell'instabile, le immense pietraie dello Scurribile. Qui salpare è saltare, da un masso all'altro, senza mai fermarsi a cadere. Giunti ai fiumi dei sassi fini, risalirli col passo che sale scendendo (ovvero con un piede che s'alza mentre l'altro sprofonda), e constatare come a volte la distanza che ci separa dalle pareti sia solo una parte di quella da colmare per raggiungerle. Finalmente l'approdo! I piedi godono sentendo il sicuro sulle pietre caparbiamente serrate dalle radici dei ginepri e una solidità ancor più gustosa la vorrebbero sentire le mani, che saggiano la roccia desiderose di appigliarsi. Vorrebbero... ma, si sa, da queste parti si possono costeggiare le pareti per chilometri nella vana ricerca di una sicurezza che questo calcare non può dare.

Così, perso il concetto di meta, si finisce per perdere anche quello di scopo...  ed ecco il respiro lento dei canaloni, le grida acute dei gracchi, l'alito gelido dei ghiacciai estinti che ancora emana dagli anfratti più cupi per poi svanire tra le chiome di betulle gentili. Più in alto creste aguzze, spigoli sospesi e, scavalcando il crinale, l'inatteso distendersi degli occhi sugli infiniti pendii erbosi che calano piano a sciogliersi nell'ampia foschia del Fucino. 

Uno sguardo all'indietro, per un attimo, comprende il Sirente...

 

Dall'altra parte

Sul versante marsicano pendii desolati si susseguono senza soluzione di continuità. Dove sali, sali.

Nel deserto obliquo di sassi rugosi spicca qua e là un ispido cespuglio tenacemente radicato nella pietra; il marrone colorato della chioma sbatte vivo contro il blu del cielo autunnale, profondamente risonante.
Le pecore attraversano l'estate risalendo i pazienti pendii della Macerola.  Ogni giorno milioni di passi senza meta, disegnando linee senza senso, giungono sull'orlo del grande vuoto. Poi torna il freddo. Nessuno rimane in Val d'Arano. La solitudine allarga tranquilla il suo gelido manto stellato e la vegetazione, stremata da miliardi di morsi, si addormenta. E' l'autunno montano dei prati arrossati.

Seguendo un percorso privo persino della logica erbosa degli ovini, anch’io giungo sul limite dell'altopiano. Dalla cresta che si spinge nel cielo, vedo i pendii raggiungere il culmine e poi rompersi in mille rocce bianche che precipitano nel vuoto come immobili spume scroscianti.

Attraverso l'oceano del tempo, corre il Sirente, immane onda di pietra.

 

Navigatore solitario

Più volte m'è capitato di imbattermi sulle pendici del Sirente, e anche sul crinale, nei resti di misteriosi circuiti e meccanismi. Conservo  ancora  uno strano ingranaggio dal rumore curioso…

Un'arietta gelida e insistente mi guida con morbida determinazione di là dalle dune di pietra, dove, quasi mare calmo in un porto, si raccoglie un lembo di prato verde. Al riparo dai refoli ghiacciati, protetto da un'ansa rocciosa, sciolgo i miei brividi e lo vedo: come in una vera cala segreta, uno strano relitto giace sul fondo della dolina con un'iscrizione scolpita sul fianco*...

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Navigava in perfetta solitudine. Sospeso su abissi siderali, veleggiava lasco solcando cieli profondissimi, alla ricerca forse del confine tra il nero e il blu. Di tanto in tanto folate dispettose, cogliendolo di sorpresa lo facevano sbandare; allora i bianchi ingranaggi del suo cuore, feriti dalla incomprensibile prepotenza del vento, riprendevano pigramente a ruotare e il silenzio rarefatto di quel vuoto impossibile si incrinava rigato da un malinconico ronzio. Struggenti variazioni su un suono solo si sprigionavano senza speranza di essere ascoltate, come il canto di un nostromo solitario su un vascello alla deriva.

Chissà da quant'era in viaggio e se mai avesse scoperto qualcosa sui confini del cielo quando giunse l'inevitabile naufragio che costò la vita all'ignaro bacherozzo su cui piombò al termine di una lunghissima caduta, dagli spazi infiniti della stratosfera... a quelli del Sirente.

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*Osservatorio meteorologico di...

 

Re Torrione della Neviera

C'era una volta, nelle terre di Canale, Re Torrione della Neviera.

Il nostro re, con procedura alquanto insolita, faceva di persona gli onori di casa ai viandanti che attraversavano il suo regno diretti alla cima del Sirente. Ostentando la forma turrita (un po' tozza in realtà), Re Torrione si presentava vantando le nobili origini che lo distinguevano dalle rocce di bassa lega accalcate intorno alla Neviera. - Dove andate? - diceva poi ai passanti - Non vale la pena di seguire quel sentiero, non c'è niente d'interessante da quella parte. Salite da me piuttosto, potrete arrampicare!  Guardate che fessure eleganti e che vetta dalla spiccata individualità! -

Ogni tanto tra i pellegrini di passaggio ce n'era qualcuno sensibile alla parola magica ‘arrampicare’ che si fermava a scrutare il torrione. Non ci voleva molto però a capire che, a dispetto della figura invitante, la sostanza era la stessa delle altre pareti: un calcare bianco e friabile che oltretutto, mentre il Re pronunciava i suoi discorsi, lo smentiva a chiari gesti lasciando intendere di non voler essere neanche sfiorato. I viandanti se ne andavano ridacchiando, ma Re Torrione, che non sospettava minimamente di essere messo in ridicolo dalla sua stessa roccia, continuava senza scomporsi a porgere i suoi inviti.

Un giorno, esasperato dalla, a parer suo, incomprensibile indifferenza mostrata nei suoi regali confronti, stolido com'era se la prese col figliolo, Principe Pilastro, reo di essere argenteo e compatto, evidentemente diverso da lui e quindi indubbia causa dei suoi insuccessi.  Decise perciò di punirlo relegandolo in un angoletto seminascosto ai confini del suo regno, sicuro tra l'altro che così facendo avrebbe reso ancor più evidenti le rotte fessure di cui andava tanto orgoglioso. E così fu.

Qualche tempo dopo caso volle che passassero di là alcuni bambini in cerca d'avventure e luoghi misteriosi e per loro fu facile indovinare il posto dove era segregato il Principe Pilastro.  Senza farsi scoprire lo liberarono dalla solitudine e divennero grandi amici.

Ancora oggi, mentre il Principe gioca all'arrampicata con i suoi nuovi compagni, Re Torrione ignaro si ostina a lanciare i suoi vani richiami.

 

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Nota storica*

Arrampicare alla Neviera e Monte di Canale

Sebbene si sospetti l'esistenza di qualche vecchia via, le prime notizie sicure di arrampicate effettuate in questo settore del Sirente risalgono solo al 1979, anno in cui Armando Baiocco ed Ettore Pallante realizzarono la via dei Vecchiacci allo Sperone Centrale. Dopo di loro pochi altri si sono dedicati all'esplorazione alpinistica di queste pur evidenti strutture. L'Altare della Neviera viene salito nell'84 da Manilio Prignano, Stefano Cottarelli e Vincenzo Ricciotti per lo spigolo Nord, quasi un pilastro a parte. Nel ‘92 tornano Baiocco e Pallante per salire la cresta Nord dello sperone di Monte di Canale mentre, sulla stessa montagna, la Pala deve attendere fino al 1994 perché qualcuno (sempre Baiocco con  Moreno Cecconi) trovi il coraggio e la giusta determinazione per affrontare e risolvere il suo evidente spigolo Nord. Nel corso dello stesso anno Giancarlo Guzzardi, Enzo Paolini, Giulio Scalzitti e altri alpinisti di Sulmona, protagonisti su queste montagne di una cospicua attività invernale, tracciano altre due brevi vie sulle rocce di Monte di Canale ed una sull'Altare della Neviera. Prignano e Paolini si rifanno vivi nel ‘96 salendo il Pilastro dell'Indio, un evidente sperone del Peschio Pedone, mentre Guzzardi e Scalzitti, ad inverno iniziato, scalano il Pilastro dei Peligni al Peschio Gaetano. Il ‘99 vede ancora in azione Prignano e Paolini, che prendono di mira il settore compreso tra la Valle dello Scurribile e la Val Lupara effettuando la prima salita della parete Nord-Est di Quota 2277, per il pilastro centrale. Gli stessi si ripetono nell'estate 2000 salendo la cresta Est della medesima struttura e, in compagnia di Gaia Prignano e Valerio Paolini, la cresta Nord di Quota 1995, sempre nello stesso settore.

A dispetto della loro logicità però, della dozzina di vie aperte finora su queste pareti, solo poche sono consigliabili. Le altre presentano tutte tratti, anche lunghi, di roccia friabile o instabile e ciò spiega chiaramente il perché della scarsa frequentazione di queste strutture. Ciononostante una giornata d'arrampicata nel silenzio di questi valloni ha un fascino innegabile (d'altri tempi, forse... ). Nel caso decideste di provarlo, portate qualche chiodo, dadi o friend (specie di misura media), anelli di fettuccia anche grandi e soprattutto non dimenticate il casco!

Ricordiamo infine che la storia alpinistica del Sirente è trattata in modo esauriente in Appennino d'inverno di Vincenzo Abbate (Andromeda Editrice, 1995).

*questo paragrafo, coerentemente con la stagione cui fa riferimento il resto dell'articolo, è dedicato esclusivamente all'arrampicata estiva su roccia.

 

<1997-2000> 

Manilio Prignano

 

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