Kailas: la Montagna Sacra

 

di Alessandro Pellegatta

 

 

Il Kailas è il luogo sacro che ha influenzato maggiormente la cultura indiana: la sua influenza valica gli stessi confini geografici dell'India ed è presente in tutta l'Asia.
Attraverso un affascinante viaggio all'interno delle strutture archetipali dell'immaginario, è infatti possibile riconoscere il mito del Kailas nelle grotte di Ellora, così come nelle ‘shikhara’ (torri) del Khajuraho, nei ‘chorten’ del Tibet, o nelle pagode birmane, thailandesi e cambogiane, o nei templi di Bali o negli stupa-mandala di Borobudur in Indonesia...

La prima volta che mi sono misurato con il mito del Monte Kailas fu nel Rajasthan, la regione desertica posta a nord-ovest dell'India, e precisamente ad Ajmer: città non bella ma da vedere per almeno due ragioni, una delle quali è la visita al famoso tempio jainista di Nasiyan.
Nel tempio di Nasiyan, in un grande salone a due piani, è illustrata la rappresentazione del mondo secondo la mitologia jainista. Al centro dell'enorme plastico - che pare sia stato realizzato utilizzando oltre 800 chilogrammi di oro e svariate pietre preziose - campeggia il monte Kailas (che la mitologia induista identifica col Monte Meru), la Montagna del Mondo. Adinath, il primo Tirthankara (Santo) del jainismo, si dice abbia raggiunto il nirvana proprio al Kailas (chiamato dai jainisti ‘Ashtàpada’). Al tempio si recano in pellegrinaggio gli ‘Svetambara’, religiosi vestiti di bianco, e  intere famiglie poverissime (e probabilmente semi-analfabete) che rimangono letteralmente stupefatte.

V'era, un tempo, un picco del Monte Meru famoso nel trimundio. Questo picco traeva la sua discendenza dal Sole ed era chiamato Luminare; era ricco di ogni sorta di gemme, incommensurabile, inaccessibile a tutte le genti. Là, sul pendio montano adorato d'oro e di minerali, il dio Shiva stava assiso come su un divano, rifulgendo di intenso splendore...”(dal ‘Mahabharata’).

Tornano alla mente le solitarie pietraie intorno al Kailas, dove visse Milarepa, cibandosi di sole ortiche e radici e vestendosi di  cotone nei rigori estremi del clima tibetano, grazie alla sua capacità di generare il ‘tumo’, il calore interiore che si sviluppa attraverso la meditazione. Milarepa non possedeva nulla e si sottopose a privazioni tremende. Lo stesso spirito di Milarepa anima l'ascetismo attuale del jainismo, i cui seguaci sono strettamente vegetariani e fanno penitenza digiunando.
Durante il mese sacro del Pajoshan i jainisti non consumano verdura in foglia, radici e acqua non bollita. Nell'ultimo giorno di penitenza chiedono perdono per avere offeso una qualsiasi creatura vivente. I ‘Digambara’ (‘vestiti di spazio’), in prevalenza monaci, trascorrono l'esistenza in un'ascesi totale, completamente nudi, rinunciando a tutti i beni terreni, mentre gli ‘Svetambara’ (‘vestiti di bianco’) indossano una mascherina che, coprendo la bocca, serve ad evitare di inalare accidentalmente gli esseri viventi...
Lo stesso Gandhi sentì in modo particolare l'influsso degli insegnamenti jaina.  Aveva accettato l'Ahisma, l'arte del non far male, come base della sua politica e della sua vita; si accontentava di una semplice copertura ai lombi e poteva digiunare fino alla morte (presso i jaina, il suicidio per fame rappresenta la massima vittoria dello spirito sulla cieca volontà di vivere...). I jainisti possono pertanto riconoscerlo come uno dei loro Jina, il ‘conquistatore’, uno dei grandi Maestri a cui - come essi ancora credono - il fato ha ordinato di apparire a intervalli regolari per illuminare il popolo dell'India e del Mondo intero, l'incarnazione del Grande Spirito che periodicamente diventa carne per redimere...

Come è possibile che il Kailas, una montagna di appena 6000 metri, sia considerata così importante, quando ve ne sono di ben più alte e imponenti nella catena himalayana? Quali sono le ragioni che fanno del Kailas la montagna più sacra del mondo? Cosa contribuisce a fare di questa montagna un archetipo così radicato nell'inconscio collettivo dell'intero continente asiatico, a migliaia di chilometri di distanza dalla catena himalayana, fino ad Angkor e Borobudur ?

L'Illuminato dice in verità che questa montagna di neve è l'ombelico del mondo...Qui si può raggiungere la Perfezione trascendente”. Dall'altopiano intorno al Kailas nascono il Gange, l'Indo, il Suthej ed il Brahmaputra. Sulle sue pendici cresce la famosa e mitica ‘soma’, la bevanda della non-morte, l'elisir di lunga vita che va raccolta nelle notti di luna piena e a cui sono stati dedicati ben 120 ‘Veda’, le antiche scritture sacre dell'India. La fase più antica dell'Induismo è rappresentata dalla religione Vedica (c. 1500  a.C.), durante la quale gli indiani veneravano divinità ritenute originariamente ‘mortali’, che si credeva avessero raggiunto l'immortalità bevendo, appunto, il succo divino della ‘soma’.
Recenti studi, avvalorati dalle letture dei ‘Rig Veda’, hanno accertato che dal Kailas  sgorgava il Sarasvati, un fiume descritto come ‘enorme’ intorno al quale si sviluppò la civiltà vedica e che dopo un'eccezionale periodo di siccità durato per 300 anni (dal 2200 al 1900 a.C.) si disseccò completamente nelle sabbie desertiche del Thar.
La riscoperta del Sarasvati è davvero rivoluzionaria, in quanto contraddice le tradizionali teorie sulla cruenta invasione degli Ariani. Secondo recenti scoperte, illustrate da Olga Amman e Giulia Barletta in un affascinante libro  (‘Tibet sconosciuto’, Armando Dadò Editore, Locarno 1994), gli Ariani non possono essere le presunte tribù di razziatori che avrebbero distrutto la cosiddetta ‘civiltà dell'Indo’ intorno al 1500 a.C., come hanno finora ipotizzato gli accademici. Questa civiltà sarebbe scomparsa col prosciugamento del Sarasvati, la ‘Madre dei fiumi’, che abbandonò l’antico letto a seguito di violentissimi terremoti e ripetuti movimenti tettonici accompagnati a sconvolgimenti climatici, perdendo i suoi affluenti (tra cui il Gange) e dissolvendosi nel deserto verso Occidente.  

Il Kailas è al centro del mitico ‘Chaturdvipa’, il continente-mondo visto come un fiore di loto a quattro petali della cosmogonia vedica, ed è venerato da quattro religioni. Per l'Induismo, come sopra illustrato, è il regno di Shiva, il dio del ‘Lingam’ (fallo) e delle pratiche ascetiche, il grande Distruttore e Trasformatore. Per il Buddismo è la dimora di Sanvara, una manifestazione irata di Sakyamuni, ritenuta l'equivalente di Shiva. Il Jainismo venera il Kailas, in quanto il suo primo santo (Adinath, appunto) lì raggiunse il nirvana. L'antica religione ‘bòn’ del Tibet vede in esso la montagna dalla svastica a nove piani, sulla quale scese dal cielo il fondatore. Si racconta che Milarepa un giorno venne sfidato da uno sciamano ‘bònpo’ a salire sulla cima del Kailas. Lo sciamano raggiunse effettivamente la vetta, ma quando si accorse che Milarepa - che camminava ‘sul vento’ - era già lì, si lasciò sfuggire di mano il suo tamburo magico che, cadendo, tracciò quella lunga linea verticale che contraddistingue il versante sud-est della montagna.

Dalla stilizzazione della figura del Kailas e del suo ‘jojoba’, l'albero sacro da cui sgorga il Gange, hanno preso forma, oltre alle torri-pagode (dette ‘Meru’) dell'Indonesia e le splendide ‘shikhara’ (torri) del Khajuraho (vicino a Benares),  gli stessi ‘stupa buddisti’.
Il devoto che si cimenta (sempre in senso orario!) nella ‘pradakshina’ di un Grande Stupa - che poi è la stessa immagine del Buddha - compie teoricamente anche il ‘parikrama’ del Kailas. Con molta probabilità,  il pellegrinaggio intorno al Kailas, impegnando severamente ogni individuo, dovrebbe ottenere un coinvolgimento emotivo maggiore, e quindi risultati spirituali più profondi. Ma non è detto che uno ‘stupa’ e soprattutto il Grande Stupa di Sanchi, nell'India centrale, innalzato su una collina suggestiva e immersa nella quiete, non susciti il medesimo effetto. In fondo, tutto dipende dalla disposizione d'animo della persona: anche un viaggio al Kailas può risultare inutile e vano...

Il Kailas non è solo una montagna. E' una montagna con una sua ‘personalità’. Vibra di arcano, di miti e simboli, è lì che ti parla. Devi solo accettare il suo invito, e uscirai mutato dall'esperienza. Come con ogni montagna, bisogna passarle accanto percependone il sussurro, riconoscendo la sacralità dei luoghi e la sottile presenza del ‘genius loci’: bisogna avvicinarla con rispetto, tendendo l'orecchio alla sua voce più profonda, cercando di indirizzare lo sguardo oltre la realtà più scontata.

O Madre Terra, ogni passo che facciamo su di Te dovrebbe essere fatto in modo santo...”, diceva Alce Nero, il grande sciamano sioux.

 

 

 

<>1999<>

Alessandro Pellegatta

 

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