Lassù abitano solo gli Dei
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di Mario Vielmo | |
Himalaya, Dhaulagiri (8.167 m), versante Nord-Est: l'esperienza di un giovane himalaysta finalmente in vetta al suo primo ottomila. Spedizione italiana Dhaulagiri, maggio 1998.
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Non potevo credere
ai miei occhi quando, ancora con un piede sulla parete Nord e l'altro
sulla pianeggiante cresta a sud, stavo immortalando il sogno della mia
vita. Non so chi o cosa mi abbia spinto fin quassù, a oltre 8.000 metri
di quota, senza bombole d'ossigeno, in un mondo che non appartiene a
nessuno, in un mondo senza vita. “Lassù abitano solo gli Dei”, avevo ascoltato perplesso dai racconti degli Sherpa che abitano lungo la valle Miagdi. Percepivo una strana energia, mentre i miei occhi indeboliti e stanchi per il forte vento e per il freddo potevano solamente guardare in basso. Tutt'attorno la terra segnava il confine dell'orizzonte tra un oceano di vette e nuvole. Guardai in alto, ma non c'era più nulla da scalare. Era finita. Tutto il Dhaulagiri era finalmente sotto ai miei piedi e ancora più sotto la terra. Ero riuscito con le mie gambe ad arrivare fino al confine con la troposfera ed ora stavo toccando il cielo con un dito. Inoltre, l'aria sottile degli 8.000 mi trasmetteva una strana sensazione di potenza ed euforia. Anche se ero fisicamente debilitato dopo un mese di fatiche, lotte e tragedie vissute ai piedi di questa montagna, ora che finalmente ero arrivato in vetta potevo caricarmi e dare un senso e una spiegazione al motivo per cui mi trovavo lassù. Bastava guardare attorno: la mia vista osservava il vicino massiccio
dell'Annapurna e sconfinava verso l'altopiano del Tibet, mentre la mia
mente ascoltava strani suoni. Mi trovavo in un ambiente magico, forse
abitato da strane energie; finalmente ero appagato, non c'erano più
dubbi. Appena fissai su un chiodo alcune bandierine buddiste che avevo
custodito nella tasca della mia giacca in piumino, ritornai sui miei
passi e raggiunsi Tarcisio Bellò che mi stava precedendo. Decidemmo di
scendere alla svelta: nella zona della morte oltre i 7.600 metri
è meglio non rimanere a lungo. Inoltre Pensavo che un'altra notte in quell'inferno che si stava scatenando al campo 3 ci avrebbe messo di nuovo a dura prova. E poi il mio istinto mi consigliava di fuggire più che rimanere. Ma il mio compagno non volle saperne, era troppo stanco per muoversi ancora. Dopo un po' rigettò fuori quel poco di the bevuto, poi si mise tranquillo nel suo sacco piuma. Arrivò la notte e fu l'esperienza più allucinante di tutta la mia vita. La bufera si scatenò con tutta la sua violenza. Io rimasi sempre seduto con le mani tese verso le astine portanti della tenda ormai semidistrutta e piegata dalle raffiche di vento. La tenda al campo 3 si trovava in una posizione molto scomoda ed esposta al vento, era montata e fissata su alcuni chiodi su un piccolo terrazzo, in un tratto molto ripido della cresta Nord-Est. Il bordo esterno della tenda sporgeva in fuori verso l'immensa e profonda parete Nord. Eravamo sull'orlo del precipizio, tra la vita e la morte. Se solo uno dei tiranti esterni della tenda avesse ceduto quella notte, ora io non sarei qui a raccontarvi questa storia. Con la mia mente avrei voluto fuggire lontano da quell'inferno. Sognavo le bianche e calde spiagge dei luoghi esotici e mi chiedevo in continuazione cosa ci facessi lassù. Passai delle ore, tra una raffica di vento e l'altro, a pensare su tutta la mia esistenza. Il nero pensiero della morte mi tenne compagnia, mi sentivo impotente di fronte alla grande montagna. Pensavo all'amica francese Chantal Mauduit, una delle alpiniste più forti del mondo. L'avevamo trovata alcuni giorni prima senza vita assieme al suo sherpa Ang Chiring, uno tra i più forti portatori d'alta quota dell'Himalaya. Si trovavano dentro la loro tenda quando una maledetta valanga li sorprese nel sonno. Pensavo poi al ragazzo greco che vicino al campo volò via con una raffica di vento; pensavo a quel povero alpinista svizzero il cui corpo riposa appena sotto la vetta da 4 o 5 anni. Quante volte ho odiato questa montagna. Sapevo benissimo, ancora prima di partire, dei rischi che avrei corso in questa spedizione, ma la tentazione era fortissima e avevo un conto aperto con gli ottomila.
Nell'estate del ‘96 nel Karakorum pakistano avevo tentato la scalata
del Broad Peak, 8.046 metri, vicino al famoso K2. Ero giunto a 7.500
metri con il famoso alpinista basco Koke Lasa. Ci trovammo al nostro
quinto bivacco in parete, pronti per partire all'una di notte per
raggiungere la vetta. Eravamo senza sacchi a pelo, li avevamo sotterrati
in un buca duecento metri più in basso della tenda, visto che dovevamo
alleggerirci per tentare l'ultima chanche. Fu una lunga notte fredda;
ero seduto dentro la tenda con l'unico pensiero rivolto a quel sacco a
pelo. Quando l'alba arrivò, dopo ore che sembravano eterne, prendemmo
l'amara decisione di scendere. Il pericolo di valanghe ci fece ragionare
sulla giusta scelta. Alle prime luci dell'alba la tempesta ci diede tregua, Tarcisio stava
meglio e non esitammo un attimo a scendere. Eravamo stracarichi di
materiale, considerato il doveroso compito di smantellare il campo 3.
Dopo alcune ore arrivai al campo 2. Infilai lo snowboard ai piedi e
iniziai a scendere per 2.000 metri attraverso ripidi pendii ghiacciati
ed immensi crepacci. Quando arrivai ai piedi della montagna mi vennero
incontro Franco Brunello e Passang, il nostro cuoco. Si congratularono
per la vittoria e mi diedero una mano a portare il pesante zaino fino al
campo base. Arrivai al campo base con il fisico completamente debilitato. Mi
accorsi di questo quando mi rilassai: il giorno dopo non riuscivo
nemmeno a reggermi in piedi. Le fitte al torace che avvertivo giorni
prima si erano trasformate in pugnalate alle costole. Una settimana
dopo, quando rientrai in Italia, seppi che si trattava di una costola
fratturata. Quel giorno chiesi via radio l'intervento del medico della
spedizione slovena che si trovava a quindici minuti dal nostro campo
base. Ne seguì un episodio vergognoso: il medico non venne mai a farmi
visita, anzi chiedeva se potevo raggiungerlo al suo campo, cosa assurda
visto il mio stato. E così fece una cosa saggia, mi mandò tramite uno
sherpa delle pillole di un potente antidolorifico. Queste, una volta
prese, fecero più danni di prima, ebbi delle terribili coliche allo
stomaco proprio il giorno che lasciammo il campo per ritornare a valle,
salendo per il Passo dei Francesi. Raggiunta la valle Kaligandaki, dopo un mese vissuto sui ghiacciai, capii che la spedizione al Dhaulagiri era stata un'esperienza meravigliosa. Riscoprii i colori e i profumi della vita e sperimentai la sensazione di rinascere e di abitare in un nuovo mondo.
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Settembre 1998 | |
Mario Vielmo
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALEMAURICE HERZOG, Le grandi avventure dell'Himalaya - Volume 2, Novara 1983, pp.103-148. REINHOLD MESSNER, Corsa alla vetta, Novara 1986, pp. 29-44. KURT DIEMBERGER, Tra zero e ottomila, Torino 1995. ----------------------------------------------------------------------------------------------------
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