Il vasto parcheggio vicino all'albergo si era
ormai svuotato, mentre dalla strada che costeggiava una delle rive del
Lago di Braies giungevano alla spicciolata gli ultimi escursionisti.
Antonella era lì, in piedi accanto alla Renault 5: mi aspettava ancora, lo
sguardo rivolto nella direzione in cui ci eravamo incamminati al mattino.
Appoggiati alla fiancata dell'auto, zaini e borse che da sola aveva
trasportato faticosamente dalla riva opposta del lago, ma che aveva dovuto
lasciare in terra: le chiavi, infatti, le avevo portate con me...
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Prima di allora non conoscevo la montagna.
Da quanto ricordavo, avevo trascorso le vacanze sempre al mare, se si
escludono quelle passate da bambino in Toscana, in un paese ai piedi del
Monte Amiata, e qualche ‘settimana bianca’ durante gli anni del liceo.
Quell'estate del 1990 avevo programmato una vacanza itinerante: un lungo
viaggio in automobile attraverso il Trentino-Alto Adige alla scoperta di
laghi alpini e dolomitici. Antonella aveva insistito per accompagnarmi,
sebbene l'avessi avvertita che sarebbe stata una vacanza ‘spartana’, dove
la mia Renault 5 avrebbe svolto anche funzioni di... albergo.
Era un bel mattino d'agosto, quando di buon ora
eravamo arrivati al Lago di Braies provenienti dalla Val Pusteria.
Avendo portato con noi costumi da bagno e asciugamani da spiaggia, avevamo
deciso di raggiungere la riva più lontana del lago, che, esposta al sole
ed ancora poco affollata, sembrava il posto ideale per trascorrere
piacevolmente la giornata.
Poco prima di fermarci nel luogo prescelto, avevamo incrociato con lo
sguardo un cartello segnaletico, sul quale era disegnata in maniera
approssimativa una piantina del Parco Naturale Fanes-Sennes-Braies. Alcune
linee colorate e numerate, che univano le principali località della zona,
rappresentavano i sentieri segnati, di cui, tuttavia, non era indicato il
tempo medio di percorrenza.
In particolare avevo notato che il sentiero diretto nella vallata alla mia
destra raggiungeva con un largo giro l'altro versante della Croda del
Becco, l'imponente montagna che sovrastava il lago. Sul versante opposto
altri sentieri collegavano il precedente con quello che iniziava poco
oltre sulla mia sinistra.
Dunque, secondo quanto era indicato sulla piantina,
era possibile “fare il giro della montagna”, ritornando al lago dalla
parte opposta a quella di partenza.
Considerato che non erano ancora le dieci e che Antonella si sarebbe
certamente stesa al sole come una lucertola fino all'ora di pranzo, avevo
pensato bene di verificare subito l'attendibilità di quelle indicazioni,
ignorando distanze, tempi e dislivelli.
Così, scaricati i numerosi bagagli in un punto non troppo lontano dalla
riva, mi ero congedato dalla mia compagna di viaggio con la promessa che,
trascorse un paio d'ore, al massimo tre, sarei stato di ritorno.
Con indosso una semplice T-shirt, calzoncini corti, calzettoni di cotone
ed un paio di Superga da tennis, mi ero incamminato con passo svelto lungo
il sentiero. Sulle spalle uno zainetto con dentro un leggero kay-way, i
pantaloni della tuta, gli occhiali da sole, le chiavi dell'auto e una
buona dose di... incoscienza.
Non sapevo, allora, che per “fare il giro della montagna” fossero
necessarie più di sette ore.
All'inizio il sentiero era ampio, una sorta di stradina dal fondo ghiaioso
che risaliva gradualmente la valle, consentendo di percorrerla per un buon
tratto senza eccessiva fatica.
I raggi del sole facevano risaltare il verde intenso dei prati e le
incredibili tonalità di colore della flora alpina, mentre i maestosi abeti
davano al paesaggio un aspetto fiabesco.
In poco tempo giunsi nel punto in cui la valle si allargava, alla
confluenza con una secondaria, più incassata e selvaggia, percorsa al
centro da un torrente. Abbandonata la valle principale ed imboccata quest'ultima,
il sentiero segnato si restringeva, dapprima costeggiando il torrente, poi
attraversandolo. Infine s'inoltrava nel bosco.
Mi fermai, incerto, quando mi resi conto che la traccia diventava sempre
più ripida, mentre a fatica riuscivo a seguirla con lo sguardo nel fitto
sottobosco davanti a me. Dopo più di un'ora di cammino, avrei fatto bene a
ritenermi soddisfatto della bella passeggiata ed a tornare sui miei passi.
Invece, rivelando un'insospettata attrazione per l'ignoto, andai oltre.
Basta che segua sempre i segni, pensavo, in fondo è ancora presto...
Attraversato anche il bosco, il sentiero continuava a salire con stretti
tornanti tra alberi radi, avvicinandosi sempre più alla testata della
valle.
Mentre avanzavo con passo ancora spedito, mi accorsi da lontano della
presenza di un altro escursionista che procedeva lentamente.
Quando lo raggiunsi, si spostò di lato per farmi passare. Solo allora
notai che aveva un'età avanzata, sebbene sembrasse più abituato di me a
simili passeggiate.
Lo salutai. Sorridendo ricambiò il saluto, ma in un'altra lingua: era
austriaco.
Parlando lentamente e aiutandomi a gesti, provai a chiedergli, prima in
italiano, poi in inglese, quanto tempo fosse necessario per “andare
dall'altra parte della montagna”.
La risposta fu preoccupante: circa due ore.
Senza pensarci troppo,
proseguii affrettando il passo.
All'improvviso, dopo un'ultima curva del sentiero, mi trovai di fronte ad
uno spettacolo grandioso, impressionante: superato il limite della
vegetazione arborea, la traccia si dirigeva verso un grande masso
solitario al centro di una conca sassosa. Sulla conca incombeva una vasta
e scoscesa distesa di ghiaia racchiusa fra le alte pareti di un imponente
anfiteatro roccioso, che occupava quasi tutto l'orizzonte visivo. Il
sentiero si snodava attraverso il ghiaione verso il suo limite superiore,
ma ad una certa altezza si scorgeva il solco principale ramificarsi in
numerose tracce secondarie, poco marcate, che finivano poi per perdersi in
varie direzioni. Più su, tra le rocce, si apriva infine il valico che
metteva in comunicazione i due versanti del massiccio montuoso.
Giunto nei pressi del grande masso provai un senso di sgomento: era la
prima volta che mi trovavo faccia a faccia con la montagna. Solo.
Dunque dovevo attraversare quel ripido tappeto di detriti, in parte
improvvisando la salita, per passare sull'altro versante?
Fu in quel momento che cominciai a nutrire forti dubbi sulla possibilità
di riunirmi ad Antonella in tempo per il pranzo...
Stavo per fare dietro-front, quando lungo il tratto di sentiero che
precedeva la conca scorsi la sagoma del vecchio escursionista austriaco
che si avvicinava.
Se fino ad allora mi ero lasciato trasportare dall'incoscienza, in quella
circostanza si aggiunse l'orgoglio.
Per evitare la brutta figura che avrei fatto, battendo in ritirata sotto
lo sguardo altrui, ripresi il cammino avventurandomi nella faticosa
traversata del ghiaione.
Percorsi pochi metri, mi resi conto che le scarpe da tennis erano le meno
adatte a quel tipo di terreno: le suole lisce slittavano ad ogni passo,
mentre il piede affondava nel mare di sassolini. Era già tanto che
riuscissi a restare in piedi, rischiando continuamente di slogarmi una
caviglia.
La progressione risultava lenta e problematica, anche perché la fatica
cominciava a farsi sentire nelle gambe e talvolta ero costretto a fermarmi
per riprendere fiato.
Durante una di queste pause mi voltai indietro, lanciando uno sguardo in
direzione del grande masso al centro della conca: il vecchio escursionista
era ancora là, appoggiato al masso, e mi stava osservando.
Saggiamente doveva aver valutato l'impresa superiore alle sue possibilità,
perché sembrava che non avesse alcuna intenzione di proseguire. Alzò un braccio in cenno di saluto mentre io riprendevo la salita, deciso
a tirarmi fuori il più presto possibile da quella scomoda situazione.
Al termine del ghiaione fui costretto a superare ancora un ripido pendio
tra le rocce prima di raggiungere il valico, che appariva e scompariva in
mezzo alle nuvole.
In prossimità del valico il vento aumentò d'intensità e brividi di freddo
mi percorsero il corpo, mentre il sudore si raffreddava rapidamente sulla
pelle.
Mi ritrovai infine sull'altro versante completamente avvolto dalle nuvole,
ad oltre 2300 metri di quota, con la maglietta di cotone ormai fradicia,
stanco e affamato.
Quel silenzio assoluto, quasi irreale, che in seguito avrei tanto
ricercato e assaporato durante le escursioni in montagna, allora mi fece
paura.
Qual era la direzione da prendere in mezzo a quelle folate di nebbia, che
a tratti nascondevano i contorni delle cose e offuscavano la luce del
sole? Per quanto tempo ancora dovevo camminare? Quanto potevo resistere in
quelle condizioni? E, soprattutto, come potevo avvertire Antonella?
Per fortuna, spostandomi di qualche decina di metri dal valico, ritrovai
la traccia del sentiero che attraversava in leggera discesa i pascoli
d'alta quota del versante meridionale della montagna.
Poco dopo, lasciatemi alle spalle le nuvole ed uscito nuovamente al sole,
scorsi in lontananza una coppia di escursionisti che mi precedevano
avanzando a ritmo sostenuto lungo il sentiero. La distanza era eccessiva
per poterli chiamare, ma quella presenza umana insieme al verde dei prati
e al calore del sole mi aiutarono a ritrovare fiducia in me stesso.
Allungai il passo, credendo di essere ormai sulla via del ritorno.
Sarebbe stata sufficiente una semplice bussola, perché mi rendessi conto
dell'errore: procedendo verso Sud anziché Est, avevo abbandonato
l'itinerario stabilito e mi stavo allontanando ulteriormente dal Lago di
Braies.
Fu così che all'ora di pranzo, ora del previsto appuntamento con Antonella
sulla riva del lago, mi ritrovai al Rifugio Sennes, rifugio che non avrei
dovuto raggiungere per effettuare il “giro della montagna”...
C'era un'atmosfera movimentata intorno al rifugio: gruppetti di
escursionisti giungevano trafelati, altri riprendevano lentamente il
cammino, altri ancora sostavano sul prato, chi disteso a prendere il sole,
chi seduto a discutere animatamente col vicino o intento ad esaminare una
cartina topografica. Alcuni attempati soci di una sezione locale del
C.A.I. avevano improvvisato un coro alpino, mentre poco lontano una
chiassosa comitiva di boy-scout stava consumando la colazione al sacco.
Il mio aspetto esteriore non doveva essere dei migliori, quando, entrato
all'interno del rifugio, mi avvicinai al bancone del bar.
L'intenzione era quella di mangiare qualcosa e riposare una decina di
minuti, tanto per riordinare le idee, informarmi sulla via da seguire e
sul tempo necessario per ritornare al lago.
Una rapida occhiata al tariffario del rifugio e, contemporaneamente, al
mio portafogli poco fornito mi suggerì di ripiegare su un cappuccino
caldo.
La gentile signora che mi servì rispose alle mie domande con
un'espressione un po' stupita, avvertendomi che dal Sennes non erano
sufficienti tre ore per raggiungere il Lago di Braies.
Senza nemmeno sedermi, bevvi il cappuccino tutto d'un fiato ed uscii.
Cercai di reagire subito a quella notizia: dapprima pensai che la mia
interlocutrice si fosse sbagliata, poi mi convinsi che si fosse riferita
al tempo massimo di percorrenza, magari quello impiegato da un
escursionista che camminasse lentamente, come il vecchio austriaco che
avevo incontrato sull'altro versante.
Dal rifugio iniziavano due comode sterrate: una continuava in piano verso
Est, l'altra scendeva con larghe svolte in direzione Sud-Est.
Sulla base delle informazioni ricevute m'incamminai lungo la prima
sterrata, continuando, tuttavia, ad avere un'idea piuttosto confusa del
percorso da seguire.
Percorsa qualche decina di metri, volli accertarmi di aver preso la
direzione giusta e così decisi di fermare un paio di escursionisti che,
procedendo in senso inverso al mio, mi stavano passando accanto.
Non conoscevano il Lago di Braies, ma mi assicurarono che quella sterrata
conduceva soltanto al Rifugio Biella, nelle cui vicinanze non risultava
loro che si trovasse quel lago.
Rimasi sconcertato. Come era possibile che mi fossi sbagliato?
Mi sentivo talmente abbattuto che non pensai nemmeno di domandare a
qualcun altro.
Tornai sui miei passi fino al Rifugio Sennes e mi precipitai giù per la
discesa dell'altra sterrata.
Fu l'errore più grave che commisi quel giorno e che finì per rivelarsi un
vero e proprio colpo di grazia inferto alle mie residue speranze di
portare a termine l'itinerario previsto.
Infatti il percorso da seguire era proprio quello che passava per il
Rifugio Biella, saliva per un breve tratto in direzione della Croda del
Becco e poi, compiendo un largo giro, discendeva ripido fino al lago.
Ma io, come ho già detto, non ero assolutamente in grado di orientarmi e
così, senza rendermene conto, invece di restare in Alto Adige stavo
avanzando velocemente attraverso il versante veneto del Parco
Fanes-Sennes-Braies, praticamente in direzione di Cortina.
Mentre continuavo a perdere dislivello nella direzione sbagliata,
cominciai ad incontrare ciclisti impegnati a risalire la valle in
mountain-bike e gruppi familiari con bambini al seguito.
Che strano... La signora del rifugio mi aveva parlato di un sentiero
ripido e faticoso...
Bloccai il primo ciclista che mi capitò a tiro.
Non ci mise molto a convincermi che dovevo fare dietro-front e risalire
lungo la stessa sterrata fino ad incrociare sulla destra un sentiero
segnato che, evitandomi di ripassare per il Sennes, mi avrebbe condotto
fino al Rifugio Biella, tappa obbligata per raggiungere il Lago di Braies
da quel versante.
Il cielo cominciava ad annuvolarsi quando imboccai esausto la stretta
mulattiera che attraversava un prato ondulato prima di inerpicarsi per un
bosco di arbusti.
Quella che doveva essere una sorta di scorciatoia, si rivelò ben presto
interminabile e distruttiva per il mio fisico già così provato.
Durante la salita, interrotta continuamente da soste sempre più frequenti
e prolungate, incontrai numerosi escursionisti provenienti dal Biella.
Ad ognuno ponevo la stessa domanda, quanto tempo mancasse per arrivare al
rifugio.
Chi mi rispondeva un'ora, chi due, chi scuoteva la testa e mi consigliava
di tornare indietro, chi non riusciva a quantificare a livello temporale
la distanza da coprire e me la indicava visivamente sulla propria cartina.
D'altra parte era praticamente impossibile ottenere un'informazione
precisa in merito, visto che nessuno dei miei improvvisati interlocutori
stava seguendo quel percorso nella mia stessa direzione, cioè in salita,
ma tutti in senso contrario, ovvero in discesa.
Il sentiero, superato il tratto più ripido, proseguiva con modesti
saliscendi tra i prati che circondavano alcuni laghetti situati a Sud- Est
del rifugio.
Ma ormai nelle mie condizioni sarebbe risultato problematico anche
camminare in piano.
Ad ogni nuova sosta, riprendendo fiato, scrutavo il tratto di sentiero
davanti a me cercando con lo sguardo un sasso, un ciuffo d'erba, una
piazzola, insomma un obbiettivo minimo da raggiungere prima di fermarmi
nuovamente.
Venti passi, dieci, cinque...
Quando feci per alzarmi dopo l'ennesima fermata, seduto a metà circa di un
breve pendio erboso, fui assalito improvvisamente dalla paura: i muscoli
delle gambe non reagivano più, non rispondevano più alla mia volontà.
Ero praticamente bloccato lassù, in mezzo ad un prato d'alta quota, in un
punto imprecisato di un sentiero che non conoscevo, senza alcuna
possibilità di andare avanti o tornare indietro.
In preda alla disperazione mi accovacciai, nascondendo la testa tra le
gambe, senza più neanche la forza di invocare aiuto. Per un attimo pensai
ad Antonella e mi sembrò che fosse trascorsa un'eternità da quando ci
eravamo salutati.
Se è vero che la speranza è l'ultima a morire, mi attaccai all'unica
speranza possibile in quella situazione: essere soccorso da qualche
escursionista di passaggio.
Dopo qualche minuto mi raggiunse una comitiva. Passandomi velocemente
accanto, ogni componente mi lanciò un saluto, come è consuetudine tra chi
si incontra lungo i sentieri di montagna.
Nessuno si rese conto delle mie reali condizioni, anche perché io,
sollevando il viso, riuscii ad abbozzare un sorriso, seppure stentato, in
risposta ai saluti.
Sembrerà strano, ma se fino a quel momento era stato facile chiedere
informazioni sul percorso da seguire, ben più difficile si stava rivelando
chiedere aiuto.
Un secondo gruppo, che, come venni a sapere in seguito, proveniva da Como,
più numeroso del primo e perfettamente organizzato con tanto di
ricetrasmittenti, apparve in cima al pendio erboso che mi sovrastava.
Disposti in fila indiana, gli escursionisti cominciarono a scendere lungo
il sentiero, sfilando uno dopo l'altro a pochi centimetri dai miei piedi.
Mentre mi passavano accanto gli ultimi della lunga fila, mi feci coraggio
e domandai se potessero offrirmi qualcosa da mangiare o da bere.
Riuscii così ad attirare la loro attenzione, a tal punto che in pochi
minuti mi ritrovai circondato dalla comitiva al completo.
Quando si accorsero del mio stato, iniziò immediatamente tra i miei
soccorritori una gara spontanea di solidarietà: fui tempestato di
tavolette energetiche, cioccolato, biscotti, frutta e bevande di ogni
tipo.
Infilai in bocca ogni cosa, senza nemmeno guardare...
Subito cominciai a sentirmi meglio, mi alzai in piedi e raccontai come
fossi finito in quella situazione.
Quando apprese che mi ero avventurato da solo lungo dei sentieri di
montagna senza la benché minima esperienza, completamente sprovvisto del
necessario per poter affrontare un'escursione così lunga e impegnativa con
un buon margine di sicurezza, colui che doveva essere la guida o,
comunque, il capogruppo mi rimproverò più volte per la mia incoscienza e
mi consigliò vivamente di tornare indietro.
Considerata l'ora e la mia pressoché totale mancanza di energie
psico-fisiche, fu facile persuadermi che non sarei riuscito a raggiungere
nemmeno il Rifugio Biella, che non distava molto da quel punto.
Viceversa, unendomi al resto del gruppo, che era diretto alla baita Alpe
Ra Stua, una delle basi di partenza per le escursioni lungo il versante
veneto del parco, avrei potuto, con un po' di fortuna, rimediare un
passaggio in auto fino a Cortina, per poi cercare da lì di ritornare al
Lago di Braies con i mezzi pubblici.
Mentre mi accingevo ad iniziare la discesa in coda alla lunga fila di
escursionisti, scoppiò uno di quei brevi ma violenti temporali estivi,
piuttosto ricorrenti in montagna durante le ore più calde della giornata.
In poco tempo la pioggia raggiunse un'intensità tale che il kay-way, che
avevo indossato rapidamente, si rivelò del tutto insufficiente a
ripararmi.
L'improvviso acquazzone aveva sorpreso la comitiva allo scoperto: tutti
affrettarono il passo quel tanto che lo consentivano le asperità del
terreno e le difficoltà della discesa. Ma appena imboccai insieme agli
altri la sterrata che avevo percorso qualche ora prima, prima in discesa e
poi in salita, e che appunto conduceva all'Alpe Ra Stua, il passo spedito
si tramutò in passo di corsa alla “si salvi chi può”.
La pioggia cessò poco prima che giungessi alla baita, ma ormai ero
completamente sudato e bagnato dalla testa ai piedi.
La mia ‘movimentata passeggiata’ si concluse con un inaspettato colpo di
fortuna: tra le automobili, che a quell'ora stavano lasciando il
parcheggio nei pressi dell'Alpe Ra Stua, riuscii per caso a fermarne una
che apparteneva ad una famiglia romana, padre, madre e due figlie. Di
ritorno da una gita erano diretti proprio in una località a qualche
chilometro dal Lago di Braies.
Mi offrirono un passaggio e, appresi durante il tragitto i particolari
della mia disavventura, decisero di accompagnarmi fino al lago.
Quando alla fine mi lasciarono davanti al grande albergo, li ringraziai
calorosamente e, con il cuore in gola, percorsi i pochi metri che
separavano l'edificio dal parcheggio.
Erano quasi le sei di pomeriggio...
Chiamai Antonella correndole incontro.
Lei si voltò di scatto, sorpresa che arrivassi da quella parte.
Ci abbracciammo a lungo e sul suo volto si sciolse finalmente tutta la
tensione accumulata nelle ultime ore.
Come mi ero ripromesso dopo quella disavventura, l'estate successiva siamo
tornati in Alto Adige e dal Lago di Braies, stavolta ‘armati’ di
altimetro, cartina topografica, scarponi e zaini con tutto l'occorrente,
abbiamo ripetuto interamente ma in senso contrario, che è poi quello più
logico, lo stesso itinerario che l'anno precedente non ero riuscito a
completare.
Dal lago, infatti, abbiamo percorso il primo tratto dell'Alta Via delle
Dolomiti n. 1 fino al Rifugio Biella passando per il Buco del Giavo e per
la Forcella Sora Forno; dopo una sosta al rifugio per il pranzo, abbiamo
proseguito in direzione Nord-Ovest attraverso i pascoli dell'Alpe di
Sennes fino alla Forcella di Rio da Lato. Da lì, con veloce discesa lungo
il ripido ghiaione Quaira di Sennes e la selvaggia Valle di Rio da Lato,
abbiamo poi raggiunto la Val di Foresta ed infine il lago da cui eravamo
partiti.
Dal 1990 ho effettuato, in compagnia o da solo ( quel
‘vizio’ non l'ho mai
perso... ), circa duecento escursioni in montagna, principalmente in
Abruzzo e nel Lazio: alcune lunghe e faticose, superando anche
ragguardevoli dislivelli, altre con difficoltà di carattere alpinistico o
con condizioni meteorologiche avverse.
Eppure, a parte piccoli incidenti o inconvenienti di poco conto e qualche
errore di valutazione, spesso per cause non dipendenti dalla mia volontà,
non mi sono più trovato in situazioni del genere.
Con l'esperienza ho affinato il senso d'orientamento e la percezione del
pericolo, ho imparato a dosare le energie, a controllare le emozioni e a
non perdermi d'animo.
Ma soprattutto ho acquisito la consapevolezza dei miei limiti e, quando è
stato il caso, ho rinunciato a proseguire e sono tornato indietro.
Ogni volta che ripenso a quella mia prima, anche se imprevista, escursione
in montagna, mi domando come Antonella, che nel frattempo è diventata mia
moglie, sia riuscita durante quell'attesa snervante a non farsi sopraffare
dall'ansia e a lottare fino in fondo contro i presentimenti più negativi.
E' proprio vero: la speranza è l'ultima a morire.